Un Texas durissimo, spietato, aspro e desertico. Di rock'n'roll non se ne parla, nemmeno per sbaglio, neanche nel cuore di Austin e non tanto perché James Crumley ne sia all'oscuro ("E' un poeta americano e come ogni vero artista, lui non riflette semplicemente la nostra cultura, ma la ribalta" dice di lui di Kinky Friedman, uno che se ne intende), ma perché i personaggi che attraversano La terra della menzogna hanno ben altro a cui pensare. Devono sopravvivere, prima di tutto: schivando un'overdose dopo l'altra (alcool a fiumi e cocaina a valanghe) e cercando disperatamente (ma nessuno ci riesce) di stare lontani dai proiettili e dai propri nemici. Poi hanno bisogno di districarsi da un intreccio di legami, un vero e proprio nido di vipere nel cui mezzo è capitato, volente o nolente, Milo Milodragovitch. E' un loser (nel senso che deve ancora trovare un suo posto nel mondo), ma non è un perdente: ha un discreto gruzzolo da parte (un'eredità, o almeno così dice lui), è brillante negli affari, ha un bel bar da mandare avanti. Però si annoia, perché, parole sue, "la dura verità era che non riuscivo a capire il Texas quanto bastava per poterlo chiamare casa. Restava un territorio straniero, una situazione tutta da scoprire, un posto troppo grande per essere un posto solo, un luogo tenuto assieme da una storia di dimensioni semi-mistiche e da un orgoglio di dimensioni semi-isteriche". Giusto per portare a termine gloriosamente la giornata, decide di rispolverare la sua vecchia licenza di investigatore privato e si dedica a casi di qualità spicciola: recupero crediti, ricerca scomparsi, caccia a mogli e/o mariti in fuga. E' proprio durante uno di questi inseguimenti che si ritrova al momento sbagliato nel posto più sbagliato che può esserci: nel bel mezzo di un omicidio. Da lì in poi è tutto un susseguirsi di esplosioni di violenza, viaggi con biglietti di sola andata, apparizioni di femme fatale e di killer prezzolati, nella migliore tradizione che va da Jim Thompson fino a Edward Bunker. In realtà, dietro questa cortina fumogena, costruita con molto mestiere, James Crumley (di cui sono consigliatissimi, tra gli altri, anche L'anatra messicana e Uno per battere il passo) mette Milo Milodragovitch in condizione di ricostruire una lunga teoria di rapporti (di parentela, d'amicizia, d'affari) che si dipanano come una ragnatela lungo l'arco temporale di un paio di generazioni. A questa trama si sovrappone l'ordito paesaggistico perché in un certo senso, i suoi luoghi e i suoi percorsi mentali diventano il riflesso delle strade e dei posti che si ritrova ad affrontare: un paesaggio dove la frontiera è ovunque e non solo tra Messico e U.S.A., ma anche tra città e deserto, tra uomini e donne, tra presente e passato, tra giustizia e vendetta. Il Texas (e Las Vegas, e un frammento di Montana) diventa un'aspra, spietata terra di nessuno in cui è difficile, se non impossibile, distinguere tra menzogna e verità e per chi legge, esattamente come Milo Milodragovitch, è facile perdere l'orientamento e finire dalla parte sbagliata, ammesso che ce ne sia una giusta. Un romanzo travolgente che non concede nulla, nemmeno un attimo di respiro perché anche il lettore si deve abituare all'aria torrida (e torbida) del Texas.
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