Marito
e moglie (lo stato civile definisce anche i nomi dei protagonisti)
vivono nel matrimonio la difficoltà di comunicare, con se stessi, e
con gli altri. Sono giovani, colti, titubanti, sempre collegati,
sempre pensierosi. Il marito è pratico, limitato, evanescente. Sogna
il pianoforte, si accontenta di mantenere la famiglia che ben presto
si allarga con l'arrivo di una figlia di particolare vivacità. La
moglie è una ragazza che convive con con un tantino di problemi
irrisolti. E' convinta che “amore
è la parola che usano gli uomini per indorare la pillola” ed è
tormentata dalla sua costante crisi di identità. Vorrebbe essere un
mostro di artista, vorrebbe essere felice, ma come dice uno dei suoi
poeti preferiti, Rainer Maria Rilke: “Le opere d'arte sono sempre
il frutto dell'essere stati in pericolo, dell'aver vissuto
un'esperienza sino a un punto oltre il quale non si poteva andare”.
Lei si ritrova a insegnare e a scrivere un libro sui voli spaziali
per un eccentrico magnate e nel frattempo è incastrata nel
matrimonio, dalla maternità e dagli angusti confini della città. E'
sicura soltanto che “un uomo va in giro per il mondo in cerca di
posti dove si possa stare immobili e in assoluto silenzio. Pensa che
sia impossibile trovare la calma in città perché non si possono
sentire gli uccelli cantare. Le nostre orecchie si sono evolute per
farci da sistemi di allarme. Dove non ci sono uccelli che cantano,
siamo in grande allerta. Vivere in città significa stare sempre sul
chi vive”. L'equilibrio è fragile, le parole che non si sommano ai
pensieri (e viceversa): la moglie diventa sempre più insofferente,
il marito, con una deviazione che pare inevitabile, la tradisce con
un'altra “più alta? Più magra? Più tranquilla? Più facile, dice
lui”. L'atmosfera è quella plumbea e malinconica delle canzoni
dei National, compreso l'esodo dalla città, da quella particolare
porzione che è Brooklyn, e nelle coincidenze c'è l'imbarazzo della
scelta tra Afraid
of Everyone,
Terrible Love, Baby, We'll Be Fine e
persino Looking
for Astronauts.
Il suggerimento dell'ipotetica colonna sonora vale anche come omaggio
all'arte della citazione sfoggiata da Jenny Offill che dissemina
Sembrava
una felicità di
una lunga teoria di motti, versi, aforismi che mettono
la lettrice un passo avanti rispetto alla scrittrice.
La sua scelta, per l'occasione, è fatta di un tono essenziale,
persino algido a tratti, compresso in schegge
taglienti, brevi paragrafi composti da una proposizione (o due), a
volte da una sola riga. Quest'attitudine, insieme pop e poetica, si
risolve in una scrittura che pur apparendo frammentaria e
caleidoscopica nel suo svolgersi ha un'attenzione maniacale alle
emozioni dei suoi personaggi, tanto che la moglie, già all'inizio di
Sembrava
una felicità, quasi
intuendo le future orbite esistenziali, dice: “Ricordati di quel
cartello, di quell'albero, di quella strada dissestata. Ricordati che
ci si può sentire così”. Non si capisce se è l'ennesima epigrafe
(a quel punto, e siamo solo nelle prime pagine, sono già apparsi,
tra gli altri, Socrate e Nabokov) o se Jenny Offill e va bene così
perché il gioco tra lettrice e lettore continua fino alla fine.
Originale.
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