venerdì 15 luglio 2016

Henry Miller

Una città torbida, fremente, maudit, uno dei luoghi d’elezione di ascendenti e discendenti della Beat Generation, quella Parigi fatta di sesso, vino, poesia, cibo, musica, proprio in questo ordine. Le esigenze sono elementari, gli sviluppi rudimentali e i metodi pure perché, come ricorda Henry Miller, “era un periodo in cui l’aria stessa sapeva di lotta”, e I giorni tranquilli di Clichy tanto tranquilli non erano. Henry Miller sta lavorando a Primavera nera, mentre il suo alias, Joey, e l’amico Carlo, si contendono le ragazze, Colette e Nys e tutte le altre, con lo scopo di “innamorarsi della felicità! Diventare inutile il più possibile! Avere la coscienza dura come la pelle dei coccodrilli!”. Oltre alle peripezie gastronomiche ed erotiche, ai vagabondaggi notturni e alla dissoluta condotta bohémienne, Henry Miller vive la giornata con la scrittura in testa, distinguendo toni di voce, isolando spezzoni di dialoghi, episodi e aneddoti dato che “per un artista le brutte situazioni sono fertili come quelle felici, e qualche volta anche di più. Per un artista ogni esperienza è fruttuosa, suscettibile di convertirsi in un credito”. L’illusione è tale che Henry Miller ammette di essere “affondato fino a quel livello pericoloso in cui, per pura beatitudine e per lo stupore, uno ritorna alla condizione di gemma”. Passate le sbornie, ricuciti i cuori spezzati, lasciate le femme fatale, la ragion di stato dello scrittore impone una riflessione che Henry Miller non tarda a illustrare: “Vediamo un po’... A che cosa pensavo? Ma non mi riuscì di pensare, di farmi venire in mente un bel niente. Mi sentivo troppo mirabilmente felice. Perché pensare, del resto? Sì, era una grande giornata. Erano state parecchie, anzi. Sì, soltanto pochi giorni prima ce ne stavamo seduti lì domandandoci dove saremmo potuti andare. Poteva essere stato ieri, oppure un anno prima. Che differenza faceva? Uno si gonfia, poi si affloscia. Anche il tempo si affloscia. Si afflosciano le puttane. Tutto si affloscia. Si affloscia nella sifilide”. La conseguenza è, inevitabile, un’altra partenza: “Ma sì, andiamocene lontano, molto lontano; senza libri, senza macchina per scrivere, senza niente. Non dir niente, non far niente. Lasciarsi portare dalla marea”. L’oceano lo ritroverà (anni dopo) mentre riscriveva I tranquilli giorni a Clichy, ormai stabilitosi a Big Sur: “Che differenza ci sarebbe stata a vedere Parigi dalla cima di un omnibus a cavalli all’età di ventun anni! Oppure contemplare i grands boulevards come un flâneur nel periodo reso famoso dagli impressionisti”. All’epoca dei giorni felici a Clichy, le ambizioni era ben diverse, e molto più limitate: “Senti, torniamo a Parigi e prendiamoci una bella dose di sifilide”, quest’ultima riconosciuta, evidentemente, come malattia professionale. Già in Paradiso perduto offriva un’altra panoramica della sua belle époque parigina e I giorni tranquilli a Clichy sarebbero diventati i “giorni febbrili” poi sfumati tra amarezza, nostalgia e il brutale azzeramento delle gioie e delle fantasie imposto dalla seconda guerra mondiale. A distanza e in prospettiva I giorni tranquilli a Clichy restano sono una scheggia incendiaria e selvaggia di vita in stato di abbandono eppure non priva di una precisa consapevolezza: “Mi ero avvalso di tutte le mie risorse per esprimermi in modo corretto ed eloquente. E mi parve di aver colpito nel segno”. Adieu, Parigi: finiva un’era, lo aspettava L’incubo ad aria condizionata.

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