lunedì 30 luglio 2012

Jim Carroll

Chi ha seguito Jim Carroll anche nei bassifondi del rock’n’roll ha conosciuto i suoi sogni asciutti, le barricate, gli angeli e i corvi, e poi Evangeline, Jody e Lorraine, le stanze e le voci, la gente che muore e quella che vive giorno e notte. “I santi sanno chi sono. Poiché danzo, hanno messo in chiaro che potrebbero non offrirmi alcun aiuto. Ciò malgrado, hanno fatto voto di rispettarmi” scrive come se dovesse presentarsi in Paura di sognare e, almeno da queste parti, dove Catholic Boy e Dry Dreams, ma anche I Write Your Name sono stati consumati fino all’osso, non era proprio necessario. Jim Carroll è stato un esploratore assiduo dell’oscurità e le poesie di Paura di sognare, che riassumono una moltitudine di liriche composte nell’arco di vent’anni circa (dal 1973 al 1993, compreso gran parte di The Book Of Nods) lo trovano nel pieno di una maturità ormai compiuta, come scrittore, senza dubbio, e anche come acuto osservatore della notte e della metropoli, la sua New York. Uno dei suoi versi dice: “So che questa città morirà prima che faccia sera” ed è allora che entra nel territorio più pericoloso, quello della complessa definizione della sua personalità. Nel tardo ventesimo secolo non sono in molti quelli che hanno avuto la temerarietà di affrontare se stessi, inseguendo i propri alias nei meandri più cupi e nascosti e nei viaggi misteriosi dei sogni perché “ogni sogno riguarda la distanza”. E’ un’ossessione che Jim Carroll vive anche con una sottile forma di consapevolezza (“Non mi annoio mai. Mi intrattengo” dice con una vena di autoironia) e quando la deve affrontare ha ormai chiaro quali sono gli strumenti e le opzioni possibili: “Il tormento può essere piegato in due come un foglio di carta bianca. O riempito di parole. Non importa. E’ solo un primo passo. Devi proseguire con le pieghe, parallele a ciascuno lato, finché la loro complessità non cresca su se stessa, non formi una grazia delicata. Separata. Che si fronteggi”. Diventa evidente nella Coda finale di Paura di sognare, dove Jim Carroll scrive: “Sto diventando come se stessi rispondendo della fortuna dispensata proprio mentre ultimamente sto perdendo, disponendomi superficialmente a continuare a dare eppure sommando ciò che devo, sapendo quanto è dovuto, facendo ora ciò che è necessario per quello che sto diventando”. Il divenire è uno dei temi ricorrenti nella Paura di sognare e non dipende soltanto dall’instabile natura dei sogni per cui “diveniamo i figli di un sogno che ricorre nel tempo”. E’ anche il frutto di altre visioni, quelli che Jim Carroll chiama “i lavori dei maestri” che contribuiscono in modo altrettanto invasivo a trasformare “versi di bellezza e amore in codici di identificazione”. Con Paura di sognare, Jim Carroll omaggia, in un modo o nell’altro, Phil Ochs, Lou Reed, John Donne, Jorge Luis Borges, Frank O’Hara, per concludere dicendo: “Poi vado, lasciando ogni cosa com’era… Un letto, una sedia dai colori accesi. Forse una scrivania. E’ come una poesia. Più piccola è la stanza più pulita dev’essere quando hai finito”. Il presagio lasciato da un sogno turbolento. Un commiato fatto di “eterna nobiltà”.

