sabato 30 luglio 2011

Hunter S. Thompson

La sua biografia è concentrata in un verso di una canzone di Warren Zevon: mandate armi, soldi e avvocati. Si tratta naturalmente di Lawyers, Guns and Money da Excitable Boy, anche se all’elenco delle priorità da spedire andrebbero aggiunte dosi non modiche di alcol e stupefacenti assortiti, adatti a tenere Hunter S. Thompson sveglio e incollato alla macchina da scrivere, “un giocattolo fosforescente”, come l’ha chiamato Screwjack, che è diventato un’estensione della sua ipertrofica personalità. Scrittore a tutto tondo, prolifico e caotico, capace di raccontare il Super Bowl o il Watergate con la stessa caustica prosopopea, Hunter S. Thompson usa uno slang bruciante, schematico, sardonico, senza mezzi termini e molto rock’n’roll per fare a pezzi i luoghi comuni del sogno americano e dell’american way of life. In Paura e disgusto A Las Vegas la trama è costruita tutta attorno al mito americano del viaggio, anche se Hunter S. Thompson, con acida ironia, lo interpreta in almeno un paio di modi. Da una parte c'è l’effettivo road movie che lo vede protagonista, a bordo di una fiammeggiante decapottabile, delle avventure lungo le strade tra Los Angeles, Las Vegas e altre proiezioni terrestri degli incubi americani. Nei passaggi strettamente automobilistici, Paura e disgusto A Las Vegas è un formidabile resoconto della varia umanità che vive ai margini delle città e lungo i bordi delle strade. Paesaggi umani bucolici che ben si accordano, nelle descrizioni al vetriolo di Hunter S. Thompson, con i panorami selvaggi e desolati della Death Valley e delle deviazioni metropolitane di Los Angeles e di Las Vegas, città che, è bene ricordarlo, sono state costruite nel deserto. Naturalmente, poi c’è un altro viaggio che Hunter S. Thompson e il suo stralunato avvocato che lo accompagna compiono in Paura e disgusto A Las Vegas ed è quello psichedelico, allucinato e distorto che viene indotto dall’uso di sostanze psicotrope di vario tipo. Attenzione, però: Paura e disgusto A Las Vegas non è affatto un’elegia sull’uso della droga perché non c'é celebrazione, rituale o esaltazione, per quanto sia figlio degli stessi anni. E’ piuttosto uno strumento per vedere con assurda lucidità una realtà diventa sempre più deformata e alienante. Così, tra visioni e incubi, emerge in Paura e disgusto A Las Vegas tutto il greve sarcasmo di Hunter S. Thompson che ha parole di disgusto per la guerra in Vietnam, per le varie amministrazioni americane e per lo stesso modo di concepire vita e morte di una nazione, gli Stati Uniti che, a differenza dell’Italia e dell’Europa in generale, oltre ai drammi umani e sociali hanno saputo creare e rispettare uomini e scrittori come lui. Per questo Paura e disgusto A Las Vegas resta un libro attualissimo e importante anche a venticinque anni dalla sua prima uscita, anno di grazia 1971. Allora come oggi “lo zoo è a pieno regime” e, parola del Doc, “sfangarla è l’unica cosa che conta (a parte queste cicatrici orribili, ma questa è un’altra storia)”. Inimitabile.

