martedì 25 gennaio 2011

Donna Gaines

Nel marzo del 1987, il New Jersey e l’intera America furono scosse dalla notizia del suicidio collettivo di quattro ragazzi di neanche vent’anni. Donna Gaines, rock’n’roller e sociologa, decise di andare sul luogo, una minuscola e arida smalltown, Bergenfield, per scoprire cosa c’era dietro quel desiderio che “porta alla terra di non ritorno”. Una scelta coraggiosa perché “le ragioni, le scuse, i silenzi coprono le delusioni. I sogni umani. Quello che la gente sperava di raggiungere, i loro desideri”. Quando è sul territorio, uno di quei posti di provincia che devono avere ispirato Paul Westerberg quando scrisse “anywhere is better than here”, Donna Gaines si accorge che non ha alcun strumento per confrontarsi con i genitori, o più in generale con gli adulti, fin troppo assorti nei loro problemi e poi incapaci, in modo palese, di affrontare la tragedia. Con i coetanei dei suicidi, non è molto differente: apatia e indifferenza sono due pareti dello stesso muro, la loro “terra desolata” coincide con quattro isolati delimitati dalle scuole e dalla ferrovia e il salto mortale dall’anonimato ai notiziari nazionali ha trasformato il dolore in rabbia. A volte svelata in risposte violente contro chiunque provi a superare invisibili linee di demarcazione; più spesso tradotta in minacciosi silenzi. Donna Gaines, forte delle esperienze vissute “nella strada” si avvicina con circospezione perché sa che non c’è modo di osservare asettico e scientifico e il dramma, più che sociologico e psicologico, è umano, troppo umano. Lei ha una piccola, grande chiave in più per poter aprirsi un varco e cercare di comprendere, se non proprio di condividere, il disagio di un’intera generazione. Il confronto con gli adolescenti, molti sopravvissuti a diversi tentati suicidi, diventa serrato, costante, aperto e utile perché parlando di musica (heavy metal, soprattutto), si lasciando andare a raccontare anche dell’inevitabile dramma del crescere e del trovarsi contro gli adulti, scoprendo le reali distanze tra sogni e delusioni, desideri e fallimenti. Ne esce un reportage vivido, che non fa sconti ed è capace di dare un nuova prospettiva (“Ecco cosa significa realmente cultura: redefinizione del passato nel presente”) nell’affrontare l’età, il tempo e un’America grigia e ammutolita che non sa parlare ai propri figli: “Da qualche tempo, i ragazzi trovano da soli le risposte e a modo loro interpretano le fratture dell’ordine sociale. Nonostante il degrado dei media e le disgrazie degli adolescenti, molti ragazzi americani hanno capito come sopravvivere. Hanno ricevuto meno delle generazioni precedenti, ma sono più forti e coraggiosi. Per questo meritano il nostro rispetto: se lo sono guadagnato giorno per giorno. Stiamo attraversando un periodo di declino ed è più difficile voler bene, essere forti, avere un’etica, tener fede agli ideali e restare a galla quando le cose vanno male”. Un libro forte e importante, per il suo coraggio e per la bellezza che riesce a scovare nelle pieghe della tragedia. 


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