La lucida rassegnazione di Jennifer Pashley tratteggia un quadro dell’America desolato e senza speranze, in particolare per le donne, le prime vittime, insieme ai bambini (ovvero, le bambine) che non lascia spazio al minimo equivoco. L’innata natura predatoria americana rende Il caravan un romanzo spietato, livido e senza happy end dove Jennifer Pashley non risparmia nulla né ai suoi personaggi, né al lettore che viene coinvolto in una peregrinazione lungo le strade e i motel dell’America che sembra non avere mai fine. Ruota tutto attorno a Khaki e Rayelle, che si riflettono come se fossero le due metà di un intero, unite e separate con violenza. Come tante ragazze sprovvedute, il loro destino cambia quando salgono sulla macchina di un uomo, ma se Khaki evapora una volta sbattuta la portiera, Rayelle alias Rainy Day Blues trova invece Couper, uno scrittore che sta indagando su una sequenza di sparizioni e omicidi, inseguendo “una scia di rovine e terra bruciata” con un trailer agganciato alla sua macchina. Le sue ricerche, complicate dal fatto che “a volte una ragazza si disperde come il fumo che sale nell’aria. Così sottile che non si vede più. Diventa una nuvola. La puoi respirare”, tornano a intrecciare i destini di Rayelle e Khaki. Attraverso piccoli segnali sparsi nei resti urbani della provincia, con la consapevolezza che “in una piccola città non si sfugge a niente. La città sa tutto ma mai abbastanza”, con elementi che affiorano da un sottobosco di ricordi brutali, spingono Il caravan a riunire le due giovani donne. La ricostruzione del percorso, lungo e tortuoso è, in filigrana, anche un tentativo di raggrumare i miseri resti di esistenze ferocemente mutilate, fin dall’infanzia. Laggiù va cercato il legame profondo che incolla Khaki a Rayelle, perché “quando le ragazze non esistono, finiscono per scomparire”, ma se Rayelle in qualche modo, trascinandosi e arrancando al seguito di Couper riesce a mantenere una limitatissima e fragile parvenza di equilibrio, Khaki ha saltato il fosso. È diventata una serial killer, che accoglie donne (il più delle volte, ragazze) sofferenti e svuotate, che hanno cercato di “rosicchiarsi una via d’uscita dalla propria gabbia”, tra abusi, depressioni, aborti, dipendenze. Conosce bene la trafila, per cui Lle protegge, le nutre, le ama e le fa lavorare a soddisfare le perversioni della piccola borghesia provinciale. Poi, le fa a pezzi e se ne va, per ricominciare in un’altra small town. Ma Khaki non è una negazione, è la risposta a bisogni nascosti e ad appetiti inconfessabili, oscuri e minacciosi, a cui si dedica sapendo che “per le ragazze come noi non c’è una prima volta e non c’è un’unica volta. Non c’è niente di speciale, e non c’è amore. Continua per sempre, come un ciclo che si ripete nel cervello, una scopata infinita che ti spacca in due e ti trasforma le viscere in un’unica grande cicatrice”. Quello è il fondo della strada, e Khaki, nella sua fredda e folle lucidità sa benissimo cosa sta facendo: “Quando me ne sono andata da quel motel, ho lasciato tre cadaveri. Uno a casa. E uno nell’oceano, dove non avevo mai avuto intenzione di perderla, la mia sirena che galleggiava, cantava, con i capelli come un’aureola intorno al viso da bambina Quando me ne sono andata da lì, ho sentito la mia facciata che si incrinava. Stavo diventando trasparente, sempre più difficile da trovare”. Sta sfumando in un’ombra e, in breve, si sta cancellando, ma per farlo deve lasciare via libera alla furia che si porta dietro. Una figura tragica, emblematica, difficile da digerire, ma perfettamente sintonizzata al viaggio nella notte americana di Jennifer Pashley. Se parte dall’idea, a suo modo classico, che “esistono solo due tipi di storie: qualcuno di nuovo che arriva in città o qualcuno che se ne va”, Il caravan poi non nasconde nulla, non generalizza, ed è un tuffo a testa bassa nel vuoto, nella desolazione e nella disperazione, ovvero “una storia di morte, lutto e alcol”. La vera storia dell’America.
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