lunedì 24 maggio 2010

Colson Whitehead

Una sagra di paese, una fiera delle vanità, un mondo di estranei che cercano di comunicare. L'esistenza vacua e frivola di J., che scivola via tra un cocktail e un buffet. Quella leggendaria di John Henry, che abbiamo conosciuto, giusto un paio di esempi tra mille interpretazioni, attraverso la voce di Johnny Cash (The Legend Of John Henry's Hammer) o di Mississippi John Hurt (John Henry, e non a caso si trova anche nello splendido cofanetto American Roots Music). Già autore del pregevole L'intuizionista Colson Whitehead mischia, utilizza e (sembra quasi voglia catalogarli) riunisce dozzine di diversi strumenti linguistici, dal verboso comunicato stampa alla trascrizione letterale della segreteria telefonica, dal racconto puro e semplice alla pagina di diario: il ritmo è serrato e caotico e non c'è dubbio che riesca a coniugare qualità e quantità. C'è una percentuale di autoindulgenza e qualche fraseggio un po' trendy (i tempi sono quello che sono) ma John Henry Festival è un libro che ha certamente più di un senso, compresa la scena (molto reale, viste le cronache recenti) di chi si mette a sparare sulla gente ignara, se non proprio innocente. Il cardine su cui però ruota e costruisce il suo valore è il continuo viaggio di andata e ritorno tra l'America di John Henry (“Una nota a margine del personaggio di John Henry: voglio ricordare che era una figura molto amata dai socialisti americani, e dai progressisti in generale. Perché sfida le macchine dell'industria, si erge in difesa dei lavoratori. Non si rassegna a essere alienato dal proprio lavoro”) e quella di J., tra due secoli distanti anni luce. Non è soltanto una separazione temporale: è proprio una frattura tra l'etica (per quanto leggendaria) del lavoro di John Henry (dall'altra parte della cortina c'era uno che si chiamava Strakanov) e la filosofia parassita di J. e di tutto l'entourage di addetti stampa, pubblicitari, creativi, uomini e donne abilissimi nelle relazioni pubbliche e inetti in quelle private. Anche per questo John Henry Festival è una mappa, un libretto d'istruzioni per l'uso del mondo dei (mass) media, un modo per riconoscere ed eventualmente evitare quella che Colson Whitehead chiama la “dittatura del pop”. Perché sono tutte storie quelle che ci raccontano e che ci raccontiamo, che si tratti del concerto dei Rolling Stones ad Altamont (era il 1969, e qui ci sono almeno una dozzina di pagine in cui, per la prima volta, è narrato dal punto di vista di un afroamericano) o di come è nata la ballata di John Henry, una sola è la “posta in gioco: l'originario diritto americano alla libertà di parola, la libertà, senza timore di censura, di ingannare, di confondere e distrarre in qualunque altro modo la mente delle persone fino a ridurle alla robotica obbedienza alla cultura pop”. Un'affermazione tagliente e coraggiosa, che da sola introduce i paradossi e le contraddizioni di un mondo e un tempo in cui è fondamentale conoscere “la vita segreta di” o anche l'ultimo degli eventi mondani o presunti tali, compreso il John Henry Festival, in qualche angolo sperduto della provincia. “E' una necessità”, scrive Colson Whitehead. La necessità di riempire i giornali, le radio, i website, la televisione. Non importa cosa gli si mette dentro. Le macchine devono girare.

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