La
calligrafia è nitida, uniforme e lineare, almeno quanto ricco di
dubbi e paradossi è il contenuto del Diario
di preghiera. Un piccolo taccuino che
funziona come una carta d’identità perché Flannery O’Connor lo
riempie di appunti mentre sta scrivendo il suo romanzo d’esordio,
tra il 1946 e il 1947, partendo dall’istinto di riscrivere le
orazioni, e un po’ anche la dottrina. Il moto è spontaneo e
condizionato, alla fonte, dall’ingombrante personalità di Flannery
O’Connor: “Non intendo rinnegare le preghiere tradizionali che ho
detto per tutta la vita; ma le dico e non le sento. La mia attenzione
è sempre molto fuggevole. In questo modo sono attenta in ogni
istante”. Il rapporto con la preghiera si scioglie ben presto nel
confronto con la scrittura e di conseguenza con se stessa: “In
qualche momento insulso quando magari sto pensando alla cera per
pavimenti o alle uova di piccione, l’inizio di una bella preghiera
può salire dal mio subconscio e portarmi a scrivere qualcosa di
elevato. Non sono una filosofa altrimenti queste cose le potrei
capire”. Cerca un aiuto concreto nelle letture di Kafka, Coleridge,
Bernanos, Rosseau, Freud, Proust, Lawrence e Bloy (ce n’è
abbastanza da studiare tutta una vita) e se arriva a una conclusione
è che “La speranza, tuttavia, deve essere qualcosa di diverso
dalla fede. Inconsciamente la metto nel comparto della fede. Deve
essere qualcosa di positivo che non ho mai provato. Deve essere una
forza positiva, altrimenti perché distinguerla dalla fede? Vorrei
riuscire a fare ordine, per potermi sentire coerente da un punto di
vista spirituale. Non credo di essere io quella in grado di fare
ordine. Ma tutte le mie richieste sembrano fondersi in una, quella
della grazia, quella grazia soprannaturale capace di realizzare tutto
ciò che fa”. E’ il Diario di preghiera
di una credente piena di domande, ma le sue incertezze non riguardano
la fede, cui dedica un’energia costante (anche con una certa ironia
quando scrive: “Se potessimo mappare accuratamente il cielo alcuni
dei nostri promettenti scienziati inizierebbero a disegnare progetti
per migliorarlo e i borghesi venderebbero guide a 10 centesimi la
copia a chi a più di 65 anni”), piuttosto il suo ruolo sul mondo
terreno, in particolare la sua vocazione per la scrittura e per
l’arte. Essendo molto severa con se stessa, persino scrivere una
breve preghiera per Flannery O’Connor è uno splendido tormento
perché si trova ad analizzare con grande scrupolo ogni singola
parola, ogni motivo per cui dovrebbe inciderla sul suo taccuino.
Nonostante tutto, gli sforzi per vivere fino in fondo la fede non
sono diversi da quelli per comprendere l’utilità della scrittura:
la passione è sanguigna, intensa, reiterata e pagina dopo pagina il
piccolo Diario di preghiera
si svela così un workbook in cui Flannery O’Connor apre porte e
finestre sulle sue insicurezze e, insieme, sulle sue aspirazioni. Il
Diario di preghiera è
colmo di riflessioni sullo spirito e sulla natura della scrittura,
vista in tutta la sua difficoltà, quasi una confessione quando dice:
“Quanto è difficile mantenere qualsiasi proposito, qualsiasi
atteggiamento verso un’opera, qualsiasi tono, qualsiasi cosa. In
questi giorni trovo una certa pace nella mia anima il che è molto
bene, non ci indurre in tentazione. Il livello della storia, boh.
Lavoro, lavoro, lavoro”. E’ un’altalena di stati d’animo
estremi & assoluti, che vanno da considerazioni critiche
(“Mediocrità è una parola dura da attribuire a se stessi; eppure
mi ci ritrovo a tal punto che è impossibile non attribuirmela, e mi
accorgo addirittura mentre lo faccio che sarò vecchia e decrepita
prima di accettarla”) a constatazioni rassegnate (“Penso che
forse la speranza possa essere capita a fondo soltanto mettendola in
contrasto con la disperazione. E io sono troppo pigra per
disperarmi”) da plateali invocazioni (“Vorrei tanto riuscire ad
avere successo in questo momento riguardo ciò che voglio fare”) a
momenti di pura e semplice delusione, in cui la solitudine e
l’isolamento sembrano trionfare (“C’è così poca aria nella
mia scatola”). Eppure la forza di Flannery O’Connor è tale che
anche dopo aver strappato la sua ultima produzione perché “era
certo proprio degna di me; ma non degna di quel che dovrei essere”
(e la differenza è una preghiera in sé) aspira ancora & sempre
a scrivere un romanzo, “un bel romanzo”. Sarà La
saggezza nel sangue.
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