Richard Segal e la moglie Paula
sono due giovani in carriera nella frenesia workaholic di New York, scenario
perfetto per mettere in luce il confronto quotidiano con realtà ossessive e il
minimo comune denominatore che le unisce nell’incapacità di comunicare. Lei ha
appena ottenuto una promozione, ed è integrata alla perfezione, compresa la
visita settimanale dall’analista. Lui, che è un esperto venditore di software e
altri derivati informatici, sta attraversando un periodo negativo dovuto al
trasferimento in una nuova azienda e ad un’oscura ferita che emerge dal
passato. “Lo scopo del gioco è vincere” scrive Jason Starr e quando la vita è
dominata dalla competitività, in ufficio come a letto, in strada come sul campo
da tennis, le ambizioni e le frustrazioni viaggiano insieme, inestricabili. La
pressione, che pare mutuata dalla stessa architettura di New York, è opprimente
per tutti figurarsi all’interno di un matrimonio di per sé già traballante. Le
dinamiche della coppia, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, lei in trincea
di giorno e di notte, lui con una vocazione irrisolta all’alcol, diventano il
motore torbido della storia. Insieme, Paul e Richie sembrano il trionfo della
noia. Separati, sono, nello stesso tempo, mine vaganti e bersagli mobili. La tensione
è costante, a tratti insopportabile, una violenza che cova nell’alveo degli
uffici open space, dei debiti accumulati sulle carte di credito, di una vita
sempre un po’ oltre i limiti, tra il sogno dell’ufficio d’angolo con panorama
su Central Park e l’incubo della destinazione più temuta, un anonimo cubicolo
in mezzo a milioni di altri. Richie ci arriverà, per poi risollevarsi quando
deciderà di affrontare le ombre degli abusi che ha subito da bambino. I Cattivi
pensieri a Manhattan lì prendono una parabola
spietata e il romanzo, nella sua brevità, diventa durissimo e tagliente. Jason
Starr non perde tempo, la sua lingua è limitata ed essenziale, molto realistica
(fin troppo) e senza contorni moraleggianti: i personaggi si muovono veloci nel
disperato tentativo di restare a galla, non altro. L’impressione di averli già
visti con le bugie, i sotterfugi, gli inganni con cui sopravvivere alla
ragnatela di New York, è forte. Come i loro simili in Chiamate a
freddo o in Piccoli delitti del
cazzo, Jason Starr li trascina verso il
fondo, con la velocità di un videoclip. Scena dopo scena, pagina dopo pagina,
la spirale di Cattivi pensieri a Manhattan si fa sempre più stretta e se è evidente fin dalle prime battute che
né Paula né Richie hanno scampo, poco importa perché per Jason Starr esiste
soltanto il ritmo tambureggiante, i dialoghi sferzanti, le frasi tagliate a
colpi d’accetta, i rapporti umani circondati da un’ombra livida e senza
speranza. Non c’è via d’uscita, e il vagabondare di Richie è soltanto il riflesso
di un’identità che non riesce più ad afferrare e tappa dopo tappa, stazione
dopo stazione, il suo downtown train
giunge al capolinea. Si legge in una sera e fa pensare per due settimane.
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