martedì 9 dicembre 2014

Donna Tartt

Travolto dalle esplosioni di un attentato in un museo di New York, Theo Decker perde la madre e salva un piccolo quadro, Il cardellino, a cui si aggrappa come se fosse l’ultimo appiglio sulla terra. Succede tutto con “il brivido di una connessione interrotta, i secondi sul marciapiede come un singulto del tempo perduto, la manciata di fotogrammi tagliati di un film”, poi Theo viene ospitato dalla famiglia del suo amico Andy, i Barbour che, con i loro modi aristocratici, cercano di aiutarlo, per quanto possibile perché Theo è cosciente di ciò che è successo e “di sicuro non urlavo di dolore né prendevo a pugni le finestre, né facevo alcuna delle cose che uno si sentiva come me avrebbe potuto fare. Eppure a volte, senza preavviso, il dolore m’investiva a ondate, lasciandomi boccheggiante; e quando la marea si ritirava restavo a fissare un relitto coperto di salsedine, illuminato da una luce così chiara, triste e vuota, che mi pareva impossibile che al mondo fosse mai esistito qualcosa di diverso dalla morte”. Nella prima parte (e in particolare nello svolgersi del rapporto tra Theo e la madre) Il cardellino è davvero da Pulitzer, poi, come se l’onda d’urto delle bombe, cominciasse a rimbalzare, trascina la storia in un vortice di volti e suggestioni: Hobie, l’artigiano e l’antiquario che sembra in grado di sopportare tutto, persino la morte, il padre Larry e Xandra, Boris, Hart Crane, i Beatles, Bob Dylan. Dal suo approdo Las Vegas, “un enorme fanculo a Thoreau”, Il cardellino si accumula, si addensa, non si risolve, e il più delle volte è ridondante, come se Donna Tartt non fosse così sicura della corretta sequenza delle frasi, delle immagini e delle scene, e dovesse ripetersi, più di una volta. Arrivati a metà si prosegue per capire, giusto per curiosità, come andrà a finire. Donna Tartt, se non altro, ha la grazia di una scrittura accattivante e ben organizzata, agevole e pop, una sorta di Stephen King (peraltro nascosto in un paio di citazioni) senza l’elemento fantastico. Nella seconda parte, Il cardellino è assalito dai colpi di scena che si susseguono a ritmo tambureggiante, non sempre coerente, e si tinge anche di una sfumatura noir, non del tutto appropriata. In questo passaggio non si può svelare di più, per le ovvie ragioni legate alla trama e ai suoi sviluppi, ma l’epilogo è contorto, anche se tra le righe Donna Tartt spiega che “è questo che fanno tutti i veri maestri. Rembrandt. Velásquez. L’ultimo Tiziano. Giocano. Si divertono. Costruiscono l’illusione... Ma appena ti avvicini un po’, ecco che il trucco si svela e appaiono i segni del pennello. Astratti, ultraterreni. Una bellezza diversa e molto, molto più profonda. La cosa in sé e il suo contrario”. Se si prendono le dovute misure, Il cardellino si rivela un romanzo che procede per tentativi, uno strato sopra l’altro: non sempre i contorni coincidono e rimangono nella cornice. E’ un bel soufflé, forse lievitato un po’ troppo: se è vero che “tutto ciò che ha davvero valore rappresenta una scommessa”, è altrettanto ovvio che in un labirinto di ottocento pagine non sia facile trovare la soluzione.

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