giovedì 28 luglio 2011

Sherwood Anderson

Il romanzo perduto di Sherwood Anderson è una raccolta spicciola di storie, saggi e frammenti inediti che vertono in particolare sul rapporto con l’arte e in particolare dell’arte con la vita a formare un piccolo ma ottimo assaggio dell’autore di Winesburg, Ohio. L’avviso, peraltro messo in evidenza degli Appunti sul realismo, dice con molta chiarezza: “Nessuno sembra mai rendersi conto del atto che l’arte è l’arte. Non è la vita. La vita dell’immaginazione resterà sempre divisa da quella della realtà. Si nutre della vita reale, è vero, ma non coincide con la vita stessa, non potrà mai”. Un’avvertenza che avrebbe dovuto seguire il protagonista del romanzo perduto che non è di Sherwood Anderson, ma quello di uno scrittore inglese protagonista dell’omonimo racconto. Come un antico alchimista si dedica al suo libro giocandosi il posto di lavoro,  i legami famigliari finché la scrittura lo travolge senza pietà. Succede perché, come scrive altrove Sherwood Anderson, “l’immaginazione deve nutrirsi continuamente perché la vita immaginativa possa continuare ad avere un significato”. Non è automatico che gli sforzi vengano ripagati e questo è senza dubbio una delle estremità a cui tende la letteratura, che Il romanzo perduto racconta con una punta di perfida e realistica ironia. Il suo autore prova un “dolce senso di soddisfazione per averlo fatto, quel qualcosa”, soltanto che rimane la sorpresa finale, messa lì in bella vista da Sherwood Anderson, non solo a siglare un racconto esemplare, ma anche a inaugurare la navigazione tra le onde della scrittura. Quasi a richiamare il fallimento, l’inconsistenza, la natura volubile, se non proprio volatile, della materia del romanzo perduto, con Noi, ragazzini delle arti e con Quando qualcosa ci sta a cuore Sherwood Anderson si addentra nei gangli più intimi della scrittura a partire dall’essenza primordiale dell’immaginazione: “L’equivoco nasce dal fatto che tutti, non solo gli artisti di mestiere, sono dotati di una certa fantasia. La sola differenza è che la gente comune ha paura di affidarsi alla propria immaginazione, mentre l’artista ci sguazza da mattina a sera”. La definizione è lungimirante perché la connessione tra talento e tempo è quasi una formula matematica, per quanto il risultato rappresenti sempre un’incognita. Ricorda Sherwood Anderson: “I nostri tentativi di scrivere e dipingere, il nostro sforzo, era solo parte di qualcosa che desideravamo: tutti noi eravamo convinti che i nostri sforzi sarebbero evaporati in niente”. La motivazione, che in fondo è anche il senso implicito di questa bella antologia, è tutta in quell’appello a scrittori e lettori che Sherwood Anderson chiama “una nuova responsabilità: perché non è forse il fatto stesso di prendersi a cuore la sorte di ciò che ci sta intorno a lasciarcene intuire la musica segreta? E così ogni volta che qualcosa ci sta davvero a cuore vibriamo noi stessi di bellezza e musica”. A corollario si trovano anche i suoi Appunti sul realismo e un Galateo per conversazioni con scrittori, ideale per affrontare un dialogo tanto improbabile quanto indispensabile. 

martedì 26 luglio 2011

Gertrude Stein

C’era una volta gli americani contiene più di un libro: oltre alle storie delle famiglie famiglie americane, i Dehning e gli Hersland, e alle logiche e conseguenti divagazioni sulla natura stessa dell’America, è un tessuto ricettivo su cui Gertrude Stein sperimenta una forma di romanzo coraggiosa, se non proprio rivoluzionaria, innestando elementi su elementi, materia dentro materia, strati dopo strati. Il suo è nello stesso tempo un “making of Americans” usando la scrittura e l’autocelebrazione di una voce  unica, singolare, poliedrica e ricchissima. L’assimilazione delle storie avviene con un processo circolare ed evoluto che parte da una comprensione filosofica del tempo (“E così visto che il nostro modo di pensare è questo e non possiamo farci niente, nelle nostre storie i nostri antenati saranno uomini e donne avanti con gli anni oppure bambini appena nati o ragazzini. E dentro di noi saremo sempre noi gli uomini e le donne nel fiore degli anni”) e arriva alla plateale considerazione che “sì, siamo bambini molto piccoli quando cominciamo a vederci come uomini e donne adulti”. L’alfa e l’omega di C’era una volta gli Americani stanno proprio nei tentativi di circoscrivere le storie da un punto di vista temporale, quasi a voler identificare uno standard, un classico che Gertrude Stein riassume in effetti così: “Più uno guarda la gente sia pure di sfuggita e più fondata ha la sensazione che verrà un giorno in cui avremo una storia che comprenderà tutti quanti e tutti i tipi esistenti di uomini e donne”. C’era una volta gli americani si avvicina moltissimo a quel libro, anche se in realtà è una fenomenale introduzione ai misteri gaudiosi della lettura e della scrittura, che parte proprio dalla confessione di Gertrude Stein: “Scrivo per me stessa e per quelli che non conosco. Nell’unico modo in cui sono capace. Per me c’è qualcosa di vero in tutti quanti e ognuno somiglia sempre a qualcun altro. Nessuno tra quelli che io conosco vuol sapere quello che ho da dire e perciò scrivo per me stessi e per quelli che non conosco”. Il margine è molto ampio e C’era una volta gli americani è un libro che non si finisce più di esplorare proprio perché la simbiosi tra Gertrude Stein, la sua scrittura e le storie che racconta è concreta, tanto che lei stessa si scopre lettrice e dice: “E’ poi una strana sensazione quella che una prova più avanti quando scopre che c’è del vero nelle storie raccontate nei libri, come noi che una volta amavamo i libri che raccontavano storie, ci piaceva leggerli anche se non abbiamo mai veramente creduto che ci fossero dentro delle verità, e più tardi quando dalla vita stessa si traggono nuove illusioni accompagnate da una sorta di saggezza e si torna a leggere quei libri, eccole lì le cose in cui nel frattempo abbiamo imparato a credere e abbiamo subito la certezza che l’uomo o la donna che hanno scritto quei libri le cose che noi abbiamo passato tutta la vita a corrergli dietro loro le sapevano”. E’ proprio l’effetto, grandioso, che fa C’era una volta gli americani. 

