Fin dalla descrizione di Light My Fire, è evidente che Greil Marcus non è uno che semplifica, anzi, tende ad aggrovigliare le storie e, non a caso, cita a lungo Vizio di forma di Thomas Pynchon e Great Jones Street di Don DeLillo, due romanzi già abbastanza tortuosi, per introdurre i Doors. Ci sta perché sono creature particolari anche per la cultura pop che “è paesaggio e cambio di stagioni, guerra e pace, abbattimento di foreste e costruzione di città, ritorno alle religioni e panico morale, benessere e povertà, avventura e scoperta, cittadinanza ed esilio”. Di questo passo si arriva in un baleno a Charles Manson, ma all’inizio c’è soltanto Elvis, una bella ossessione per Greil Marcus, e non solo: “Come tanti prima e dopo di lui, Jim Morrison era consapevole che Elvis Presley aveva qualcosa che nessun altro avrebbe mai avuto, e che lui desiderava raggiungere nella maniera più appassionata, più misteriosa e meno ovvia possibile; e questo non era un segreto”. Quell’aura irraggiungibile veniva da una mutazione più ampia e profonda e, secondo Greil Marcus, “in questo scenario, i Doors erano una presenza. Erano una band che la gente sentiva di dover vedere, non per imparare, scoprire, ascoltare un messaggio o conoscere la verità, ma per essere al cospetto di un gruppo di persone che sembravano accettare il momento presente per quello che era. Nel loro comportamento generale, accigliati, non un rock’n’roll beffardo ma un’esibizione impastata di sfiducia e dubbio, non promettevano un lieto fine. Le loro canzoni migliori dicevano che il lieto fine non era interessante, e che era immeritato”. C’erano soltanto loro e i Velvet, sull’altra costa, a New York, a mettere un’ipoteca sul futuro e su questo non c’è il minimo dubbio, però le ricche deduzioni di Greil Marcus riescono a superare i luoghi comuni e ci mostrano qualcosa in più: “In certi momenti nella musica migliore dei Doors, prendiamo per esempio l’ultimo e inesorabilmente lento e tranquillo minuto di The End, puoi sentire una persona credere che quello che ha da dire valga il tempo che gli altri si prendono per ascoltarla. Poi tutto svanisce; quella persona abbandona il palco per non tornare più”. Il tempo, in effetti, è l’ossessione del breve lustro dei Doors, ma Greil Marcus procede come se seguisse una spirale, nemmeno tanto ordinata, che passa in continuazione da un piccolo particolare a una panoramica sterminata: “L’eco di quel momento sospeso è un enorme silenzio palpitante, l’esplosione con cui non finisce il mondo, e questo fu, per alcuni, precisamente come sentirono il mondo dopo la fine dell’esibizione, l’esibizione del concerto, l’esibizione dei tempi”. Coincide in gran parte, come non poteva essere diversamente, con un’accorata analisi degli anni Sessanta, dove Greil Marcus si spende con generosità per trovare qualcosa di originale da ribadire su quel periodo storico: “Questo è ciò che fa paura: il concetto che gli anni Sessanta non furono un periodo grandioso, semplice e romantico da vendere agli altri come un bel posto da ammirare, ma un posto nell’esatto momento in cui viene creato, dove la gente sa che non potrà mai abitare, e che sa non potrà nemmeno abbandonare”. Le digressioni e le iperboli di Greil Marcus sono temerarie e spesso distanti dai Doors: parla di architettura, cronaca, politica, sviluppa un’ardita connessione tra Eduardo Paolozzi e Chuck Berry, all’interno di una deviazione più ampia sulla pop art che si conclude così: “Dimentica l’arte. Tu sei un salame. Io sono un salame. Il mondo è carne”. Detto questo, quando si attiene al tema principale, non sbaglia mai bersaglio: “Se la musica con cui si presentavano i Doors diceva qualcosa, diceva che non stava scherzando. C’era una serietà di intenti a suo modo eccitante. C’era una sorta di consapevolezza sulle conseguenze: passare attraverso i drammi interpretati in The Doors significava correre un rischio, uno solo; una volta uscito potevi non essere più lo stesso. Questo era ciò che voleva la gente; questo era quello che sperava; questo era quello che ascoltavano. Quella promessa seducente era tutto ciò che ascoltavano”. Per Greil Marcus è proprio in quell’attimo che prende forma il fenomeno per cui “ciò che è destinato a scomparire è destinato a durare, dice la sfida pop a chiunque tema il pop, ma ciò che è certo è che cambierà il principio secondo il quale si presume che alcune cose siano fatte per durare e altre per essere dimenticate”. La contorsione va presa così com’è e non c’è risposta se non nel fatto che “il più delle volte ci ritroviamo arenati nella storia che va avanti senza di noi, incapaci di uccidere in noi stessi il concetto che le cose possano migliorare, o essere solamente differenti e più vive di quello che sono”. I Doors e Jim Morrison in particolare avevano immaginato e visto “il presagio che il futuro, un futuro vicino, conteneva storie che nessuno immaginava di voler ascoltare, che la gente non avrebbe potuto ignorare, che avrebbero tenuto le persone sveglie, preoccupate per ogni piccolo strano rumore, terrorizzate e disgustate dalle loro stesse fantasie”. Arrivati lì in fondo, tra tutte le erudite acrobazie di Greil Marcus, il collegamento tra Strange Days e Blade Runner appare più innato che spontaneo, e da solo spiega quanto i Doors fossero proiettati in una dimensione inesplorata.
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