Nell’incipit
di Le cose che restano Jenny Offill traduce subito “una
parola in codice per cielo blu”, proprio come Joan Didion definiva
quel momento in cui “il crepuscolo diventa azzurro” e le Blue
Nights preannunciano “un cambiamento di stagione, non proprio
un clima più caldo, niente affatto, eppure all’improvviso l’estate
sembra vicina, una possibilità, o meglio una promessa”. Il senso
di quell’istante è tutto nel colore e le differenti tonalità sono
l’essenza dello scorrere di Le cose che restano, che pare
diviso in tre fasi. La prima parte è proprio dell’intensità delle
“blue nights”. Il cielo indaco, sereno, immerso nella luce
nasconde qualcosa di indefinito nell’aria e l’intuizione di una
speranza disattesa si trasforma in una premonizione. Per comprendere
Le cose che restano serve la conoscenza di tutta una geologia
dei sentimenti, che risale alla lingua segreta parlata dal nonno
(l’annic, che avrà un ruolo non secondario) e Jenny Offill ha una
sua delicatezza nell’incontrare e nel presentare di la famiglia
Davitt (Anna, la madre e Jonathan, il padre) disegnando una
dimensione incantata, con lo stupore di Grace, la figlia. E’ sua la
voce che traccia le distanze rispetto al mondo complicato e confuso
degli adulti con i loro riti e le loro stravaganze. Gli sbalzi
d’umore di entrambi i genitori, la precarietà di una condizione
tra la razionalità di Jonathan e l’eccentricità di Anna con
l’aggiunta delle oscillazioni di Edgar, il suo baby sitter, cui
sogno è illuminare la città con una muffa fosforescente sono gli
ingredienti che determinano l’evoluzione della specie e
l’involuzione dei legami. Visti dagli occhi di Grace e data la
propensione scientifica dei personaggi viene spontaneo a pensare a
quello che scriveva Charles Darwin nella Ricapitolazione e
conclusione, ovvero come “a prima vista niente può sembrare
più difficile che il credere che i complessi organi e istinti si
siano perfezionati non con mezzi superiori, sebbene analoghi, alla
ragione umana, ma per l’accumulazione di innumerevoli lievi
variazioni, ciascuna utile al loro possessore individuale”. La
metamorfosi della storia si compie anche nei toni che, nella seconda
nuance, pur non essendo molto differente dalla prima diventano più
marcati, come se fosse pervasa da riflessi elettrici. Le parti
combaciano e il brio iniziale quasi comico si trasforma, anche se Le
cose che restano mantiene una sua fluidità e una sua identità
che resta inalterata anche quando, dalla metà in poi il ritmo
diventa convulso. Grace è prigioniera (come è inevitabile) delle
proiezioni e delle variazioni d’umore della madre e la vena di
follia di Anna si rivela contagiosa. Le stravaganze diventano sempre
più bizzarre, Grace fugge con lei dal Vermont a New Orleans fino al
deserto californiano, dove il miraggio si spezza. Le cose che
restano passano dalla presenza, alla partenza e, arrivate allo
stadio terminale dell’assenza, la variazione dominante sfuma nel
blues, in tutti i sensi. Bisogna ammettere che, con Le cose che
restano, Jenny Offill ha molta più dimestichezza con i contorni
indefiniti, quando tutte le possibilità sono ancora all’orizzonte,
magari nascoste in un alone di mistero o circondate da un’aura
impalpabile. E’ molto più brava a nascondere, che a svelare.
Quando le differenze si manifestano e diventano solchi e confini
invalicabili e il ritmo diventa più convulso, Jenny Offill, che è
molto vicina al cuore dei suoi personaggi, pare perdere il controllo
con loro e la verità è che Le cose che restano sono comunque
quelle allineate nella prima fase del romanzo, dove l’attrito tra
il mondo degli adulti e la meraviglia di Grace provoca scintille,
magie, colori da immaginare.
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