lunedì 14 settembre 2020

Hakim Bey

Tra gli esempi di zone autonome temporanee che Hakim Bey snocciola nei primi capitoli, tra i covi dei pirati ai Caraibi e le comuni francesi, spicca l’esempio di Fiume. L’estemporanea spedizione guidata da Gabriele D’Annunzio nel settembre 1919 produsse una festa senza fine: dominavano poesia, musica e fuochi d’artificio. Secondo la sintetica ricostruzione di Hakim Bey, “l’intera attività del governo consisteva in questo. Diciotto mesi dopo, quando vino e soldi finirono e finalmente si fece viva la flotta italiana piazzando qualche colpo di cannone nel municipio, nessuno ebbe più l’energia per resistere”. L’episodio rende bene l’idea di cosa può nascere da un “caos come somma di ordini” e della forma che può assumere la zona autonoma temporanea che nella complessità dell’articolazione di Hakim Bey si rivela una costruzione molto più elastica e multiforme delle sue possibili e repentine applicazioni reali. Confessando di essere “sia un cavernicolo che un mutante che viaggia tra le stelle, sia un truffatore che un principe libero”, Hakim Bey si concede gli spazi, le divagazioni, le estrapolazioni per coltivare “una politica del sogno, urgente come l’azzurro del cielo”. Allora si presta subito a indirizzare T.A.Z. su un giusto binario, rispondendo alle velleità dannunziane, con il pensiero contemporaneo e più consono di Renzo Novatore quando sosteneva che “qualsiasi società che edificherete avrà i suoi limiti. E fuori dai limiti di qualsiasi società vagheranno gli irregolari vagabondi eroici, con i loro pensieri selvaggi & vergini, quelli che non riescono a vivere senza programmare sempre nuove spaventose fiammate di rivolta!”. È una collocazione della zona temporanea autonoma ante litteram, che spalanca le porte su una raffica di comunicazioni alimentate dall’idea di Hakim Bey per cui “le nostre immagini di elezione hanno la potenza dell’oscurità, ma tutte le immagini sono maschere & dietro queste maschere giacciono le energie che possono volgere alla luce & al piacere”. Il linguaggio spesso è criptico, ma l’irruenza è genuina: ci sono elementi di provocazione e di disturbo, ma nella sua complessità T.A.Z. ha il pregio di spingersi in direzioni inusuali, alla ricerca ostinata di “un nesso di autonomia, un virus nel caos che si diffonde nella sua più esuberante forma clandestina”. C’è una visione che è irrituale, anche disordinata, volendo, ma è sempre vitale e, ancora di più, attualissima. La zona autonoma temporanea, al di là delle applicazioni concrete e storiche è una concezione filosofica, una dimensione mentale che si apre a più possibilità, a partire dalla “tattica di sparizione”, laddove “la sua massima forza risiede nell’invisibilità. In quello T.A.Z. mantiene tutto il potenziale eversivo, nella rocambolesca scrittura di Hakim Bey ed è sorprendentemente adeguato ai nosti giorni quando si chiede “che razza di artisti sfigati dal cervello da blatta ha cucinato questa sbobba dell’apocalisse”, sottolinenando che “in mezzo a un popolo che non sa creare o giocare, ma sa solo lavorare, anche gli artisti non hanno altra scelta che quella tra anarchia & monarchia. Come chi sogna, devono possedere & possiedono le proprie percezioni”. Per Hakim Bey, “l’arte è una forma di barbarie bizantina adatta solo ai nobili & ai pagani” e “racconta fascinose bugie che divengono vere”. È lo snodo, a saldo di centinaia di altre deviazioni, sollecitazioni e corrispondenze, che rende T.A.Z. è un’ipotesi che mantiene inalterata il suo peso specifico e che soprattutto apre degli spiragli quando proclama con forza che “chi se ne frega se è impossibile. Cos’altro possiamo sperare di ottenere oltre all’impossibile? Dovremmo aspettare che sia un altro a svelare i nostri veri desideri?”. In questo Hakim Bey tocca uno dei punti più sensibili, accorgendosi che se “nessuno vive realmente nulla, tutti ridotti allo stato di spettri”, la zona autonoma temporanea è il luogo privilegiato dove maturare “la propria rabbia & disgusto & i veri desideri per balzare verso l’autorealizzazione & la bellezza & l’avventura”. Approvato da tutti i ribelli con o senza causa, compresi Allen Ginsberg e (soprattutto) William Burroughs.

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