La necessità
di coagulare un'esperienza tanto vasta, come è stata la cosiddetta
Beat Generation, si è sempre scontrata con l'impossibilità di
definirne i limiti temporali, storici e stilistici. D'altra parte una
qualche forma di selezione si è resa via via sempre più
indispensabile, se non altro come prima ricognizione panoramica,
anche se l'impresa è tutt'altro che agevole come si è ben accorta
Anne Waldman: “Curare questa
antologia è stato un po' come lottare con un drago tentando di
cacciarlo in una scatola di fiammiferi”. La curiosa metafora rende
bene la spontaneità della natura di The Beat Book,
costruito con “un'attenzione concentrata piuttosto che
onninclusiva” che riporta, sì, i nomi fondamentali della Beat
Generation, i più noti e i più spettacolari (Allen Ginsberg, Jack
Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso) ma anche Lenore Kandel,
Lawrence Ferlinghetti, Lew Welch, Philip Whalen, Michael McClure,
John Wieners, Amiri Baraka (a suo tempo, LeRoi Jones) con l'omaggio a
Miles Davis, Bob Kaufman, Joanne Kyger, Gary Snyder, Peter Orlovsky e Diane Di Prima:
a cui va il merito di aver saputo esprimere con il limpido fraseggio
della poesia che “il terreno dell'immaginazione è l'assenza di
paura”. Questo è il minimo comune denominatore che rende The
Beat Book un vademecum solido e
coerente poi, come spiega con precisione Anne Waldman, “all'inizio
ciò che coinvolge, diverte e attira è il mito della Beat
Generation, il suo leggendario, la sua immagine culturale, ma alla
fine ci si concentra sulla scrittura stessa e si esulta scoprendo che
essa ancora respira”. Eccome. Giusto per rinfrescare la memoria,
ecco qualche frammento a testimonianza della diversità e della
complessità della percezione contenuta nell'indefinibile terra
comune delal Beat Generation. Una prima asserzione, lucidissima e
nello stesso tempo visionaria, di William Burroughs: “Io dico che
tutto quello che non va avanti va fuori... Ma sapete cosa possiamo
fare con la parola mettendoci un tocco speciale. E poi parlano
dell'energia che c'è in un atomo. Tutto l'odio tutta la paura tutto
il dolore tutta la morte tutto il sesso è nella parola. La parola
una volta era un virus che uccide. Può diventare ancora un virus che
uccide. La parola è troppo rovente da maneggiare e allora stiamo
seduti sul culo aspettando la pensione”. All'estremo opposto, uno
scampolo delle confessioni e delle confusioni di Neal Cassady: “Per
me coltivare una giusta amministrazione delle idee in modo da
trattenerle e da essere capace di metterle giù in modo chiaro è una
difficoltà onnipresente in cui mi si impappina la mente. Tra
l'altro, era proprio in questa linea di cercare di salvare qualcosa
per la scrittura finché sarei riuscito a imparare a farne tutto un
processo soltanto di pensare e poi mettere giù quel pensiero”. Tra
un delirio (sacrosanto) e l'altro si trova anche la dichiarazione
d'indipendenza di Jack Kerouac a John Clellon Holmes nel 1946:
“Eravamo una generazione di furtivi. Capisci? Sapevamo dentro di
noi che non serve a niente sbandierare chi sei a quel livello, ossia
al livello del pubblico;
era un modo di essere beat, cioè di impegnarci, con noi stessi,
perché per noi tutti era chiaro a che punto eravamo, stufi di tutte
le forme, di tutte le convenzioni del mondo”. Un'ambizione
rivoluzionaria, una logica da outsider, una cristallina innocenza con
cui Allen Ginsberg conclude così la premessa a The Beat
Book: “Avevamo un gran lavoro
da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito
dell'America”. La sconfitta è innegabile, la tragedia della realtà
è sempre più forte, ma, come scrive Ann Waldman “l'impulso
delicato e vivido ad afferrare il mondo al volo magicamente tramite
il linguaggio” è rimasto integro, non integrato, beato, non
battuto.
lo avevo visto, non lo avevo comprato, l'ho ordinato on line dopo aver letto la tua recensione, ciaoo
RispondiEliminaOttimo acquisto, grazie!
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