Il regno della paura è un’estesa attraversata nel mare tempestoso di Hunter Thompson, che è infestato di ogni genere di squali. Non è un caso, perché il più delle volte i guai se li va a cercare, visto che Hunter Thompson colleziona deliri che usa come diversivi per depistare il lettore e, con ogni probabilità, anche i suoi nemici, ma nel centro della sua scrittura c’è sempre un’opposizione al potere in tutte le sue forme ed espressioni, prima fra tutte la censura. Del resto, il primo rilievo che distingue Il regno della paura è che “viviamo in un’epoca pericolosa. Abbiamo eserciti potenti e spendiamo miliardi di dollari per nuove prigioni, eppure le nostre vite continuano a essere dominate dalla paura. Siamo pigmei smarriti in un labirinto. Non siamo in guerra, stiamo per avere un crollo nervoso”. All’inizio ha le sembianze di un memoir, dove il Doc si dilunga nel retroterra dell’infanzia, in cui già mostrava un carattere indomito, poi si allarga a macchia d’olio, accelerando nelle divagazioni con una prima ammissione dell’adesione alle gesta dei suoi eroi: “Sissignore, ecco il mio mito. Sono partito da Mitchum, Burroughs, Marlon Brando, James Dean e Jack Kerouac che non avevo ancora vent’anni e non sono più tornato indietro. Se compri il biglietto, devi farti il viaggio”. Più avanti non mancano le occasioni per scontrarsi con le istituzioni, prima fra tutte la fragorosa candidatura a sceriffo di Aspen, Colorado. La cronaca della bizzarra campagna elettorale occupa Il regno della paura nella sua parte centrale ed è in quel frangente che Hunter Thompson riesce a convincerci che “miti assurdi e leggende bizzarre sono moneta corrente nella nostra cultura, come password o chiavi per la sopravvivenza”. Ed è lì che nonostante una lunga teoria di passioni smodate (le armi, l’alcol, gli additivi chimici e naturali, le polemiche, gli scherzi, le auto e le moto, il rock’n’roll), il Doc si concede come non mai a dissertare sull’origine della propria scrittura. A suo modo, la prima ammissione è sorprendente: “Non ho ancora trovato una droga che si avvicini allo sballo che dà stare seduti alla scrivania cercando di immaginare una storia, non importa quanto bizzarra, entrano e uscendo dall’assurdità del reale”. In un secondo tempo, è ancora più esplicito nel confessare lo stupore di fronte all’unica forza che può convivere con Il regno della paura: “Di tanto in tanto, ma non spesso, ci si mette al tavolino e si riesce a scrivere qualcosa che farà venire la pelle d’oca alle persone per il resto della loro vita; un ricordo perfetto, come una visione, e le parole scivolano via dalle dita rimbalzando in giro come perline, poi vanno finalmente a posto e si allineano come volevi tu... Wow! Guarda che roba! Ma chi l’ha scritta?”. Non è l’unica epifania, anche perché Hunter Thompson si concede spesso e volentieri alle lusinghe del rock’n’roll e si lascia trascinare dalle canzoni. Scrive un intero capitolo ascoltando i R.E.M. alla radio (e rubandogli i ritornelli), richiama Bob Dylan, e Lou Reed con l’immancabile Walk On The Wild Side, nonché i Los Lobos con One Night One Time In America, ma arriva ad affermare che “certe notti sono ancora convinto che se anche la lancetta del serbatoio indica che la benzina è finita la macchina può fare altri cento chilometri se alla radio c’è la musica giusta ad alto volume. Una Cadillac di lusso, nuova, fa anche o trenta chilometri in più con una dose di Carmelita. È stato ampiamente dimostrato”. Lo sapeva Warren Zevon, che l’ha scritta, e l’aveva capito anche Willy De Ville, uno che se ne intendeva di certe cose. D’altra parte “la vita è una graduale liberazione dall’ignoranza” e se “ci sono giorni in cui hai ciò che vuoi e altri ciò che ti serve”, conoscere quei due o tre modi per schivare Il regno della paura è pur sempre utile. Qui Hunter Thompson suggerisce metodi e follie, con una tale nonchalance che lo rendono il suo primo libro da avere. Tutti gli altri verranno di conseguenza, è inevitabile.
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