In un certo senso, per Bukowski è una sorta di ritorno a casa essendo nato ad Andernach, sul Reno. L’occasione è un tour promozionale in Germania tra reading, interviste, incontri e scoperte locali. Bukowski parte con tanta buona volontà, proclamando: “Ho letto tutti i dannati libri e adesso sono uno scrittore col bicchiere in mano e sto attraversando il grande Atlantico con Sherwood, Ernie, Ezra e Linda Lee”. Lei è il vero punto fermo di una liaison movimentata (“Continuavamo a incontrarci ogni giorno, e ogni notte, senza risolvere nulla e senza alcuna speranza di risolverlo. La perfezione”) e di un viaggio picaresco che vede Bukowski in compagnia dei suoi editori nonché dal fotografo Michael Monfort, che lo ritrae in tutti i momenti della giornata. Le immagini in bianco e nero svelano molto dell’uomo Bukowski. Lui e Linda avvolti in una coperta. Gerry and The Pacemakers in un cartellone accanto al suo. Bukowski che se ne va in giro a visitare le cattedrali, prende un battello, fa shopping comprando “un bel po’ di vino” e anche “due impermeabili, perché pioveva sempre”. Scorrono le tappe di Colonia, Amburgo, Mannheim. È il 1978, in Germania le misure di sicurezza comprendono l’esercito negli aeroporti, il clima è uggioso e un velo di malinconia si cela dietro l’irruenza naturale di Bukowski. Negli incontri, gioca con il suo personaggio, che gli riesce sempre bene, e le fotografie di Michael Monfort lo trovano con puntualità. Ad Amburgo, dove le puttane “erano bellissime quel giorno”, l’introduzione è questa: “Sopravvivenza per mezzo di stronzate. Avevo vagabondato per l’America dieci anni su quindici nelle peggiori condizioni possibili, vale a dire inedia, prigioni, donne ignobili o senza donne, lavori ignobili o senza lavoro. Mi ero seduto nei bar più schifosi immaginabili per tutto il paese, avevo fatto piccole commissioni, un sacco di scazzottate, alcune le avevo prese (la maggior parte), alcune le avevo vinte. Posso averne persa la maggior parte perché ero denutrito e ubriaco oltre a non provare alcun interesse nel combattere, ma a volte non c’era nient’altro da fare. Ero l’intrattenitore da due soldi, il pagliaccio e dovevo escogitare trucchetti per bere gratis”. Nelle interviste, dove è piuttosto evasive, si concede qualche divertissement e rispondendo a una domanda molto generica sui suoi gusti, risponde: “Mi piace Thomas Carlyle, la Madama Butterfly e la spremuta d’arancia con dentro le bucce. Mi piacciono le radioline rosse, gli autolavaggi, i pacchetti di sigarette schiacciati e Carson McCullers”. Nel turbinio degli appuntamenti, che disorienterebbe chiunque, Bukowski trova comunque un modo per difendersi, e non gli riesce difficile enunciarlo: “La gente mi ha sempre detto che non dovrei mai fidarmi delle mie impressioni, quindi ho chiamato con un cenno la cameriera e le ho fatto segno di portarcene ancora tre e sono ritornato popolare, vero e molto umano”. Tutto comincia e finisce, inevitabilmente, a Parigi, dove Bukowski sembra ritrovarsi, per quanto nutra sentimenti ambivalenti, sia verso la città che verso se stesso in versione turista per caso: “Che scrittore del cazzo ero stato, non avevo annotato i nomi delle città e dei posti, le vedute, le sensazioni e i sentimenti grandiosi. Quel genere di cose era in ogni caso spazzatura. Perfino i contemporanei ammettevano che Parigi non era più come una volta. Ma a me sembrava un posto come qualsiasi altro dove ammattire”. Al momento di tirare le somme, non si fanno sconti, e probabilmente non li avrebbe fatti nemmeno Shakespeare, ma Bukowski sa sfoderare ancora una volta tutta la sua verve e dalla sua trasferta europea manda una cartolina molto esplicita: “Parigi beveva e mangiava tutta la notte; a differenza degli americani i francesi non pensavano mai al giorno seguente. O almeno a me sembrava così. E, come sempre, il cameriere francese era gentile ed efficiente. Ero ancora alla ricerca del cameriere francese snob. Suppongo che avrei dovuto fare un altro viaggio. Ricordo poco della serata, abbiamo bevuto e mangiato e bevuto e bevuto. Sembrava come se tutti vivessero bene, come se l’esistenza fosse tutta una farsa”. Irriducibile.
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