sabato 13 agosto 2016

Henry Miller

Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è introdotto dalla pittura, un’arte sensibile, istintiva e complicata perché “la cosa più esasperante è l’impossibilità di catturare la luce che permea il mondo della natura. La luce è l’unica cosa che non possiamo rubare, imitare, o anche contraffare”. A capirlo, Henry Miller ci arriva proprio a Big Sur dove, dopo anni selvaggi e turbolenti, trova una routine beata e battuta, semplice e dura, una rete di anime che lo sostiene ed è meno distratto dalle evenienze cittadine, con la consapevolezza, già allora, che non si può vivere dentro “un sistema difettoso”, e non lo si può cambiare. Se Parigi era caotica e imprevedibile, Big Sur è un’alternativa più naturale: “Ha un suo clima e una personalità tutta sua. E’ una regione dove gli estremi si toccano dove si ha sempre un senso di stagione, di spazio, di grandiosità, di eloquente silenzio”. Il piccolo ossimoro svela il genius loci di Big Sur che nei consigli di Henry Miller diventa la casa ideale quando sostiene che tutto quello “che occorre all’artista nascente è il privilegio di affrontare i suoi problemi in solitudine: e ogni tanto un sostanzioso pezzo di carne”. La parte più sostanziosa Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è chiamata dallo stesso Henry Miller un “potpourri” e comprende parti del diario e delle impressioni sulla vita quotidiana a Big Sur, dove “se non sempre si parte dalla natura certo vi si arriva nell’ora del bisogno”. E’ anche un po’ un’antologia, un po’ autobiografia e un po’ vademecum per quell’aspirante artista che “deve impegnare una perpetua lotta per la sua libertà. Trovare, cioè, scampo all’insensata routine che quotidianamente minaccia di annientare ogni incentivo”. Consiglio da prendere alla lettera, anche senza particolari velleità intellettuali. Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è, infine, l’omaggio agli esploratori che si sono spinti “a ovest, terra nuova, nuove figure di terra. Sognatori, fuorilegge, precursori. Che avanzano verso l’altro mondo, lontano nello spazio e nel tempo, il mondo di ieri e di domani. Il mondo nel mondo”. Questo si capisce perché per Henry Miller Big Sur non è il buen retiro anche se la sua collocazione topografica lascia intravedere la forma di un capolinea all’estremità dell’America o il terminale di un’epopea perché l’attività è febbrile. I tormenti della corrispondenza, delle visite quotidiane e delle conversazioni si sommano all’osservazione sempre attenta a ribadire che “un piccolo errore è lo stesso che un grande errore. Al di qua del paradiso e al di là del paradiso. Una cosa vale l’altra. Vigile e disteso; vuoto e perfettamente sveglio. Al passo, ma non in divisa. Con la pistola sempre a portata di mano, ma caricata a salve. Un occhio meteorologico attento alle erbacce, i cardi, le lappole, le ortiche e i rovi”. A Big Sur anche la filosofia è frugale, e basta poco, perché “la vita è essere, il che comprende fare e non fare. L’arte è fare. Essere un poeta della vita, benché di rado gli artisti se ne rendano conto, è il summum. Espirare più di quanto si ispira. Fare tre miglia a piedi quando ti si chiede di farne due”. Si pensa molto in cerca di risposte a quella che Henry Miller definisce “la propria fame abissale di sconfinata esperienza”. Nella percezione dell’arte (e della pittura, nello specifico) e della natura, la ricchezza e la confusione nei temi e negli argomenti regna sovrana, ma la lucidità non viene mai a mancare. L’imperativo è sempre “scrivere, scrivere, scrivere” e il luogo in sé (nonostante l’isolamento, o forse proprio per quello) è uno stimolo continuo dato che “ogni creatura, ogni oggetto, ogni luogo ha il proprio ambiente. Il nostro stesso mondo possiede un ambiente che è unico. Ma mondi, oggetti, creature, luoghi, tutti hanno questo in comune: sono sempre in uno stato di trasmutazione. La gioia suprema del sogno giace in questo potere trasformativo”. Con quello, lo stile è sempre fluido, brillante, all’altezza della situazione, sia che debba spiegare i limiti logistici di Big Sur sia che s’imbarchi in voli pindarici sull’essenza stessa dell’arte e dell’esistenza, del colore dell’oceano all’alba o delle colline al tramonto. Con Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch vive in simbiosi Paradiso perduto, che però è un capitolo a parte, essendo dedicato a un protagonista delle avventure parigine (Conrad Moricand), e nell’epilogo si dilunga a spiegare che “chiunque usa creativamente lo spirito che è in lui è un artista. Fare un’arte della stessa vita, ecco il traguardo”. Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è “un’iniziazione a un nuovo modo di vita”, e l’invito (che per un po’ è stato anche un ottimo sottotitolo) resta sempre valido.

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