Quella delle Bad Lands è un’enclave americana limitata, nello spazio e nel tempo, che vive ancora nella condizione selvaggia della frontiera. All’alba del 1883, trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra di secessione, l’irruzione della ferrovia e del filo spinato stanno riducendo le distanze e delimitando nuovi confini. Jonathan Raban in Bad Land (nessuna parentela, molte coincidenze) precisa che “i recinti, oltre che utili, erano anche un’affermazione concreta dell’idea che quella terra selvaggia poteva essere domata”. Le Bad Lands sono destinate a essere assoggettate: i bisonti non ci sono più, gli indiani sono stati decimati e spinti nelle riserve e nei territori, insieme ai treni, stanno per arrivare le leggi federali, come negli altri stati formalmente compiuti. La conquista del West, venduto come una terra promessa, è una vittoria coloniale e una tragedia umana. Le Bad Lands non concedono nulla: sono un’area affascinante, ma anche ostica per via del clima, delle condizioni del terreno e di minacce e imprevisti assortiti. Anche allevare il bestiame, che dovrebbe essere l’attività più pacifica del mondo, si rivela un lavoro molto pericoloso. È in questo scenario che incontriamo Andrew Livingstone, in arrivo dalla costa orientale, Lord Machray, un eccentrico e intraprendente scozzese, la famiglia Hardy, che da tempo si è stabilita nelle Bad Lands, insieme a una fiera maîtresse, Cora Benbow, e a uno scaltro cacciatore, Bill Driggs. Sono i principali protagonisti degli scontri per il controllo dei pascoli e del bestiame che ben presto, tra tradimenti e capovolgimenti di fronte, razzie e scorribande, mercenari e pistoleri, incluso Jack Boutelle, particolarmente infido e odioso, si trasformano in una vera e propria guerriglia attorno ai ranch per il dominio delle Bad Lands. La violenza e le armi, una diffusione endemica e letale, sono l’unica forma di giustizia che poi si traduce in vendetta. Lo sceriffo è troppo lontano per intervenire e non ha né la forza né la volontà per controllare le posse e le bande che scorrazzano sui crinali delle Bad Lands. Occorre difendersi (e attaccare) da soli: il legame tra Livingstone e Machray, nato da una sfida di pugilato improvvisata in mezzo alla prateria, è altalenante, ma alla fine si rivela il sodalizio più efficace. Tra le tante bizzarrie, Lord Machray oltre a un’energia esagerata, ha una solida esperienza militare. Livingstone coltiva una comprensione politica delle trattative e delle strategie e insieme riescono a tenere testa alle turbolenze che agitano le Bad Lands, ma non a quello che sta succedendo che “è un processo implacabile, a quanto pare: col tempo, il bene presente nelle cose finirà per essere corrotto, degradato al minimo comune denominatore della malvagità umana”. Una storia americana che non lascia scampo: l’epilogo, nel 1885 e con una coda all’inizio del ventesimo secolo, è amaro, senza vincitori o vinti, solo sconfitti perché “il tempo aveva stravolto tutto, ciò che prima era sbagliato ora appariva giusto e il giusto era diventato sbagliato”. Senza le vette liriche di Cormac McCarthy o la capacità immaginifica di Larry McMurtry, Oakley Hall si affida piuttosto a uno stile immediato, diretto, comunque in grado di sottolineare momenti drammatici e tesissimi così come i non pochi episodi più coloriti. La scrittura persegue in modo arguto e scorrevole (compreso l’epistolario parallelo di Livingstone) un’immagine realistica del West e Bad Lands, pur con tutti i suoi limiti, è una rappresentazione concreta della formazione degli Stati (poco) Uniti e di quello che sono diventati e del resto, se lo snodo di tutta la storia è un bordello, un motivo ci sarà.
Nessun commento:
Posta un commento