lunedì 31 maggio 2010

Jonathan Raban

Agli inizi del ventesimo secolo, migliaia di immigranti di ogni nazione, istigati da una sistematica e ambigua opera di propaganda, si lanciarono verso le praterie del Montana, spacciato per l'ennesimo Eden americano. Presumibilmente, si sentivano tutti pionieri forti e coraggiosi, pronti a sfidare con quell'idealismo e quell'ottimismo che ha sempre distinto tutte le storie americane, le intemperie, la fatica, il lungo viaggio. In realtà, dietro la concessione dei terreni del Montana, la nuova terra promessa (tra l'altro, presa come si sa agli indiani), premevano poteri forti e interessi che non avevano nulla da spartire con lo spirito entusiasta dei futuri agricoltori. Il grande esodo avrebbe favorito la costruzione della ferrovia (da Chicago a Seattle: un'opera mastodontica), di conseguenza le industrie metallurgiche e tutto l'indotto collegato. Di sicuro, non i nuovi proprietari terrieri, a cui le banche inizialmente concessero generosi prestiti che ben presto si rivelarono vere e proprie ipoteche sui terreni, sulle case e sulle vite. Come direbbe William Least Heat-Moon, quelli che partirono alla volta del Montana furono "uomini sulla cui spina dorsale ha marciato tutta l'America". Jonathan Raban, scrittore di origini inglesi (una mezza dozzina di libri alle spalle) che da tempo vive a Seattle, ha ricostruito in Bad Land tutta la saga delle famiglie attirate in Montana, terra che non avrebbe regalato niente a nessuno, da un'abilissima e strategica operazione pubblicitaria. Bad Land è la storia di una sconfitta nascosta nelle pieghe del linguaggio, di un inganno costruito all'ombra del sogno americano e di uomini e donne che, nonostante tutto, avrebbero finito con l'amare quella terra, l'unica che potevano permettersi. Lasciandosi coinvolgere da questioni apparentemente minimali (la qualità del filo spinato o la quantità della pioggia, per esempio) eppure fondamentali, parlando direttamente con gli attuali proprietari terrieri (in molti casi pronipoti di quelli di un secolo prima), ricostruendo un paesaggio storico e geografico di cui non è rimasto granché e viaggiando direttamente sulle vecchie mappe, Jonathan Raban ha con Bad Land un'intuizione importante e per molti versi illuminante: "Per due anni avevo vissuto una storia così americana che alcuni Americani l'avrebbero ritenuta insignificante. Emigranti falliti che avevano abbandonato la casa e si erano trasferiti altrove: e allora? Quella era l'America, il paese in cui tutti avevano diritto di fallire: era scritto nella costituzione". Lo aiutano le fotografie di Evelyn Cameron, i dialoghi con la famiglia Wollaston (con contorni di salsiccia di alce), le ricerche sugli opuscoli e sui materiali pubblicitari che provocarono l'esodo verso il Montana, a partire dal famigerato Manuale Campbell per la coltivazione del suolo, l'architrave su cui si basava gran parte delle illusioni agricole. Con Bad Land Jonathan Raban invece sembra aver seguito uno dei motti principali che hanno ispirato William Least Heat-Moon in Prateria ("Ridurre significa falsare") e ha fatto il possibile per non dimenticare nulla. Dettaglio per dettaglio, frammento per frammento, appunto per appunto e dopo migliaia di pagine ingiallite e ore a scrutare le fotografie di Evelyn Cameron ha percepito che "il futuro emigrante doveva creare un'America immaginaria sufficientemente palpabile da rappresentare una destinazione reale: così, quando comprava il biglietto del transatlantico, faceva rotta su un paese che, ornato di tanti aspetti bizzarri ed errati, esisteva solo nella sua testa". Hollywood? Dilettanti. Il rock'n'roll? Una fantasia adolescenziale. La madre di tutte le illusioni aveva partorito una terra fertile, rigogliosa e paradisiaca da un orizzonte piatto e desolato, da una Bad Land. Poi era stata data in concessione e qualcuno ci aveva speculato per decenni a seguire. Business as usual, dicono in