Le
Galápagos di Kurt Vonnegut sono proprio quelle stesse di
Charles Darwin e allora toccano al rinomato ospite gli onori di casa:
“L’arcipelago è in se stesso un piccolo mondo o meglio un
satellite attaccato all’America”. I presupposti scientifici si
fermano lì eppure sono più che sufficienti a fornire il principio
irrinunciabile e comune per entrambe le interpretazioni delle Galápagos. Una coincidenza rivelata anche dall’uso dei pronomi,
quando Kurt Vonnegut raccontava la genesi del romanzo: “Ho
scritto Galápagos per il libro in sé, così come si dipinge
un quadro per il quadro in sé. Il libro era un problema tecnico e ho
passato un periodo d’inferno per farlo funzionare. Sono menzogne
creative, come se mentissi sul banco dei testimoni; tutto deve
reggere”. Tesi: un milione di anni dopo la sua estinzione,
garantita da un’apocalisse nucleare, il genere umano si è evoluto
ripartendo dall’arcipelago delle Galápagos con un manipolo
cosmopolita e caotico di naufraghi. Ipotesi: il vero habitat è fatto
di parole, e non c’è maldestro cervello (“Sia detto in lode
all’umanità quale allora si configurava: un numero crescente di
persone andava ripetendo che i loro cervelli erano irresponsabili,
inaffidabili, odiosamente perniciosi, affatto privi di senso della
realtà: in poche parole, un disastro”) o macchina, come il
Mandarax o il Gokubi (tutti da scoprire), in grado di elevarsi da
quello stato primordiale e assoluto. Vonnegut segue l’istinto,
lasciando che sia la sua progenie di personaggi (a partire da Leon
Trotsky, figlio di Kilgore Trout, disertore in Vietnam ed enigmatica
voce fuori campo) a generare da sola la trama, con un ritmo elettrico
e sconcertante, attraversato da micidiali digressioni che, in un modo
o nell’altro, prima o poi, riprendono la giusta rotta. Anzi,
proprio la tracciano, come se Galápagos fosse una sorta di
suite di jazz (molto, molto free) che, con la forza
dell’improvvisazione, aumenta e accentra la tensione. Il crescendo
è sincopato: uno scenario dopo l’altro, la visione di Vonnegut si
fa via via sempre più sorprendente. Prima è la crociera della Bahía
de Darvin, una nave che a sua volta ha tutta una storia nascosta
tra le lamiere, ad attirare un singolare campionario di “esseri
estranei alle congiunture evolutive”. Ne basterebbe già la metà,
poi arriva la guerra tra Perù ed Ecuador che, pare di capire, è
l’inizio della fine. Invece è il cardine centrale di Galápagos,
quello che spinge la nave dei folli alla deriva, e il bello deve
ancora venire perché la soluzione finale è l’apoteosi
dell’inimitabile verve di Kurt Vonnegut. L’approdo è solo
l’epicentro da dove il romanzo si moltiplica. A quel punto, Galápagos ha già attraversato fasi concitate e complesse,
magari ci si è ambientati, si è compreso il senso della crudele
ingenuità della danza delle sule o il pericolo vampiresco dei
fringillidi e Kurt Vonnegut cambia ancora registro. Irriverente,
sarcastico, spettacolare quando all’apogeo delle esplosioni
umoristiche (e non) conclude che “le persone sono quello che
sono, detto questo è detto tutto. Sotto questo aspetto, la legge
della selezione naturale ha voluto che gli esseri umani fossero
affatto trasparenti. Tutti, maschi e femmine, sono esattamente quel
che sembrano”. Un vortice di impressionante potenza, con una risata
sempre in agguato, e attenzione agli asterischi, possono nuocere
gravemente alla salute.
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