Big
Sur e le arance di Hieronymus Bosch è introdotto dalla pittura,
un’arte sensibile, istintiva e complicata perché “la cosa più
esasperante è l’impossibilità di catturare la luce che permea il
mondo della natura. La luce è l’unica cosa che non possiamo
rubare, imitare, o anche contraffare”. A capirlo, Henry Miller ci
arriva proprio a Big Sur dove, dopo anni selvaggi e turbolenti, trova
una routine beata e battuta, semplice e dura, una rete di anime che
lo sostiene ed è meno distratto dalle evenienze cittadine, con la
consapevolezza, già allora, che non si può vivere dentro “un
sistema difettoso”, e non lo si può cambiare. Se Parigi era
caotica e imprevedibile, Big Sur è un’alternativa più naturale:
“Ha un suo clima e una personalità tutta sua. E’ una regione
dove gli estremi si toccano dove si ha sempre un senso di stagione,
di spazio, di grandiosità, di eloquente silenzio”. Il piccolo
ossimoro svela il genius loci di Big Sur che nei consigli di Henry
Miller diventa la casa ideale quando sostiene che tutto quello “che
occorre all’artista nascente è il privilegio di affrontare i suoi
problemi in solitudine: e ogni tanto un sostanzioso pezzo di carne”.
La parte più sostanziosa Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch
è chiamata dallo stesso Henry Miller un “potpourri” e comprende
parti del diario e delle impressioni sulla vita quotidiana a Big Sur,
dove “se non sempre si parte dalla natura certo vi si arriva
nell’ora del bisogno”. E’ anche un po’ un’antologia, un po’
autobiografia e un po’ vademecum per quell’aspirante artista che
“deve impegnare una perpetua lotta per la sua libertà. Trovare,
cioè, scampo all’insensata routine che quotidianamente minaccia di
annientare ogni incentivo”. Consiglio da prendere alla lettera,
anche senza particolari velleità intellettuali. Big Sur e le
arance di Hieronymus Bosch è, infine, l’omaggio agli
esploratori che si sono spinti “a ovest, terra nuova, nuove figure
di terra. Sognatori, fuorilegge, precursori. Che avanzano verso
l’altro mondo, lontano nello spazio e nel tempo, il mondo di ieri e
di domani. Il mondo nel mondo”. Questo si capisce perché per Henry
Miller Big Sur non è il buen retiro anche se la sua collocazione
topografica lascia intravedere la forma di un capolinea all’estremità
dell’America o il terminale di un’epopea perché l’attività è
febbrile. I tormenti della corrispondenza, delle visite quotidiane e
delle conversazioni si sommano all’osservazione sempre attenta a
ribadire che “un piccolo errore è lo stesso che un grande errore.
Al di qua del paradiso e al di là del paradiso. Una cosa vale
l’altra. Vigile e disteso; vuoto e perfettamente sveglio. Al passo,
ma non in divisa. Con la pistola sempre a portata di mano, ma
caricata a salve. Un occhio meteorologico attento alle erbacce, i
cardi, le lappole, le ortiche e i rovi”. A Big Sur anche la
filosofia è frugale, e basta poco, perché “la vita è essere, il
che comprende fare e non fare. L’arte è fare. Essere un poeta
della vita, benché di rado gli artisti se ne rendano conto, è il
summum. Espirare più di quanto si ispira. Fare tre miglia a
piedi quando ti si chiede di farne due”. Si pensa molto in cerca di
risposte a quella che Henry Miller definisce “la propria fame
abissale di sconfinata esperienza”. Nella percezione dell’arte (e
della pittura, nello specifico) e della natura, la ricchezza e la
confusione nei temi e negli argomenti regna sovrana, ma la lucidità
non viene mai a mancare. L’imperativo è sempre “scrivere,
scrivere, scrivere” e il luogo in sé (nonostante l’isolamento, o
forse proprio per quello) è uno stimolo continuo dato che “ogni
creatura, ogni oggetto, ogni luogo ha il proprio ambiente. Il nostro
stesso mondo possiede un ambiente che è unico. Ma mondi, oggetti,
creature, luoghi, tutti hanno questo in comune: sono sempre in uno
stato di trasmutazione. La gioia suprema del sogno giace in questo
potere trasformativo”. Con quello, lo stile è sempre fluido,
brillante, all’altezza della situazione, sia che debba spiegare i
limiti logistici di Big Sur sia che s’imbarchi in voli pindarici
sull’essenza stessa dell’arte e dell’esistenza, del colore
dell’oceano all’alba o delle colline al tramonto. Con Big Sur
e le arance di Hieronymus Bosch vive in simbiosi Paradiso
perduto, che però è un capitolo a parte, essendo dedicato a un
protagonista delle avventure parigine (Conrad Moricand), e
nell’epilogo si dilunga a spiegare che “chiunque usa
creativamente lo spirito che è in lui è un artista. Fare un’arte
della stessa vita, ecco il traguardo”. Big Sur e le arance di
Hieronymus Bosch è “un’iniziazione a un nuovo modo di vita”,
e l’invito (che per un po’ è stato anche un ottimo sottotitolo)
resta sempre valido.
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