giovedì 15 febbraio 2024

Lou Berney

In Libra, il romanzo che Don DeLillo ha dedicato a Lee Harvey Oswald, un personaggio definisce l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy “un’aberrazione nel cuore della realtà”. November Road comincia da quel fatidico e irrisolto momento della storia americana, travolta dal fatto che, come scrive Lou Berney, tutti, da lì in poi,“temevano un futuro incerto. Temevano che la loro vita non sarebbe più stata la stessa”. Se questo vale per la gente comune che si è trovata di fronte a quel varco con le immagini in bianco e nero della televisione, figurarsi per chi è stato parte della macchinazione che ha cambiato il destino di un’intera nazione. Rovistando in libertà negli annali storici, Lou Berney sceglie un punto di vista insolito, svicolando dalle verità ufficiali e trovando i suoi protagonisti nell’ombra. Primo fra tutti, Frank Guidry, un luogotenente di Carlos Marcello, imperatore indiscusso della mafia americana dell’epoca: ha portato una macchina a Dallas e ci mette meno di un secondo a capire che i suoi giorni sono contati. Ogni cospirazione che si rispetti prevede il taglio dei rami secchi, perché i mandanti rimangano occulti e al sicuro per il resto della vita. L’eliminazione del nemico è solo la parte più appariscente e pericolosa, l’ondata di angoscia è dovuta al fatto che l’organizzazione di Carlos Marcello è ramificata e spietata. Per Frank Guidry, le opzioni sono limitate e la fuga s’impone con urgenza. Lo scenario di November Road è vasto in apparenza perché comprende un bel pezzo di America, da New Orleans a Los Angeles passando per Las Vegas, ma limitato dalle pareti delle camere di motel e, ancora di più, dagli abitacoli delle automobili, dove avviene gran parte della storia. È una lotta per la sopravvivenza che Lou Berney sa gestire con il dono della chiarezza e della semplicità, facendo risaltare le limitate opportunità dei criminali e l’ottusità delle loro scelte. Ciò diventa ancora più evidente quando Frank Guidry incontra Charlotte, che è quanto di più distante da quel milieu. Lei è in fuga (con le figlie, Joan e Rosemary, e il cane Lucky) da un matrimonio asfissiante e l’incrocio dei loro destini dipende dall’idea che “non c’era bisogno che qualcuno ti predicesse il futuro se potevi creartelo da solo”. In November Road, l’autosuggestione è l’elemento per cui tutti si convincono che hanno ancora una possibilità, compreso Paul Barone, il killer sguinzagliato per eliminare testimoni e pedine sacrificabili che si lascia alle spalle un’infinita scia di sangue. L’inseguimento non ha tregua e il ritmo è dettato dal jazz (Art Pepper, John Coltrane, Miles Davis) e dalle evenienze e dagli incidenti on the road: Lou Berney usa il romanzo (noir) per mostrare come il complotto si autoalimenta, moltiplicandosi senza controllo. I suoi personaggi sono in balia delle loro stesse scelte perché è vero che “con ogni decisione creiamo un nuovo futuro. E distruggiamo tutti gli altri futuri”, ma, come un effetto collaterale imprevisto, la sensazione di insicurezza è un’ombra pesante come un sudario intriso di paura. Diceva Don DeLillo: “La gente ha sviluppato l’impressione che la storia sia stata segretamente manipolata. Documentazione persa e distrutta. Documenti ufficiali sigillati per cinquanta o settantacinque anni. Una quantità di omicidi strani e suicidi che hanno coinvolto persone implicate nei fatti del 22 novembre. Così, a partire dallo shock iniziale, istintivo, credo che abbiamo sviluppato un sentimento molto più profondo di inquietudine per la nostra mancanza di controllo sulla realtà”. November Road lo racconta in modo più prosaico, mettendo un fotogramma dopo l’altro: una telefonata, la pioggia sulla strada, una sigaretta che si accende, l’apparizione di un’arma, una portiera che si apre, un bagagliaio che si chiude, una finestra sul deserto, capolinea.

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