Mentre
il sergente della omicidi di Miami, Hoke Moseley cerca di sfuggire al
lavoro che l’ha consumato, Troy Louden è un delinquente che non riesce a evitare la follia deviante e violentissima che lo
anima. Il suo ritratto autobiografico nelle prime pagine di Tiro mancino è perentorio: “Sono un
criminale professionista, quello che gli strizzacervelli chiamano uno
psicopatico con tendenze criminali. Vorrebbe dire che sono in grado
di distinguere tra il bene e il male, ma che non me ne frega un beato
cazzo. Questa è la versione ufficiale. Quasi tutti quelli che stanno
in galera sono psicopatici proprio come me, e certe volte, quando non
ce ne frega il suddetto beato cazzo, ci comportiamo in base
all’impulso. Di solito, però, non sono un tipo impulsivo, perché
prima di mettermi a fare un lavoro ci penso e ci ripenso con estrema
attenzione”. Ciò non toglie che ci sia una folle lucidità in
quello che fa, scegliendosi compagni di sventura improbabili, ma pur
sempre sacrificabili. Appena uscito di prigione, progetta una rapina
in un supermercato con un trio di complici che sembrano un’armata
Brancaleone. La rapina finisce in un bagno di sangue, poi Troy Louden
cercherà di fuggire fino a quando, inevitabilmente, troverà sulla
sua strada l'eroe di Charles Willeford. Provato da anni sulla strada, Hoke Moseley in teoria avrebbe anche mollato il suo vecchio lavoro (per dedicarsi
ad una modestissima attività alberghiera, ma soprattutto per
salvarsi la vita), ma un’articolata serie di coincidenze lo porta
proprio nel centro del gorgo oscuro della mente di Troy Louden. Tiro
mancino diventa così, all’improvviso, un romanzo sorprendente
perché per tre quarti si destreggia in una sorta di amara commedia
esistenziale, con Hoke Moseley a confrontarsi con un inedito tran
tran famigliare, per poi confluire in un finale, la rapina e tutto
ciò che ne consegue, dove la violenza esplode brutale, a bruciapelo,
senza preavviso. Charles Willeford non deve aggiungere molto di più,
con due personaggi così: gli basta lasciarli liberi e sono capaci di
trovarsi da soli la loro storia. Troy Louden, in tutta la sua
devastante subcultura criminale, resta il vero, incontrastato, feroce
protagonista di Tiro mancino. Un vero e proprio principe delle
tenebre, che non distingue i confini morali delle proprie azioni: “La
differenza tra il bene e il male la so distinguere, ma non mi fa né
caldo né freddo. Se vedo la cosa giusta e mi va di farla, la faccio;
se invece vedo quella sbagliata, e mi va di farla lo stesso, faccio
anche quella”. Hoke Moseley, in quest’occasione più che in
altre, viene un passo dopo. E funziona (benissimo) per contrasto. In Tiro mancino è un personaggio più disincantato, quasi dolente, come se dall’alto
della sua esperienza e della sua faticosissima lotta per la
sopravvivenza, abbia semplicemente accompagnato gli altri personaggi
verso il loro tragico destino. E’ proprio questo suo ruolo,
marginale al cuore nero della storia, ma per niente secondario, a
rendere speciale Tiro mancino, come se Hoke Moseley fosse una
specie di Virgilio che accompagna Troy Louden e i suoi accoliti nella
loro discesa agli inferi.
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