Ebreo, fariseo, cittadino romano, sarto e studioso, persecutore e martire, la figura di Paolo alias Saulo di Tarso è ancora oggi discussa dagli esegeti sia per il mutevole contesto, sia per numerosi dettagli storici e biografici. Dal canto suo, Johnny Cash la racconta collocando in una cornice necessariamente semplificata l’occupazione romana, il Sinedrio, e poi Gamaliele, Pietro, Giacomo, Barnaba, Sara e tutta una pletora di personaggi che, nella dimensione del sogno, delle visioni e dei miracoli, corroborano la trasformazione dell’apostolo Paolo. Nella sostanza, la forma è quella di un romanzo storico che Johnny Cash in modo molto pragmatico riesce a trasformare in una ballata districandosi tra tre lingue (ebraico, greco, latino) e estrapolando dalla Bibbia le frasi, i versetti, i salmi che finiscono accanto alle sue parole, senza timori reverenziali e senza soluzione di continuità. Un’operazione di equilibrismo, tra teologia e narrativa, che rende l’interpretazione della conversione di Paolo secondo Johnny Cash quasi un western, almeno nella scenografia e nella descrizione dei paesaggi e delle azioni, che risultano avvincenti. Attorno alla figura di Paolo, che troverà compimento a sua volta con il martirio, scatta un processo di identificazione, in gran parte irrisolto, perché come diceva Johnny Cash nella sua autobiografia: “Avrei voluto avere la sua stessa forza”. Non di meno, Paolo si adatta benissimo alla visione di Johnny Cash che, secondo uno dei biografi più accreditati, Steve Turner, “scriveva del peccato non in modo astratto, ma come qualcosa che aveva conosciuto intimamente”. Anche la storia di Paolo, in fondo, è ispirata dalla ricerca della redenzione, che diventa il leitmotiv inseguito con ostinazione da Johnny Cash. All’inizio della metamorfosi siamo ancora a Gerusalemme ed è nell’affermazione dell’illustre Nicodemo che vanno percepiti i primi segnali: “Questi occhi hanno visto molta morte e, dopo aver riflettuto, devo dire che gli uomini farebbero meglio a smetterla di assumersi la responsabilità di causare la sofferenza e la morte di altri uomini”. Nella ricostruzione di Johnny Cash, Paolo, che all’epoca aveva ancora il suo nome originale, Saulo, si rende complice del martirio di Stefano e il suo eccesso di zelo nel condannare e perseguire le comunità protocristiane, ovvero “i seguaci del nazareno”, lo conduce verso Damasco. Sulla strada, in una scena raccontata da Johnny Cash senza fare economia di effetti speciali, giunge, come è noto, la proverbiale conversione in un tripudio di luce, da cui discende anche il titolo, L’uomo in bianco. Nella fede, ecco, c’è il comune afflato verso gli ultimi: come diceva nella prima lettera ai Corinzi “siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi”. È una condizione familiare per Johnny Cash che riesce a vedere in Paolo un modello: “Era un uomo con una missione precisa, incapace di stare fermo, sempre preso da nuovi progetti, e in questo gli assomiglio molto. Il suo modo di fare è diventato il mio. Mentre sono in viaggio e devo affrontare nuove strade, cerco di fare leva sulla stessa forza che Paolo aveva trovato”. Poi nella costruzione pratica del romanzo, Johnny Cash si concede qualche libertà, che generano piccole sviste, e un paio di situazioni curiose. In un passaggio parla di fare le valigie, un termine che avrebbe senso giusto all’inizio del ventesimo secolo, e in un altro della forza di gravità, che sarebbe stata scoperta soltanto millecinquecento anni dopo, ma come direbbe Sant’Agostino “il tempo non è inoperoso né oziosamente trascorre sui nostri sentimenti e produce nell’animo meravigliosi effetti”. Interessante.
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