venerdì 31 dicembre 2010

Jason Starr

Da pendolare per lavoro, Bill Moss diventa viaggiatore per omicidio dentro una New York spettrale, anonima e livida come le acque dell'Hudson. Pagina dopo pagina matura una tensione assurda che esplode in un finale senza alcuna traccia di speranza. L’atmosfera di Chiamate a freddo è noir, cupissima, pesante, ma non si tratta semplicemente di un thriller o di un poliziesco sebbene l'ambientazione, una New York che sembra perdersi nel bianco e nero degli anni Quaranta riporti proprio a quei temi. Al contrario la trama si svolge in tempi attuali e le scenografie sono claustrofobiche: gli interni di un ufficio di telemarketing, le carrozze della metropolitana, un appartamento troppo piccolo a cinque rampe di scale di distanza dal marciapiede. E' questo il territorio in cui si muove il protagonista principale del romanzo, Bill Moss, che, lasciando perdere ogni eufemismo, è un gran figlio di puttana: moralista e depravato fino alla schizofrenia, arrampicatore sociale, mentitore innato è un folle disperato incastrato in una città più grande delle sue illusioni. O forse è un normalissimo travet del telemarketing che considera valide tutte le opzioni (compreso l’omicidio) pur di far carriera e di mantenere in piedi il suo castello di deviazioni mentali. La sua struttura comincia a scricchiolare il giorno che viene convocato a rapporto e si sente dire: “Lei mi mette in una situazione molto difficile, Bill. Posso darle un'altra possibilità e lasciarla tornare al lavoro, oppure le posso dire di andarsene fuori dalle scatole. Se non riesce a darmi una buona ragione per continuare a tenerla, ho paura che dovrò procedere con il piano B”. Le apparenze, quegli strati formalità in cui il nostro Bill riponeva le sue speranze vanno in frantumi rivelando il suo disordine e la sua follia omicida. Sarà un’altra voce, questa volta giù in strada a dirgli chi è diventato (o chi è sempre stato): “Hai l’aria di quello che pensa di essere il migliore di tutti, mentre invece sei solo un pezzo di merda. Le merde come te le vedo tutti i giorni, in giro per le strade”. Qualcuno l’ha paragonato ad American Psycho di Bret Easton Ellis, e per certi versi ci siamo, ma qui c'è qualcosa di più: Jason Starr non ha bisogno di descrivere torture o versare litri di sangue per raccontare una violenza che è endemica alle metropoli e alla realtà economica del nuovo mondo. Punta tutto sui dialoghi, che sono taglienti e inquietanti e sui geometrici spostamenti di Bill Moss, che sembra seguire un percorso già stabilito dalla sua follia. Duro, spietato, forse fin troppo realistico: a doppio taglio, perché Chiamate a freddo non è per niente consolatorio, evita qualsiasi morale e lascia al lettore lo spazio ideale per trovare un posto tanto al Bill Moss delle prime pagine, quanto a quello dell'epilogo. Pochi e del tutto relativi i difetti: qualche lungaggine, qualche ripetizione che comunque non intaccano il ritmo che è da hard boiled school anche se qui i gangster sembrano le persone più normali e i poliziotti arrivano soltanto quanto tutto è ormai finito.

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