Roger Stolle

Cambiare registro è sempre un salto di qualità, un modo per fare resistenza, per opporsi. E’ il coraggio di un’avventura senza biglietto di ritorno, un lancio nel nulla con un paracadute chiamato blues. Forse Roger Stolle nemmeno decide, si lascia trascinare in una parola più semplice si abbandona. E’ uno scarto di lato, una deviazione eccentrica, che è sempre più rara, ma che, per dirlo con gli Stones, è il sale della vita. Come il blues, che con due o tre cambi di accordi (anche meno) ha trasformato la musica nei secoli dei secoli, Roger Stolle con la Storia segreta del Mississippi Blues racconta la repentina metamorfosi della sua vita. “La musica di Muddy Waters mi ha cambiato la vita e, che voi lo sappiate o meno, vi piaccia o meno cambierà anche la vostra” dice Eric Clapton e, come racconta Roger Stolle nell’introduzione di Storia segreta del Mississippi Blues a lui è stata fatale la visita a un juke-joint nel profondo del Mississippi. Prima di quel fatidico incontro, Roger Stolle era un ghostwriter e un copywriter o, per sua stessa definizione, “uno scrittore praticamente da sempre, dannazione. Non un linguista. Non un poeta. Semplicemente uno scrittore”. La sua applicazione l’aveva portato a utilizzare la scrittura per la pubblicità, trascinandolo in quella che si chiama una brillante carriera fino diventare direttore del marketing di una grande multinazionale. In quel juke-joint, l’incontro con il blues, “una cultura zeppa di storia segreta. Vita, morte, amore, guerra, verità, menzogne, ricchi, poveri” l’ha fatto decidere, così su due piedi, di trasferirsi “all’inferno” di Clarksdale dove si è inventato un negozio (il Cat Head Delta Blues & Folk Art), poi un film, poi un’etichetta discografica e infine, tornato alla passione primordiale, la Storia segreta del Mississippi Blues. La sintesi storica è semplice e pragmatica: “Il blues, come forma d’arte culturale, è il lascito della comunità afroamericana al mondo. Non è l’ennesima canzone o melodia orecchiabile. E’ il chiaro prodotto della storia degli africani in America, dalla schiavitù alla mezzadria e oltre. Il blues è la rappresentazione musicale di un’epoca e di un luogo imposti a un popolo unico di provenienze diverse. L’incontro di varie società africane nel duro Sud, prima della guerra civile significò che varie musiche e tradizioni africane finirono per fondersi con influenze e strumentazioni angloamericane. Dopo secoli di lotte e di ricerche inconsce di un luogo, un’evoluzione di arte e musica culminò nella forma tangibile d’arte culturale che chiamiamo blues”. Il resto della Storia segreta del Mississippi Blues, invece, è il riflesso immediato della scelta che l’ha generato: Roger Stolle assembla interviste, impressioni e divagazioni (molto interessanti i punti di vista raccolti nel capitolo dedicato ai crossroads) in un caos informale e genuino che senza dubbio risente del menù dei juke-joint: “trippa di maiale, hot dog e carpe del Mississippi”. Nello stesso tempo, un viaggio nel Delta e un ruspante atto di fede.

venerdì 27 luglio 2012

Henry James

Nei suoi cadres, Henry James somma racconti, parti di romanzi che poi prenderanno forma compiuta (o resteranno embrioni incompleti), spunti per soggetti letterari e teatrali (la sua personale diatriba sulla diversità delle due espressioni serpeggia dall’inizio alla fine tra i suoi appunti), brevi indicazioni per ghost stories, pagine di diario in cui si mostra in tutta la sua debolezza, sperando, al limite, di ricavare “qualcosa di abbastanza buono dall’idea annotata tempo addietro”. E’ uno scrittore che si concede e si abbandona al tormento e alla bellezza del suo lavoro in modo totale, senza limiti e si sente anche nel caotico work in progress dei suoi Taccuini. Alla scrittura, suo personalissimo rifugio, eleva un’elegia: “La consolazione, la dignità, la gioia della vita consistono nel fatto che scoraggiamenti e crolli, depressioni e tenebre capitano soltano quando uno si trova fuori, intendo dire fuori dal luminoso paradiso artistico. Non appena ci rimetto piede, attraverso l’amata soglia, mi ritrovo nell’alta sala e negli ori divini, l’intero reame torna a schiudersi dinanzi e intorno a me, l’aria della vita mi indonda i polmoni, la luce del traguardo conquistato si diffonde su tutto quanto io credo, vedo, faccio”. Sono altre le asperità e le istruzioni per l’uso nascoste nei Taccuini di un grande scrittore, si rivelano un manuale che usa frammenti e frattaglie per comporre un mosaico incredibile e fluttuante, da dettagli in apparenza insignificanti a voli pindarici tutti da tracciare. Henry James si dibatte attorno alla misura dei racconti (le diecimila parole, più o meno, sono un’ossessione), alla loro costruzione, ai soggetti e alla vita dei personaggi. I Taccuini non servono soltanto a riparare per aver “perso troppe cose per aver perso, o meglio, per non aver preso”. Sono anche un making of giornaliero, in tempo reale, con riflessioni sull’etica e sull’estetica del lavoro e dello stile, sulle difficoltà e sui momenti difficili in cui la scrittura non risponde ai comandi, dall’ispirazione alla consolidamento di una forma. Scrive l’undici marzo del 1888, domenica: “Sono qui seduto: impaziente di lavorare: con il solo desiderio di concentrarmi, di non mollare: pieno di idee, pieno di ambizione, pieno di capacità, così ritengo. Talvolta tuttavia gli scoramenti paiono più grandi di tutto quanto il resto, i rinvii, le interruzioni, l’éparpillement, ecc. Ma coraggio, coraggio, e avanti, avanti. Se proprio si vede generalizzare, questa è la sola generalizzazione. Da fare c’è un’immensità e, senza vana presunzione, per male che vada ne avrò fatta una parte”. Si concede anche una buona dose l’autoironia quando all’Osborne Hotel di Torquay annota, l’otto settembre 1895: “Eccomi di fronte a varie piccole alternative di lavoro, anzi, a dire il vero sono un po’ in imbarazzo pr via di certe promesse che continuo a rimandare. Debbo quindi trovare qualche soluzione e soddisfare i miei impegni. Tra l’altro è un’idiozia sprecare tempo a riportare osservazioni del genere!”, ed è con un geniale sorriso che si congeda.