America. A farne le spese sarebbero state famiglie costrette a vivere al limite estremo della sopravvivenza, spesso subendo le angherie delle banche e del governo federale. C'è un retroterra storico, quindi, se diversi stati americani cominciano a vedere Washington (e New York, e Los Angeles) come il fumo negli occhi. In un modo o nell'altro molti si adattarono alla Bad Land, perché come scrive Jonathan Raban "quella terra non valeva un granché, ma era la loro terra, e i difetti che aveva la rendevano ancora più amata. Ormai ne avevano abusato e dovevano rimediare al disastro". In cambio, restano ghost town lungo la ferrovia, chilometri di recinti abbandonati e soprattutto una contradditoria carica di individualismo che è uno degli elementi fondamentali dell'uomo di frontiera e del suo legame con il paesaggio: "Essere così soli e vistosi in un'arena che ha una circonferenza talmente enorme da ridurci a un puntino ci fa gonfiare di presunzione. Siamo allo stesso tempo grandissimi e piccolissimi, ed essendo entrambi non siamo nessuno dei due. Questa perdita acuta e improvvisa della nostra dimensione è probabilmente spiacevole come il giramento di testa che si accusa fumando una sigaretta dopo una settimana d'interruzione. Avvertiamo uno strano malessere della vista e, come l'afflitto personaggio di Stevenson che rincasa, torniamo un po' barcollanti all'automobile che ci riporta alle dimensioni abituali grazie allo spazio chiuso dell'abitacolo e al diametro familiare del volante". I nuovi cowboy hanno messo John Wayne in un angolo e si sono fatti saggi, perché non c'è alternativa per chi vuol tirare avanti: "La nostra filosofia è questa: non abbiamo ancora venduto il grano dell'anno scorso e quindi possiamo perdere il raccolto di quest'anno. Non compriamo molte cose nuove perché in un anno di siccità le cose nuove sono solo un aggravio. Se non spendi, le annate buone ti permettono di far fronte alle annate cattive". La domanda l'ha posta chiaramente James Agee ed anche se riferita a tutta un'altra parte dell'America si adegua perfettamente alla Bad Land di Jonathan Raban: "In che modo siamo rimasti intrappolati? Dove, lo sbaglio che abbiamo fatto? Cosa, come, dove, quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo diversamente agito? Se solo avessimo saputo". Già, sapere: nessuno dei novelli pionieri aveva gli strumenti per capire, discernere, vedere oltre le panoramiche degli opuscoli e del Manuale Campbell per la coltivazione del suolo e i loro figli, nipoti e pronipoti sono stati allevati con la mitologia dell'eroe sopra la testa, una spada di Damocle pronta a rovinare su un'educazione precaria e fuorviante. Generazioni e generazioni che non avranno mai una casa perché come scrive Jonathan Raban "Tutti gli eroi moderni avevano faticato a lungo sui testi scolastici (...) Ma soprattutto i testi facevano appello alla fede nella bandiera e nell'America vista come la terra che rendeva possibili i miracoli e in cui la porta della fattoria si apriva su un sentiero che, passando per la scuola con una sola aula, conduceva alla gloria". Il miraggio iniziale, quello che nel sottotitolo originale viene chiamato romance (termine che ha un'accezione fantastica e sentimentale, quindi perfetto per la storia di Bad Land) si propaga ancora in forma di disillusione, risentimento, una diffusa ignoranza che porta direttamente alla violenza, come il proliferare delle milizie armate tra i boschi testimonia. Un danno compiuto un secolo prima non si risolverà così. Se mai si risolverà: Jonathan Raban si è fermato un po' prima ed è tornato a casa conscio che, come direbbe il maestro James Agee "le parole non possono rappresentare; possono solo descrivere. Descrivere, a volte, può bastare se è come Jonathan Raban ha descritto quella Bad Land che un secolo fa sembrava davvero la terra promessa. Invece, era soltanto un pezzo d'America.

 

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