mercoledì 5 agosto 2020

George Prochnik

Con l’avvento del nazismo, Vienna si svuota. Fuggono tutti e della città cosmopolita, festosa, effervescente restano solo ombre e rimpianti sotto la lugubre egida della svastica. Si defilano, appena possono, gli scrittori, i drammaturghi, i musicisti, gli intellettuali perché, come scriveva Heinrich Mann (il fratello di Thomas Mann) “coloro che scompaiono sono i primi a scoprire cosa ha in serbo la storia”. Goebbels, con la consueta sagacia, li avrebbe definiti “cadaveri in congedo”. L’esilio era un effetto collaterale del suicidio dell’Europa e la fuga l’unica prospettiva umanamente comprensibile. Anche la famiglia di George Prochnik scappò da Vienna nel 1938 e per vie rocambolesche, passando prima dalla Svizzera, poi dall’Italia, raggiunse New York. Il tragitto si sovrappone, in parte, a quello seguito da Stefan Zweig ed è uno dei motivi che ha spinto George Prochnik a indagare sul suo esilio, come su quello della sua famiglia: “Mi ci è voluto parecchio tempo per capire quanto sia andato irrimediabilmente perduto nel corso della tormentata fuga della mia famiglia. Se appena un terzo degli ebrei europei è riuscito a sopravvivere a Hitler, solo una minima parte dei fuggitivi è riuscita a mantenere intatte la propria identità e la propria umanità. La vita di Zweig in esilio mi attrae proprio perché presenta, come in un tableau vivant, tutti gli stadi tipici dell’esperienza del profugo, condivisa da tutti coloro che tentavano di sfuggire a uno Stato divenuto assassino. La sua storia, poi, getta nuova luce sulle difficoltà personali causate dall’esilio, che non si risolvono una volta guadagnata la libertà”. Stefan Zweig cerca rifugio “dagli ingranaggi impazziti della storia mondiale” prima a Bath, nel Regno Unito, poi a New York e infine in Brasile, dove è accolto e accudito con tutti gli onori, come una celebrità. Ma qualcosa non va: la ricerca di una nuova identità si scontra con la tensione, l’insicurezza, il dubbio al punto che Stefan Zweig dice che “c’è un misterioso piacere nel trattenere il proprio intelletto e la propria indipendenza spirituale, soprattutto in un periodo in cui dilagano confusione e follia”. La sensazione di essere comunque fuori posto, di appartenere soltanto a un mutevole caos di bisogni e urgenze rivela che “l’esilio non è una condizione stabile, ma un processo”. Nella raffinata e documentatissima ricostruzione di George Prochnik risaltano i tentativi di Stefan Zweig di adattarsi alla nuova realtà, che diventano evidenti quando riflette quello che diceva Friedrich Schiller: “Scrivo da cittadino del mondo. Ho presto scambiato la mia patria con l’umanità intera”. Ben presto, quell’intenzione si risolve si risolve in un’assidua routine, destinata a consolidare la dignità dello scrittore, ma con ben poche speranze da inseguire, al punto che scrive al suo editore americano, Ben Huebsch: “Non ho niente da riferire se non che qui è tutto molto tranquillo e che lavoro intensamente, quasi senza interruzioni”. L’esilio impossibile si regge sull’eleganza di un equilibrio che George Prochnik sviluppa con grande attenzione e uno spiccato senso della misura (soprattutto nei confronti del lettore) nel cercare con insistenza di rendere intellegibile la convivenza tra il mondo coltissimo di Stefan Zweig e le dure conseguenze dell’esilio. Compreso il tragico finale, dato che, secondo George Prochnik, “non riusciva a liberarsi dalla sensazione di non appartenere più a nessun luogo e di non aver più un posto dove andare. Ogni cosa che faceva, ora, pareva contenere allusioni alla fine di tutto. L’attrazione del nulla. Erano rimasti il tutto o il niente, senza più vie di mezzo”. In effetti, l’ultima lezione diStefan Zweig suona come un monito e un appello allo stesso tempo: “Non amo i vincitori, coloro che trionfano, ma gli sconfitti, e penso che sia compito dell’artista rappresentare i personaggi che hanno resistito alle tendenze del loro tempo e sono caduti vittima delle proprie convinzioni”. È un lungo viaggio, un efficace vademecum sulla natura dell’esilio, ma anche una testimonianza indelebile degli effetti delle peggiori follie del ventesimo secolo.

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