martedì 9 agosto 2016

Charles Willeford

Mentre il sergente della omicidi di Miami, Hoke Moseley cerca di sfuggire al lavoro che l’ha consumato, Troy Louden è un delinquente che non riesce a evitare la follia deviante e violentissima che lo anima. Il suo ritratto autobiografico nelle prime pagine di Tiro mancino è perentorio: “Sono un criminale professionista, quello che gli strizzacervelli chiamano uno psicopatico con tendenze criminali. Vorrebbe dire che sono in grado di distinguere tra il bene e il male, ma che non me ne frega un beato cazzo. Questa è la versione ufficiale. Quasi tutti quelli che stanno in galera sono psicopatici proprio come me, e certe volte, quando non ce ne frega il suddetto beato cazzo, ci comportiamo in base all’impulso. Di solito, però, non sono un tipo impulsivo, perché prima di mettermi a fare un lavoro ci penso e ci ripenso con estrema attenzione”. Ciò non toglie che ci sia una folle lucidità in quello che fa, scegliendosi compagni di sventura improbabili, ma pur sempre sacrificabili. Appena uscito di prigione, progetta una rapina in un supermercato con un trio di complici che sembrano un’armata Brancaleone. La rapina finisce in un bagno di sangue, poi Troy Louden cercherà di fuggire fino a quando, inevitabilmente, troverà sulla sua strada l'eroe di Charles Willeford. Provato da anni sulla strada, Hoke Moseley in teoria avrebbe anche mollato il suo vecchio lavoro (per dedicarsi ad una modestissima attività alberghiera, ma soprattutto per salvarsi la vita), ma un’articolata serie di coincidenze lo porta proprio nel centro del gorgo oscuro della mente di Troy Louden. Tiro mancino diventa così, all’improvviso, un romanzo sorprendente perché per tre quarti si destreggia in una sorta di amara commedia esistenziale, con Hoke Moseley a confrontarsi con un inedito tran tran famigliare, per poi confluire in un finale, la rapina e tutto ciò che ne consegue, dove la violenza esplode brutale, a bruciapelo, senza preavviso. Charles Willeford non deve aggiungere molto di più, con due personaggi così: gli basta lasciarli liberi e sono capaci di trovarsi da soli la loro storia. Troy Louden, in tutta la sua devastante subcultura criminale, resta il vero, incontrastato, feroce protagonista di Tiro mancino. Un vero e proprio principe delle tenebre, che non distingue i confini morali delle proprie azioni: “La differenza tra il bene e il male la so distinguere, ma non mi fa né caldo né freddo. Se vedo la cosa giusta e mi va di farla, la faccio; se invece vedo quella sbagliata, e mi va di farla lo stesso, faccio anche quella”. Hoke Moseley, in quest’occasione più che in altre, viene un passo dopo. E funziona (benissimo) per contrasto. In Tiro mancino è un personaggio più disincantato, quasi dolente, come se dall’alto della sua esperienza e della sua faticosissima lotta per la sopravvivenza, abbia semplicemente accompagnato gli altri personaggi verso il loro tragico destino. E’ proprio questo suo ruolo, marginale al cuore nero della storia, ma per niente secondario, a rendere speciale Tiro mancino, come se Hoke Moseley fosse una specie di Virgilio che accompagna Troy Louden e i suoi accoliti nella loro discesa agli inferi.

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