C’è un bel riassunto della poetica di Emily Dickinson in La natura è melodia, pur trattandosi di un’antologia che segue un tema specifico. “Così guardando, la notte, il mattino concludono la lieta meraviglia, ed io incontro, attraverso la rugiada, un altro giorno estivo” scrive nel 1859 e poi, come immediata e diretta conseguenza, si ritrova “in un comune mattino d’estate” a coltivare un percorso trasversale che poi comunque riporta alla sua personalità (“Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stesso e non qualcun altro”) come scrive Margherita Guidacci nell’introduzione: “Ma il necessario presupposto di ogni ricerca tematica è il riconoscimento della comune origine dei temi della Dickinson, della loro riconducibilità a quello che per lei potrebbe ben definirsi il tema dei temi: il suo fondamentale senso dell’esistenza, la consapevolezza dell’immensa importanza e dignità di un’anima lanciata nell’avventura della vita”. Il confronto con gli elementi della flora, degli animali, che chiama “i nostri piccoli parenti”, con l’intimo rapporto con la terra (“Dalla zolla, così d’oro e scarlatto sorgerà più d’un bulbo che scaltramente fu nascosto ad occhi esperti. Dal bozzolo, così, balzerà più d’un verme con tanti lieti colori. I contadini come me i contadini come te lo guardano perplessi”) è esplorato fino a giungere alla conclusione che la “natura è melodia. Natura è ciò che conosciamo, ma non sappiamo esprimere: così impotente la nostra saggezza contro la sua semplicità”. È un passaggio fondamentale, come spiega ancora Margherita Guidacci, “proprio perché la vita ha più protagonisti, il suo dramma è tanto interessante. Essa non consisterà in un monologo, ma in un dialogo; uno scambio di messaggi fra le varie presenze che si rendono reciprocamente testimonianza”. Il rapporto con la natura è spontaneo e immediato, costruito nell’amalgama di stupore e ricercata attenzione, e viene però raffinato dalla scrittura, ed espresso nelle parole, misurate e collocate sullo spazio della pagina come se fossero note musicali. Su tutte, le descrizioni delle api che si susseguono in un crescendo lirico e si avvalgono di una conoscenza intuitiva, ma funzionale, quando scrive: “Un’ape ad una rosa s’accostò audacemente col suo cocchio brunito; poi scese, passeggero ed insieme equipaggio. La rosa quella visita accolse con aperta serenità, senza occultare un petalo alla sua cupidigia. Consumato l’istante all’ape non rimase che la fuga, ed alla rosa, del suo rapimento soltanto l’umiltà”. Si tratta di una ricostruzione che ha qualcosa di scientifico celato nella rarefatta economia dei versi, anche se la Dickinson in un altro passaggio ammette la difficoltà nell’esprimerlo: “Il mormorio d’un ape ha una magia per me. Se mi chiedi perché, più facile è morire che dirlo”. Tant’è che la sua trasfigurazione, alla fine, riveste un carattere visionario: “Per fare un prato occorrono un trifoglio ed un’ape, un trifoglio ed un’ape e il sogno. Il sogno può bastare se le api sono poche”. La forma dell’ammirazione muta e si adegua di volta in volta, ma si propaga come “un amico; una saggezza senza volto o nome; una pace di sfere in armonia”, fino a un’altra mattina a cercare “la delizia e l’estasi”. Sono i motivi determinanti a spingere la Dickinson a dire che La natura è melodia e se “insegnarla è impossibile”, resta l’idea di uno spettacolo da contemplare, quando “vela il tramonto e svela: fan più intensa ogni vista minacce d’ametista e fossi di mistero”, ammettendo persino che “quando la primavera svanisce, v’è il rimorso di non averla guardata abbastanza”. L’eleganza e l’essenzialità delle frasi è dovuta proprio al fatto che “la terra ha molte note” ed Emily Dickinson riesce a sentirle tutte.
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