L’indecisione
che regna sovrana nell’incipit, una pagina di ripetute negazioni, una porta
che non si apre, è già un’indicazione allarmante. Si capirà, più
avanti, che lo stile titubante e, a tratti, scolastico che sottolinea
La fortezza
è dovuto a un particolarissimo narratore, i cui limiti sono
espliciti e concreti. Tra l’altro, non è l’unica voce ad avere
qualche problema con i fondamentali della scrittura, perché La
fortezza si sviluppa
su più piani e più tempi. Jennifer
Egan non è nuova a soluzioni temerarie e a scomporre il flusso
narrativo (con ottimi risultati come è stato per Il
tempo è un bastardo)
seguendo l’istinto essenziale dell’idea che “sei tu che inventi
la storia, sei tu che la racconti, e a quel punto sei libero”.
Tutto comincia quando Danny, un loser con la mania per la
connessione, vola da New York verso un non meglio identificato
villaggio mitteleuropeo dove La
fortezza
è stata acquistata da Howie alias Howard, un vecchio amico
d’infanzia che ha l’idea di trasformarla in un resort
rinascimentale, privo di contatti analogici e/o digitali, per
riaccendere la fantasia. Tra lui e Danny c’è un antico e doloroso
segreto che resta sospeso sopra La
fortezza
come un’inevitabile spada di Damocle. Il carattere kafkiano del
soggetto viene svolto, almeno nel filone centrale, con una serie di
colpi di scena, episodi e salti nel buio degni di Stephen King, dove
la trama sembra riflettere la condizione di Danny, che “sapeva solo
di vivere più o meno in un costante stato di attesa per qualcosa che
da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, cambiasse tutto
quanto, ribaltasse il mondo su se stesso e rimettesse in prospettiva
la sua intera vita trasformandola in una storia di assoluto successo,
perché ogni inghippo e avvitamento e intoppo e casino non aveva
fatto altro che condurre a quello”. Inoltrandosi nel romanzo, si
scopre che per La
fortezza,
Jennifer Egan ha architettato un meccanismo che funziona come una
reazione a catena con i diversi (e parecchi) strati del racconto che
si innescano uno con l’altro. Se la scrittura resta solida è
perché Jennifer Egan supera i suoi alter ego, ma la natura della
trama non va oltre un assemblaggio, particolarmente ardito. Si
capisce l’ipotesi di superare una narrativa che è frutto dell’idea
di “catturare fantasmi”, agendo sulla forma, sulle immagini,
sulle dimensioni parallele solo che spesso è piuttosto la confusione
a risaltare. Nel corso della storia, quella che a volte pare soltanto
un traccia, poi diventa l’elemento decisivo, poi viene dimenticato.
I passaggi dall’incoscienza alla realtà, dal racconto dentro il
racconto, da un tempo all’altro, si intersecano con un uso
disinvolto (forse fin troppo) della prima e della terza persona, a
volte persino una dentro l’altra. Tirando le somme, nell’arco del
romanzo ci sono (almeno) due narratori che non lo sanno fare e una
scrittrice, Jennifer Egan, che lo so sa fare benissimo, ma che
fingendosi uno e poi l’altro, alla fine sembra esserne assorbita.
La storia zoppica come Danny, la coerenza svanisce insieme a
personaggi impalpabili, l’intenzione va a corrente alternata come
gli umori di Howie, il finale arriva frettoloso e La
fortezza
resta rigida custode di un’idea tanto ingegnosa quanto irrisolta.
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