mercoledì 28 dicembre 2011

William Faulkner

C’è sempre un “noi” nei racconti di William Faulkner che sottolinea l’esistenza di un’entità  superiore e incontrollabile che vigila sopra tutto e tutti. E’ il “noi” che anche in Fumo definisce i valori, lo stile, le regole di vita di una cittadina e della sua comunità e William Faulkner conosce benissimo le dinamiche di una smalltown anche perché è nella sua natura circoscrivere realtà ben definite, microcosmi in cui si muovono e vivono i suoi personaggi. In Fumo, fin dall’inizio e più che altrove, è la distanza tra il “noi” e Anselm Holland, “uno che veniva da fuori e da chissà quale famiglia”. Mai accettato, guardato con sufficienza e sospetto, Anselm Holland muore in circostanze misteriose che portano ben presto a pensare a un’omicidio. Dopo la lettura delle sue ultime volontà, indirizzate ai due figli gemelli Anselm Jr. e Virginius e molto sibilline, anche il giudice Dukinfield, l’esecutore testamentario, verrà assassinato da un killer venuto da Memphis, e tra i due crimini si snoda tutta la storia di Fumo. L’oggetto del contendere, l’eredità, è la terra (è sempre la terra) anche se Gerald Parks nell’introduzione spiega molto bene che: “il meccanismo del racconto poliziesco serve a Faulkner per riproporre antichi dilemmi e risolverli con l’atto del narrare; poiché il vero detective non è altri che lo scrittore stesso, colui che indaga i segreti moventi degli uomini e porta alla luce le verità celate, per ristabilire nella poesia una giustizia ideale e rendere inoffensivo il ghigno della morte”. La maestria è tutta lì, anche in una cinquantina di pagine, quanto dura Fumo, “in quel tono semplice, aneddotico” che è poi lo stesso che usa il procuratore Gavin Stevens per imprimere una svolta nel corso dell’arringa che occupa la parte finale del racconto. Per arrivare alla conclusione e alla soluzione del caso, William Faulkner raduna tutti i protagonisti in una cornice sempre più piccola e precisa: parte dalla contea e dai suoi confini, passa al centro del villaggio, sulla main street, entra nell’aula del tribunale e poi nella stanza del giudice Dukinfield per concludere in una dimensione ancora più minuscola, dove, non a caso, si trova la soluzione del caso. La progressione è geometrica, concentrica, senza via di scampo perché come scrive William Faulkner “non sono i dati della realtà o le circostanze a colpirci; è l’impatto con le cose che avremmo dovuto già sapere”. E’ come se in quell’angolo delimitato e ristretto la dimensione della conoscenza fosse legata alla antura stessa della terra e della città, a quel “noi” che è il vero deus ex machina della storia: “Noi che tendevamo occhi e orecchie restammo come sospesi nel vuoto, in uno stato simile al sogno nel quale ci sembrava di sapere in anticipo ciò che stava per accadere, ed eravamo al contempo consapevoli che non bisognava tenerne conto perché presto ci saremmo svegliati. Era come se fossimo fuori dal tempo, a guardare gli eventi da lontano; immobili, fuori e oltre il tempo”. Un racconto esemplare. 

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