La guerra del Vietnam è uno spettro che, generazione dopo generazione, si agita ancora nel cuore di tenebra dell’America. Probabilmente più al cinema (e chi se li dimentica Apocalypse Now e Full Metal Jacket?) che nella letteratura perché, in un certo senso, il Vietnam, e la sconfitta degli Stati Uniti, sono stati i primi eventi storici ad avere una completa, determinante copertura televisiva. La guerra, da allora, è in tutte le case, all’ora di cena, seduti comodamente davanti al televisore. C’è un episodio, proprio nella battute iniziali di Nell’esercito del faraone, che suona enigmatico: il tenente Tobias Wolff e il sergente Benet sfidano cecchini e mine (“Viaggiavo veloce per tenere a bada i cecchini, ma su questa strada di cecchini non ce n’erano. Il problema vero erano le mine. Se passavi su una mina 105, che andassi piano o veloce, non avrebbe fatto differenza”), persino i controlli della polizia militare per riuscire a portare a termine i loro scambi. Poco legali e con un solo oggetto del contendere, una televisione con cui guardare Bonanza, mentre intorno sta per esplodere la guerra. Nell’esercito del faraone la racconta senza enfasi, con una densità assolutamente ininfluente di eroi e con una spaventosa precisione nel descriverne crudeltà e follie. Città disintegrate a colpi d’artiglieria, completamente rase al suolo solo per paura o un villaggio scoperchiato dalle pale degli elicotteri soltanto per l’incapacità e la testardaggine di qualcuno. Una dimensione che porta i protagonisti ad avere una visione distorta della realtà ed è forse questo uno dei punti determinanti del racconto di Tobias Wolff: “Vivevamo tutti di fantasie. All’interno delle quali si verificavano delle variazioni, si capisce, ma ciascuno era convinto, almeno istintivamente, se non sul piano della ragione, di dare una mano alla fortuna osservando determinati cerimoniali e un particolare protocollo. In parte si trattava di cautele ovvie. Le armi andavano tenute pulite. Non si doveva mai abbassare la guardia. Era opportuno evitare tutti i rischi non rigorosamente necessari. Ma tutto questo non portava molto lontano”. C’è dell’altro, comunque, in Nell’esercito del faraone, come se la guerra del Vietnam fosse stata uno spartiacque generazionale, una sorta di linea di demarcazione (con l’assassinio di JFK) tra l’America del rock’n’roll, della bomba e di Marylin Monroe e la babilionia che ancora oggi è in attesa di esplodere. Serve molto a capire Alto tradimento, il capitolo centrale di Nell’esercito del faraone in cui i figli si incontrano con i padri. Stranissima serata e una delle più belle dichiarazioni pacifiste che si siano mai lette, tali da rendere Tobias Wolff credibilissimo narratore e Nell’esercito del faraone un piccolo, grande j’accuse nei confronti delle guerre e delle loro assurdità.
Nessun commento:
Posta un commento