lunedì 25 luglio 2011

William Carlos Williams

Mentore di un’infinità di poeti e narratori (non ultimi Allen Ginsberg, Jack Kerouac e compagnia beat & bella), William Carlos Williams è uno dei più profondi conoscitori del multiforme paesaggio storico e linguistico americano. Ne sono testimonianza il complesso percorso raccontato con Nelle vene dell’America e, in modo diverso ma altrettanto attraente, Il grande romanzo americano. Diciamo la verità: del romanzo, in senso stretto, ha poco o forse niente perché è uno straordinario assemblaggio di strumenti narrativi, saggistici e poetici. Difficile da sviscerare perché, come direbbe Walt Whitman, contiene moltitudini, e quindi molte contraddizioni. Vale a dire, l’America intera rivista come entità culturale e linguistica in tutta la sua complessità: William Carlos Williams cerca di comprendere perché “tutte le qualità che rendono la vita interessante, gioia, dolore, avventure, ambizione, esperienza,  a turno sembrano accentrarsi in questo luogo, irradiandosi da tutti gli angoli del mondo”. Lo fa agendo soprattutto sullo scorrere della narrazione del grande romanzo americano, senza prospettare particolari teorie, ma con quella sagacia, quell’entusiasmo e quella lucidità che hanno sempre distinto la sua scrittura. Essendo che “la letteratura è questione di parole”, William Carlos Williams inventa un romanzo che non è un romanzo, piuttosto un nuevo mundo, come dicono i suoi marinai dove la scrittura è libera di scegliere o non scegliere da che parte stare, assimilando e rigurgitando, senza schemi e con traiettorie irrisolte. E’ un tuffo pieno di incognite e di salti mortali perché “c’è il fuoco. Precipitati dentro. Che cos’è la letteratura a ogni modo se non la sofferenza registrata in mille sillabe palpitanti”. Finché William Carlos Williams quasi a convincere lui e noi che il suo è proprio Il grande romanzo americano arriva ad appropriarsi di una nuova definizione di romanzesco: “credere ciò che è incredibile. Questa è la fede: desiderare quel che non si potrà mai ottenere, volare come una rondine nel vento, in apparenza solo per il piacere di volare”. La progressione esponenziale: Il grande romanzo americano si nutre di parole e apre una finestra dopo l’altra su un mare che non è un mare, con un ultimo, dichiarato atto di fede: “L’immaginazione non verrà meno. Se non è una danza, una canzone, diventa un urlo, una protesta. Se non è spettacolare diventa deformità; se non è arte diventa delitto. Uomini e donne non possono accontentarsi dei semplici fatti di una vita monotona non più di quanto se ne accontentino i bambini, l’immaginazione deve adornare ed esagerare la vita, deve darle splendore e stravaganza, bellezza e profondità infinita. E la semplice accettazione di queste cose dall’esterno non è sufficiente, non è sufficiente dichiararsi d’accordo e confermare quando l’immaginazione esige l’energia creativa come soddisfazione. Lo spettacolare esprime la fede in quella energia, è un grido di gioia, una dichiarazione di ricchezza. E’ almeno l’inizio dell’arte”. Anche qualcosa in più.

