martedì 5 luglio 2016

Elizabeth Strout

Costretta a letto dalle complicazioni di un’appendicite, Lucy Barton vede arrivare la madre al suo capezzale e con lei comincia un dialogo imprevisto e imprevedibile. La forzata immobilità è un’occasione unica perché, come nota Lucy Barton, “forse era il buio appena rotto dalla crepa pallida di luce che filtrava dalla porta, forse la costellazione del formidabile grattacielo Chrysler davanti a noi, a permetterci di parlare come non avevamo mai fatto”. Sono parecchie, le distanze, accumulate nel corso degli anni, e la prima è proprio in quello scintillio notturno perché tra New York dove, c’è più gente che cielo, e Amgash, Illinois i ricordi che riemergono sono poveri, affamati, freddi, “white trash”. E’ un retaggio da cui non ci si può liberare, è qualcosa di inciso nell’anima e la stoica presenza della madre è lì a ribadirlo, per naturale istinto, insieme all’inestricabile legame con la figlia. Lei è fuggita grazie alla redenzione della lettura e degli studi (“I libri mi davano qualcosa. E’ questo quello che penso. Mi facevano sentire meno sola. E’ quello che penso”) eppure quel passato è ancora lì e abbandonarlo, secondo Lucy Barton, “deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati da ricordi che non possono assolutamente essere veri. Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos’hanno dentro. La vita sembra spesso fatta di ipotesi”. E’ anche l’infanzia che non se ne vuole andare. La madre la chiama Bestiolina, il marito la chiama Passerotto perché Lucy Barton tende a richiamare protezione, ma è anche votata a una sua indipendenza, solo che “ci sono fattori che influiscono sulle strade che prendiamo ed è raro che sappiamo individuarli e registrarli con precisione”. Cercando quell’impossibile definizione, Elizabeth Strout più che un romanzo (breve) si concentra su quello che per le sue caratteristiche è un copione teatrale, un atto unico, con pochi interpreti e uno scenario limitato al minimo indispensabile. Madre e figlia restano separate in un equilibrio precario e rimarcato da personaggi secondari, prima il dottore, nel presente della narrazione, e poi soprattutto Sarah Payne, docente di scrittura creativa. Entrambi sono determinanti a fissare gli intervalli del confronto tra madre e figlia, in più Sarah Payne, una scrittrice insofferente la cui identità sembra il sovrapporsi dei profili di Joyce Carol Oates, Grace Paley e Joan Didion, definisce così il tema di Lucy Barton: “E’ la storia di uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. E’ la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. E’ la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto”. La ricostruzione non è comunque consolatoria: anche se entrambe sono coscienti che “si perde soltanto tempo a soffrire due volte”, la tensione è garantita dall’accumularsi di tensioni, attriti e speculazioni che vengono arrotondati dall’attenzione a ogni singola parola e sembra quasi che Elizabeth Strout con metodo e scrupolo il consiglio di Sarah Payne: “Ciascuno di voi ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mia a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola”. Ogni pagina è ricavata per sottrazione, levigando le frasi, persino risparmiando sui personaggi, che appaiono e svaniscono in fretta, compresi quelli vicinissimi a Lucy Barton. Nella luce, al centro, resta il confronto tra madre e figlia e la trama rimane tanto elegante quanto esile. Del resto la sua bellezza è tutta lì, come l’ammissione finale di Lucy Barton ammette senza dubbi: “La vita mi lascia sempre senza fiato”. Si sente, si percepisce, si capisce, nessuna sorpresa.

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