mercoledì 25 luglio 2012

Stanley Booth

Il più felice riassunto del libro di Stanley Booth è quel verso di Rainy Day Women che dice “now everybody must get stoned”, che è l’unico modo per comprendere i Rolling Stones, gioco di parole finale compreso. L’esperienza di Stanley Booth, furiosa in corso d’opera, molto dolorosa poi, è la stessa vissuta, qualche anno prima, dal loro primo e genialoide manager, Andrew Loog Oldham: “Ho conosciuto gli Stones e ho appeso la mia vita all’attaccapanni”, ed è quello, né più né meno, il prezzo da pagare per seguire Le vere avventure dei Rolling Stones. Per Stanley Booth trovare il tono e il ritmo giusto per raccontarle è stato ancora più complicato essendo un lettore accanito di Geoffrey Chaucer, William Shakespeare, Jonathan Swift, Henry Miller, Walt Whitman, Stephen Crane, Robert Louis Stevenson, Mark Twain, Ernest Hemingway, William Faulkner, Dashiell Hammett, Raymond Chandler, James M. Cain, Eudora Welty, Flannery O’Connor, Evelyn Waugh, Vladimir Nabokov, Berry Morgan e dei “primi cinque romanzi” di Cormac McCarthy. L’elenco serve a descrivere le fonti di uno scrittore che si è fatto carico di immortalare in modo indelebile qualcosa che non riguarda soltanto Le vere avventure dei Rolling Stones: è l’ammissione di una sconfitta, di un fallimento come soltanto la letteratura concede, perché, come dice lo stesso Stanley Booth, “uno scrittore è sempre un outsider persino nella sua famiglia”. Figurarsi nei Rolling Stones a cavallo del 1969, un’orda famelica che sta attraversando un’America sul filo di rasoio di una guerra civile latente. Le due entità, volubili e misteriose allo stesso modo, si incontreranno ad Altamont ed è allora che Stanley Booth distilla l’amara ammissione che “eravamo convinti di essere diversi, di essere in qualche modo scelti, letti, destinati a ottenere successo, amore e felicità. Sbagliavamo”. La sua osservazione, senza rimpianti e senza rancori, arriva dopo aver vissuto nel ventre della bestia, seduto in aereo con Mick Jagger che gli confessa di essere “una merda bella grossa”, condividendo tutto (ma proprio tutto) quello che c’era da condividere con Keith Richards (e anche Gram Parsons) e soprattutto lottando con gli stessi blues, il giorno dopo, per molti giorni e molte notti di seguito. La storia, cercando di concentrare cinquecento pagine, è questa: “A prescindere da quello che sono oggi, o possano diventare in futuro, i Rolling Stones da giovani hanno messo più volte a repentaglio se stessi a causa di quello che erano, di come vivevano, di quello in cui credevano. In quegli anni, e a lungo, sono stato insieme a loro. Qualcuno è sopravvissuto a quell’epoca, qualcuno no” e Stanley Booth si lascia coinvolgere a narrare Le vere avventure dei Rolling Stones come se Jack Kerouac fosse stato fornito di un access all areas backstage pass (laminato in oro zecchino) per arrivare a cogliere, dal vivo, nel momento stesso in cui accade, una fondamentale conclusione: “Nel cuore di questa musica di avverte una tensione profonda verso una indefinita insurrezione in assenza della quale la musica muore”. Con tutto il rispetto dei Rolling Stones (siano benedetti), non soltanto rock’n’roll.

