mercoledì 3 dicembre 2014

Charles Bukowski

Taccuino di un vecchio sporcaccione raccoglie le rubriche che Charles Bukowski tenne su una rivista undeground, a partire dal 1967. Una condizione ideale, tanto per cominciare: “Non c’erano pressioni di nessun tipo. Bastava semplicemente mettersi a sedere vicino alla finestra, alzare la lattina di birra e lasciare che il pezzo venisse fuori da solo. Tutto quello che doveva arrivare, arrivava”. Settimana dopo settimana, il Taccuino di un vecchio sporcaccione cresce grezzo, risoluto, spontaneo perché Bukowski è proprio nel suo elemento naturale, quello autobiografico, senza altro recinto. L’elenco delle possibilità e delle opportunità è elementare: “Pensateci anche voi: totale libertà di scrivere qualsiasi cosa che vi passi per la testa. Io mi ci sono divertito, mi sono anche fatto dei problemi, qualche volta; ma soprattutto mi è sembrato di capire che, col passare delle settimane, i pezzi venissero fuori sempre meglio”. Nella felice confusione del suo taccuino, il Buk tiene insieme Satchmo e T. S. Eliot, un effervescente ritratto di Jack (Kerouac) & Neal (Cassady) attraverso uno strambo flusso di coscienza. Molto musicale nell’appuntare le vicende quotidiane di cavalli di razza e corse sconclusionate, donne e uomini che si inseguono, “party girls & broken poets” per dirla con Elliott Murphy, sullo sfondo di una città aperta tutta la notte. I frammenti del Taccuino di uno sporcaccione si agganciano uno all’altro, anche in modo disordinato e senza soluzione di continuità, comprese le licenze igieniche necessarie: “I lettori prendono da uno scrittore, o da un libro, quel che gli pare e trascurano il resto, ma quel che gli serve è quel che in realtà non gli serve mentre trascurano quel che gli servirebbe maggiormente, insomma tutto ciò mi consente di eseguire le mie piccole sante variazioni e nessuno mi disturberebbe se venissero comprese, ma in questo caso non ci sarebbero più creatori, ci troveremmo tutti nello stesso paiolo di merda. Nella situazione attuale io mi trovo nel mio paiolo di merda e loro nel loro, penso che il mio puzzi di meno”. Non manca la classica autoassoluzione bukowskiana, che collima con il paesaggio umano raccolto sul Taccuino di un vecchio sporcaccione: “Io non ero un gran genio, ma ero lontano da Atlanta, non ero ancora un cadavere, avevo delle belle mani e molta strada da fare”. Partendo da sé, Bukowski condivide una sorta di infinita apologia generale con gli outsider, con gli eterni sconfitti (“E per pessimi che fossimo eravamo la fine del mondo”), con i cronici inconcludenti, con i recalcitranti. Il suo Taccuino di un vecchio sporcaccione diventa un trionfo verboso e incontinente, caotico e sarcastico nello stesso tempo, come nella migliore tradizione bukowskiana. La percezione, a livello epidermico, è di una specie di ritmo che, anche nelle scadenze di una modesta rivista underground, diventa persino una filosofia di vita, che poi è quella di sempre: “Non potevo far altro che scolare la lattina di birra e aspettare che cadesse l’atomica”. 

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