C’è
sempre un “noi” nei racconti di William Faulkner che sottolinea
l’esistenza di un’entità superiore
e incontrollabile che vigila sopra tutto e tutti. E’ il “noi”
che anche in Fumo definisce
i valori, lo stile, le regole di vita di una cittadina e della sua
comunità e William Faulkner conosce benissimo le dinamiche di
una smalltown anche
perché è nella sua natura circoscrivere realtà ben definite,
microcosmi in cui si muovono e vivono i suoi personaggi. In Fumo,
fin dall’inizio e più che altrove, è la distanza tra il “noi”
e Anselm Holland, “uno che veniva da fuori e da chissà quale
famiglia”. Mai accettato, guardato con sufficienza e sospetto,
Anselm Holland muore in circostanze misteriose che portano ben presto
a pensare a un’omicidio. Dopo la lettura delle sue ultime volontà,
indirizzate ai due figli gemelli Anselm Jr. e Virginius e molto
sibilline, anche il giudice Dukinfield, l’esecutore testamentario,
verrà assassinato da un killer venuto da Memphis, e tra i due
crimini si snoda tutta la storia di Fumo.
L’oggetto del contendere, l’eredità, è la terra (è sempre la
terra) anche se Gerald Parks nell’introduzione spiega molto bene
che: “il meccanismo del racconto poliziesco serve a Faulkner per
riproporre antichi dilemmi e risolverli con l’atto del narrare;
poiché il vero detective non è altri che lo scrittore stesso, colui
che indaga i segreti moventi degli uomini e porta alla luce le verità
celate, per ristabilire nella poesia una giustizia ideale e rendere
inoffensivo il ghigno della morte”. La maestria è tutta lì, anche
in una cinquantina di pagine, quanto dura Fumo,
“in quel tono semplice, aneddotico” che è poi lo stesso che usa
il procuratore Gavin Stevens per imprimere una svolta nel corso
dell’arringa che occupa la parte finale del racconto. Per arrivare
alla conclusione e alla soluzione del caso, William Faulkner raduna
tutti i protagonisti in una cornice sempre più piccola e precisa:
parte dalla contea e dai suoi confini, passa al centro del villaggio,
sulla main
street,
entra nell’aula del tribunale e poi nella stanza del giudice
Dukinfield per concludere in una dimensione ancora più minuscola,
dove, non a caso, si trova la soluzione del caso. La progressione è
geometrica, concentrica, senza via di scampo perché come scrive
William Faulkner “non sono i dati della realtà o le circostanze a
colpirci; è l’impatto con le cose che avremmo dovuto già sapere”.
E’ come se in quell’angolo delimitato e ristretto la dimensione
della conoscenza fosse legata alla antura stessa della terra e della
città, a quel “noi” che è il vero deus ex machina della storia:
“Noi che tendevamo occhi e orecchie restammo come sospesi nel
vuoto, in uno stato simile al sogno nel quale ci sembrava di sapere
in anticipo ciò che stava per accadere, ed eravamo al contempo
consapevoli che non bisognava tenerne conto perché presto ci saremmo
svegliati. Era come se fossimo fuori dal tempo, a guardare gli eventi
da lontano; immobili, fuori e oltre il tempo”. Un racconto
esemplare.
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