Il doppio gioco è un’arma complicata e pericolosa, anche quando è condotto in nome e per conto della legge e della giustizia. Rush racconta, con una forma immediata, mai edulcorata, semplice, dura e diretta, la missione di due agenti della narcotici che vengono infiltrati nel milieu di spacciatori, tossicodipendenti e outsider assortiti nella cittadina di Beaumont, Texas. Kristen Cates è una giovane allieva di polizia, mentre il suo mentore e compagno, Jim Raynor, è già un veterano: insieme devono annullare le proprie identità, fingere giorno e notte, provare gli stupefacenti in quantità, per non smentirsi, e finiscono per ritrovarsi invischiati senza quasi accorgersene: “Avviene per gradi, così piano che non te ne accorgi. Le offese, le morti, le menzogne ti martellano e, alla fine, ti guardi dentro e trovi il nulla. Il vuoto. Ed è maledettamente bello non sentire male”. Oltre che il corpo di reato, la droga diventa lo strumento ideale per condire l’ambiguità dove il dovere e il diritto vengono confinati in un angolo e, alla fine, “le cose succedono. E tu ti chiedi se tradire o diventare cieco”. Il capo della polizia, Donald J. Nettle, pretende risultati perché vuole essere confermato nella sua posizione e l’inganno è velenoso e contagioso, ma anche nelle nebbie che avvolgono Rush, Kristen riesce ad accorgersi delle distorsioni: “Avrei dovuto ascoltare. Avrei dovuto dar retta a quella parte di me che da qualche punto del mio cranio mi bisbigliava sta’ attenta. Io zittivo la voce, le dicevo di tacere, di andare via, di lasciarmi stare. Avevo deciso che sapevo quello che facevo”. Troppo tardi: anche il dialogo interiore, che è una costante in Rush, è diventato ingannevole: “Compravamo molta roba, proprio tanta, ma continuavo a dirmi che era tutto sotto controllo. Venirne fuori non sarebbe stato un problema. Ero forte abbastanza. Ce l’avrei fatta”. Ore, giorni, settimane, mesi, la stessa storia. Mentre il tempo si dilata e diventa una variabile confusa, il perimetro si restringe. Kristen si ritrova in “un puntino bianco, minuscolo, piccolissimo. Uno spazio così esiguo tra l’infelicità e la gioia”. Sperimentano tutto, compresa un’overdose (per Jim), e la teoria di “combattere il crimine con il crimine”, inclusa la creazione di prove false, diventa solo l’ennesimo lavoro sporco: la sopravvivenza è l’unico obiettivo. Kristen è lapidaria: “Siamo tutti insieme. Un giorno, in una mattina di sole, vi tradirò in nome della legge. Ma per il momento, andiamo tutti in trip e ascoltiamo la musica”. Nell’aria scorrono a ripetizione AC/DC, J. J. Cale, Supertramp, Rod Stewart, Marvin Gaye, Lou Reed, Patsy Cline, Ray Charles, Willie Nelson, Johnny Paycheck, Merle Haggard, Sammy Hagar, Rita Coolidge, Neil Young e soprattutto gli Steely Dan. La colonna sonora sfuma, l’indagine giunge alla conclusione, gli arresti vengono effettuati, ma è soltanto l’inizio e Kristen Cates, una volta ripreso il suo nome, riassume così tutto il processo: “Cambia identità, buttati nella melma e gioca a ripulire le strade, poi saltane fuori e ricomincia esattamente dove hai smesso, presumibilmente come un essere umano rispettabile”. Kristen e Jim si ritrovano incastrati più volte, anche perché “gli sbirri non hanno tempo di fare domande, sono troppo occupati a restare vivi”. Vengono aggrediti a colpi di fucile, non hanno un posto dove nascondersi o dove fuggire, l’FBI li costringe a confessare gli abusi e le irregolarità e li trascina in tribunale, dove sono condannati. Il capo della polizia è già altrove, immerso nella politica, e ormai sono abbandonati al loro destino. Seguendo da vicino la liaison tra Kristen e Jim, Kim Wozencraft, ci offre uno sguardo crudo, livido e spietato dentro un mondo di ombre, difficile da cogliere, se non lasciandosi trasportare e sporcandosi le mani, proprio come succede in Rush.
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