giovedì 19 luglio 2012

P.G. Sturges

Il suo nome è Dick Henry ed è proprio lui, La scorciatoia: dove non arriva la legge, dove serve un cambio di rotta, dove ci vuole un taglio netto, ecco, quello è il suo lavoro. Ammazzare qualcuno, invece, è qualcosa di “irreversibile” e in un mondo quello di Dick Henry, come quello di tutti, dove la precarietà è l’unica verità, l’omicidio è un lusso che non ci si può permettere. Lo sa bene Dick Henry, essendosi fatto poliziotto, investigatore, giudice e assassino nello stesso tempo, in un passato che non passa mai. Quando viene assunto da un produttore cinematografico per indagare sulle infedeltà della moglie, impara a capire come funzionano le dinamiche di Hollywood, che sono gli elementi predominanti del paesaggio umano di La scorciatoia: “Era tutto una raccolta. Soldi, risorse, favori, persone. A mettere insieme tutto nello stesso momento, il totale superava la somma delle parti. Riuscire a tenere in piedi la cosa quando il sogno si sgonfiava e restava la realtà. Sostituire New York con Toronto, Hollywood con Arcadia, le Cadillac con le Chevrolet. Ma ogni tanto funzionava, e il tuo nome, stampato sulla fiancata di un autobus, attraversava quartieri nei quali nessuno parlava inglese”. E’ però un altro il detonatore per cui La scorciatoia parte a razzo come un fuoco d’artificio e non si ferma più, ed è la scoperta che l’obiettivo delle sue indagini è anche, e da tempo, la sua amante. Una femme fatale, perfetta, in tutti i sensi. Qui comincia un tourbillon clandestino e chandleriano di sotterfugi e doppio gioco, colpi di scena e capovolgimenti di fronte, destinato senza scampo alla tragedia, visto che La scorciatoia, in breve, lo riassume così: “Il prodotto delle bugie sono altre bugie, così come le incrinature si allargano in crepe sul parabrezza. Prima o poi non ci si capisce più un cazzo”. P.G. Sturges scrive senza esitazioni senza grandi velleità, con un gusto per il ritmo e la sorpresa che tengono il lettore incollato al romanzo almeno quando lui resta vicino a Dick Henry, uno capace di intuire in una frase tutta una visione. Del resto “un uomo è capace di illudersi su un bel po’ di cose, e l’illusione cresce in proporzione alle occasioni. Fornito fin dalla nascita di uno specchio magico, l’uomo lavora tutta la vita per aumentarne la sua capacità deformante” e le battute si susseguono con le cadenze sincopate del miglior jazz: La scorciatoia comincia con Miles Davis e si avvia al finale con Duke Ellington, mentre Dick Henry è alle prese con il rapido sviluppo di una catena di omicidi, tra i boulevard di Los Angeles e le valli della California, nonché con una complicata riconciliazione famigliare (l’uomo è parecchio combattuto, si sarà capito). Come finisce La scorciatoria, in un luogo dove tutti fingono di essere qualcun altro (o qualcos’altro) è anche piuttosto relativo, una questione su cui P.G. Sturges sorvola perché il suo Dick Henry si presta con favore a successive puntate, che non mancheranno. Il divertimento è assicurato (anche qualcosa di più).

