mercoledì 26 maggio 2010

Robert Stone

Ci sono porte che restano aperte sulla storia del mondo. Ci sono enigmi che nessuna fede può svelare e intrighi che, per quanto romanzeschi, appartengono alla sfera della realtà, se non proprio della cronaca. C’è, ed è noto, un secolo che sta finendo e una città, Gerusalemme, predisposta alle rivelazioni e alle apocalissi. Tutto questo ha in Porta di Damasco, testimoni fuggenti e protagonisti scomodi. Christopher Lucas è un personaggio dubbioso per professione (è un giornalista con poca voglia di lavorare e qualche problema esistenziale da risolvere) e s'innamora di Sonia Barnes, che è esattamente l'opposto e lo attira come il polo di un magnete: cantante con la predilezione del jazz, attivista militante, sufi praticante e fedelissima. Attorno a loro, che sembrano inseguirsi in un gorgo di lingue, religioni, etnie, quartieri prende forma un mondo invisibile di predicatori, fanatici, credenti e folli. Tutti ambiscono coralmente al divino, all'infinito, a questo o a quel dio e si preparano all'apocalisse, mentre altri, ben più scaltri ed efficienti, tramano per motivi strettamente temporali. L’intreccio è esplosivo per più di un motivo: intanto perché, come ha detto lo stesso Robert Stone, "i personaggi fanno parte della fiction, ma la storia è realmente collegata all'attualità" e trattandosi di Gerusalemme, della striscia di Gaza, di Israele e dell'Intifada non servono altre spiegazioni per intuire quale tensione strisciante aleggi in Porta di Damasco. Per altri suggerimenti, basta la parola dello stesso Robert Stone, scrittore americano con un'innata passione per Il grande Gatsby, una frequentazione giovanile del Village di Ginsberg e Kerouac, mezza dozzina di romanzi alle spalle e un rapporto col cinema di cui non è troppo fiero. Ha descritto Porta di Damasco  così: "E' una love story, è un thriller, è un intrigo di poteri politici che lavorano per distruggere gli uni con gli altri. E' una storia sull'identità, sulla necessità di un'identità, sulla sua assenza". E' anche un libro a due facce: nella prima parte di Porta di Damasco, Robert Stone usa la scrittura come una specie di registratore portatile e riesce a mettere ordine nel caos linguistico con un intervento minimo indispensabile,  ricreado il clima delle chiacchiere dei protagonisti che sembrano sempre ubriachi di fede, liquori, ma soprattutto di parole perché come dice il più folle ed innocuo di loro "la vita ha una miriade di forme, ma un'unica essenza. La sua essenza è impressa in imperiture lettere di fuoco. Le lettere, le parole, vorticano come foglie". Dalla seconda parte al carambolesco finale, che si snoda come un assolo di John Coltrane, Porta di Damasco perde un po' della complessità e del fascino iniziali e acquista i colpi di scena, il ritmo e l'attrazione di un thriller o di una spy story. Con Christopher Lucas sempre nel posto sbagliato al momento giusto: prima diventa prima la preda designata di una terrificante caccia all'uomo, poi per un momento gli pare di assistere alla nuova rivelazione davanti al fiume Giordano, infine sarà di nuovo a Gerusalemme nel bel mezzo degli scontri tra i militanti arabi e l'esercito israeliano. In superficie, o meglio in televisione, la divisione appare così, ma sotto sotto (e non solo in senso metaforico, ovvero proprio nei cunicoli millenari di Gerusalemme) i ruoli si ribaltano confondendo così tanto Christopher Lucas che Robert Stone sente la necessità di precisare: "Era difficile dire da che parte stessero e cosa volessero tutti quanti perché il criterio dell'emergenza, su cui si fondava il funzionamento dello stato, creava improvvisazioni e imitazioni continue. Organismi che in realtà non appartenevano allo stato si presentavano come statali, mentre veri organi dello stato fingevano di essere non statali, o antistatali, o di appartenere ad altri stati". In questa terra di nessuno dove l'identità è spesso una chimera è logico che emergano quelle che Robert Stone chiama spesso "miserie umane": la contrapposizione con l'universo della fede è palese ed è un motivo in più che rende il finale di Porta di Damasco realistico e inquietante nello stesso tempo. Anche se forse avrebbe meritato qualche dettaglio (e pagine) in più: alla fonte di tutti i complotti e gli intrighi c'è un potere che trascende completamente quello divino ed è direttamente collegato all'antico triangolo di sesso, potere, denaro ed è questa, sembra voler dire Robert Stone, l'unica, plausibile "storia del secolo".

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