Il primo ottobre 1998, in una libreria di Union Square a Manhattan, si incontrano Kurt Vonnegut e Lee Stringer, coadiuvati da Ross Klavan che legge anche parti dei rispettivi volumi, Cronosisma e Inverno alla Grand Central. La conversazione, con l’aggiunta di Daniel Simon prosegue all’inizio dell’anno dopo, nel corso di un pranzo al Café de Paris, un ristorante senza pretese dove gli scrittori, Vonnegut per primo, possono fumare liberamente. Il minimo comune denominatore di questo lungo dialogo autunnale è il “potere salvifico della letteratura” e già nella Prima conversazione lo scambio tra i due scrittori prende un ritmo coinvolgente. Vonnegut esordisce spiegando una delle contingenze primordiali della letteratura: “Se hai una quantità spaventosa di idee in testa, la voce per esprimerle verrà da sola, le parole giuste verranno da sole, i paragrafi usciranno bene”. Lee Stringer, che in Inverno alla Grand Central ha raccontato le sue esperienze di homeless, coglie subito l’occasione e sposta l’attenzione su un altro piano, ancora più essenziale: “Già il fatto di essere umani è una sfida. Voglio dire: ci svegliamo ogni mattina in un ambiente alieno. Di certo non è l’ambiente in cui l’uomo è stato creato. È un caotico, palpitante, frenetico, ronzante, vorticoso, pazzo ambiente alieno. Per me, in tutto questo, la sfida è quella di restare umani, di provare a compiere gesti umani, di cercare di ricordarci la condizione nella quale siamo nati”. La risposta di Vonnegut è immediata e pur essendo una diretta conseguenza dell’osservazione di Stringer riporta la discussione nell’alveo degli argomenti di partenza che poi sono sempre la scrittura e la lettura: “È importante anche tenersi lontani da tutta la baraonda televisiva e dalla convinzione che quello che sentiamo in televisione abbia una qualche rilevanza e che non si possa fare a meno di parlarne. La letteratura è l’unica forma d’arte che esiga un pubblico composto a sua volta di artisti, naturalmente. Per fruirne bisogna saper leggere. E maledettamente bene, anche”. Quando Ross Klavan li interroga sull’esistenza del “concetto di avventura di vivere” e della “necessità di comprenderla”, i due scrittori si distinguono nel ripercorrere i rispettivi approcci all’uso continuato e insistito delle parole. Lee Stringer è il primo a intervenire “Ho dovuto trovare un procedimento e una ragione per scrivere il mio libro che fossero interessanti per me e, si spera, non una perdita di tempo per voi”. Il suo punto di vista è un assist perfetto per Vonnegut che torna a tessere un’apologia dei lettori sostenendo che “devono essere dei performer, devono aver compiuto un lavoro di decodificazione a loro volta. Diventano nostri soci, perché sono coinvolti in prima persona. Ci sono arrivati da soli, in quel luogo. È una dimensione estranea, della quale noi non sappiamo nulla. Però è un piacere sapere che siano in grado di raggiungerla per conto loro. Devono farlo, altrimenti significherebbe che non sono in grado di leggere”. Nel corso del confronto vengono evocati Jack London e Shakespeare, come se fosse inevitabile (e molto probabilmente lo è davvero), ma soprattutto, Billings, il personaggio di Viaggio in paradiso di Mark Twain, con il suo barile di scritti incompresi e inediti. La sua tragedia introduce alle forche caudine della scrittura che sono comuni e conosciute a tutti gli autori perché, come dice Kurt Vonnegut, “sappiamo cosa abbia significato la nostra lotta e ci rispettiamo l’un l’altro per averla condotta”. Incalzato dai suoi anfitrioni, Stringer si fa più esplicito e preciso ricordando due aspetti indiscutibili: 1) “Non c’è nessuno a dirti se quello che stai facendo è giusto o sbagliato. L’idea di passare un anno o giù di lì a fare solo questo è terrificante”; 2) “Esiste qualcosa che tutti facciamo ugualmente. Fermarsi a pensare di cosa si tratti è quasi una perdita di tempo, eppure risuona nel lavoro di tutte queste persone”. Quello che condivide con Vonnegut è “un processo di eliminazione del superfluo”, che anche in questa conversazione sulla scrittura offre ai lettori un’idea brillante di un’avventura che resta pur sempre un’incognita. Un piccolo e perfetto livre de chevet.
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