martedì 17 luglio 2012

Billy Collins

Billy Collins scrive una poesia che attinge al quotidiano perché crede che la poesia sia e debba essere “una parte della vita quotidiana”. Detto questo, anche nei circoscritti limiti casalinghi, la poesia resta un punto di domanda perché “è una battuta di pesca. Non sai che cosa c’è la fuori fin quando non cominci a scrivere”. La sua linea di partenza è a un passo e, come scrive in Nessuna cosa, è “questo amore per le cose minime, un po’ naturale dallo sguardo lento dell’infanzia, un po’ una posa letteraria”. L’autoironia e uno spiccato senso dell’umorismo sono evidenti già dalle prime liriche di Balistica (per non dire del titolo) e raggiungono un loro apice in Carpe Diem, una ballata surreale e pungente di cui vale la pena riportare almeno un paio di versi: “Vivere la vita appieno è l’unico modo, pensavo mentre sedevo accanto a un finestrone e picchiettavo con la matita la cupola di un fermacarte di vetro”. Con i luoghi comuni, con le filastrocche, con le Poesie d’altri (e i loro nomi, da Robert Frost a Wallace Stevens) Billy Collins gioca in modo pop e popolare, persino divertito quando, cercando di decifrare Famiglie della vasca da bagno dice: “Non è una frase che mi sono inventato, anche se mi avrebbe procurato piacere scrivere quelle parole in un quadernetto per poi guardare in alto al cielo chiedendomi che cosa volessero dire”. La domanda è protagonista anche nelle poesie ispirate dalla prassi quotidiana, un bicchiere d’acqua, l’osservazione di minuscoli eventi, l’assemblaggio di un pulviscolo di sguardi, il tratteggio di piccoli momenti, persino “il tenue stridulo tintinnio, del tungsteno nell’unica lampadina che ha lo stesso fruscio degli alberi” raccontato in Aubade. E’ lì che la poesia diventa parte concreta della realtà: può esssere “occasione in più per interrompere per un momento quel che si sta facendo e riflettere sul mio essere qui in terra” e la speranza che “abbiamo qualcosa di meglio di tutta questa turbolenza che ci conduce barcollando a un finale disastroso”. Billy Collins è stato anche più preciso nella definizione: “L’esperienza di leggere una poesia dovrebbe contenere una sensazione di spostamento (o di essere spostati) da ciò che è familiare a ciò che è sconosciuto, dall’agio al disorientamento. Rileggere la poesia significa rifare l’esperienza di quello spostamento. Perché il disorientamento sia n piacere, un concetto strano nell’epoca dei navigatori satellitari, uno deve sentire il sollievo di essersi tolto il casco delle opinioni che tende a indossare ogni giorno”. Per quanto immediata e coinvolgente, è una poesia molto distante da quello che Billy Collins chiama “il chiasso dell’auto-pubblicità” e gli estremi che Billy Collins definisce con Balistica sono abbastanza netti. Da una parte, quella del lettore, “non si legge poesia per scoprire qualcosa dell’autore, ma si legge per scoprire qualcosa di se stessi”. Dall’altra, a maggior ragione, una rivelazione che andrebbe ribadita più e più volte: “Non scrivo per la platea, ma per la pagina silenziosa”. Dovrebbe essere sempre così.

lunedì 16 luglio 2012

Norman Mailer

Attraverso la riduzione biografica della singolare individualità di Marilyn Monroe, Norman Mailer mette sul piatto un ritratto feroce dell’America, il riflesso delle emozioni di un’intera nazione. La sua rivisitazione in Marilyn è eccessiva nei toni, Norman Mailer è Norman Mailer, eppure lucida, accurata, precisa nella collocazione di Marilyn nel caotico immaginario americano (a partire dal cinema, come è naturale). Quella che, in superficie, simboleggia “la relazione amorosa di ogni uomo con l’America” diventa, con l’approfondirsi dell’analisi, il primo segnale di “un senso imperiale di autogiustificazione” che s’impone negli anni febbrili che poi porteranno a Nixon, a suo modo un’altra icona. Il ricorso al saccheggio di altre biografie, utile a confrontare dati sensibili e a cercare di organizzare quei “fattoidi” che costituiscono una biografia e che sono sono più complicati da gestire dai fatti che formano un romanzo, induce Norman Mailer a lasciare aperte tutte le ipotesi su Marilyn. Con uno sguardo sottile e perfido, anche se non privo di una punta di affettuosità nei confronti di Marilyn, Norman Mailer punta una luce neutra su di lei: è accompagnata, accudita e protetta nel corso della storia in forma di romanzo, come non lo è stata nella realtà. E’ a tutti gli altri che Norman Mailer riserva un trattamento che non risparmia nulla: il tono è sempre sferzante, critico e puntiglioso e il romanzo della vita di Marilyn diventa un’altra occasione per l’espressione di un dissenso, ancora attuale (Marilyn risale al 1973) perché, in sostanza, la sua storia “è la classica commedia da cittadina americana. La gente impazzisce in tranquille logore strade all’estremità dell’abitato mentre l’invidia è generata e le convenienze sono ora ignorate ora rispettate. Eppure il fondamentale senso della follia americana, quella violenza che vive come un ronzio elettronico dietro il silenzio anche dei più sonnacchiosi pomeriggi domenicali, cova nelle balsamiche serate subtropicali di Hollywood libere dallo smog: la visione della frontiera americana è finita in un visore per diapositive per uscirne sotto forma di spettri di tre metri su uno schermo”. Anche quando cerca di restare nel recinto della sua personalità, Norman Mailer non riesce a distaccarsi dall’idea di Marilyn come l’estrapolazione di un desiderio, la proiezione di un istinto perché “era senza dubbio qualcosa di più e qualcosa di meno dell’argentea incantatrice di tutti noi. Nella sua ambizione, così faustiana, e nella sua ignoranza delle dimensioni della cultura, nelle sue nobili aspirazioni democratiche intimamente contraddette dal sempre più ampio stagno del suo narcisismo (dove ogni amico o schiavo doveva bagnarsi), possiamo vedere lo specchio ingrandito di noi stessi, la nostra generazione esagerata e ora decisamente sconfitta”. Forse la sua Marilyn non è esaustiva né nel senso della biografia né nel senso del romanzo (nel caso biosgna ricorrere a Blonde, il monumentale ritratto di Joyce Carol Oates), ma è perfetta nel raccontare forza, debolezza e altre contraddizioni di un’icona americana del ventesimo secolo.

sabato 14 luglio 2012

Mark Twain

L’ipocrisia di una smalltown, Hadleyburg, sconvolta dal passaggio e poi dal ritorno di uno straniero diventa l’occasione per Mark Twain di ritagliare e concentrare la sua (fondata) opinione sulla condizione del genere umano. E’ quella che definiva “influenza esterna” in Che cos’è l’uomo? a generare lo scompiglio o meglio il virus di un dubbio che scava nei recessi delle certezze artificiali di Hadleyburg, “la città più onesta e integra di tutta la regione”. Una specie di reazione chimica rapida e violenta: il seme piantato dallo straniero trova l’humus perché la coerenza, l’onestà e l’integrità sono costruite, non sono spontanee e non hanno elementi di autodifesa, se non la propria convinzione. La comunità di Hadleyburg è sempre stata “sufficiente a se stessa” e l’educazione dei suoi cittadini “è stato un continuo addestrarci e addestrarci e addestrarci all’onestà. Un’onestà protetta, fin dalla culla, contro ogni tentazione possibile. E quindi non è altro che un’onestà artificiale, e debole come l’acqua, quando incappa nella tentazione, come abbiamo visto questa notte”. Quando o straniero, offeso dalla (pessima) ospitalità di Hadleyburg, inventa una lotteria a senso unico, una falsa promessa che contiene gli elementi maligni della vendetta, la reazione è immediata e sconcertante tanto che gli stessi cittadini si chiedono “in che modo strano siamo fatti!”, con tanto di punto esclamativo che non lascia via di scampo. E’ vero, come scrive Mark Twain, che “non c’è niente al mondo come un discorso convincente per mandare in confusione l’apparato mentale e sconvolgere le convinzioni e corrompere le emozioni di un pubblico non pratico a certi trucchi e illusioni dell’oratoria”, e che il trucco architettato dallo straniero è un pericoloso gioco di prestigio che tocca le sensibili corde dell’avidità e della ricchezza, ma la forza e le imposizioni di un’educazione e di un ambiente, la famosa “influenza esterna”, si rivelano fragili ed evanescenti e sono gli stessi abitanti di Hadleyburg ad accorgersene “perché, gente ingenua, voi non sapete che la più debole di tutte è quella virtù che non sia ancora stata messa alla prova”. Il virus si moltiplica come il ritornello di Mikado e diventa via via più pericoloso. Le contorsioni della piccola città, che con la progressione degli eventi è sempre più estranea alla sua identità (“Sembra di stare dentro un libro! Perché è proprio come un romanzo! Come quelle vicende impossibili che si leggono nei libri e non vedi mai succedere nella vita reale”) non impediscono al desiderio e all’ambizione di avere la meglio sull’onestà e sull’integrità e l’impianto su cui si regge Hadleyburg si accascia su se stesso. Finché non diventa evidente che “la responsabilità è individuale, non collettiva” ed è ciò che anima tutto il racconto di Mark Twain, un elemento che ha anche appigli autobiografici (per il difficile momento che stava attraversando lo scrittore americano), un tema umano, troppo umano inciso a chiare lettere in quello che ha tutti i connotati di un classico, nella forma e nella sostanza.