mercoledì 20 luglio 2011

Jenny Siler

Azione, ritmo, velocità: con Transamerica Express esordisce una scrittrice che ha capito fin dal primo romanzo quali sono gli elementi basilari per tenere il lettore incollato ad un libro dalla prima all’ultima pagina. Una dimensione più necessaria, che utile. Ventisette anni all’epoca, una biografia fatta di lavori più o meno occasionali, residenza un po’ decentrata a Missoula, nel Montana, Jenny Siler non perde tempo ad inventare improbabili linguaggi generazionali, non si trastulla con le parole e sceglie cadenze marcate, frasi brevi e secche, descrizioni essenziali per raccontare i viaggi di Allie, professione corriere. Con la differenza che i suoi (preoccupanti) clienti non firmano fatture e ricevute: il più delle volte si accontentano di sparargli addosso, e questo vedendo le credenziali di Allie, una che cerca di cavarsela anche in condizioni impossibili, può anche andare. I problemi cominciano, in Transamerica Express, quando decidono di fare terra bruciata attorno a lei perché l’ultima consegna potrebbe aprire uno squarcio dagli esiti insondabili nel passato di troppa gente, abituata a giocare duro e sporco. Figurarsi se Allie, una protagonista che risulta subito simpatica, ci sta a vedersi ammazzare amici e parenti in mezza America: quando parte alla riscossa, i risultati si possono  immaginare senza tanti voli pindarici. Non sarà mai un capolavoro, Transamerica Express, e non è ancora abbastanza definito ed esplicito nello spiegare chi è e cosa può diventare Jenny Siler, ma è un libro che si legge di corsa, fedele agli standard dei noir e di tanti road movie. Allie è sempre sulla strada con due o tre pistole nascoste in macchina (e considerate le condizioni del suo viaggio, non sono proprio relative), ma chi legge si trova subito a suo agio tra le pagine, riconoscendo schemi ben noti eppure risolti con insolita freschezza. Qualcosa in più si vede quando Jenny Siler annota le riflessioni della sua eroina, postino illegale in un mondo che non sopporta. L’esternazione di Allie è scoppiettante e spigolosa: “Di tutta la merda che devo sopportare quando lavoro, contatti casinisti, pacchi con roba mancante, sbirri, la cosa più difficile da affrontare è la tipica famiglia americana. Una volta lasciata la costa e aggredito il ventre del paese, i grandi, ciechi stati centrali con le loro chiese formato granaio e cibo che non sa di nulla, è difficile sfuggire alla morsa di un’inquietante normalità”. L’argomento, va da sé, merita ricerche più approfondite ed è chiaro che non sarà mai Jenny Siler a scovare una qualche risposta o a fornire altri livelli di lettura: il ritmo forsennato di Transamerica Express non concede né lo spazio né il tempo talmente è concentrato sulla storia e sulla strada (che in gran parte coincidono) e sulla vita “on the wrong side of the road” di Allie. Chiedere di più a lei, a Jenny Siler o a Transamerica Express non sarebbe giusto: per quanto semplici e   marginale, semplice sono più concreti di tanta pseudonarrativa che non riesce a far altro che parlarsi addosso. 

martedì 19 luglio 2011

Kaye Gibbons

Il linguaggio è diretto, rustico, naturale: Maggie Barnes, la madre volubile e incontrollabile e Hattie, la figlia che è la protagonista di A occhi chiusi dialogano in un modo impossibile, eppure il confronto è serrato, continuo, martellante. Il quadro famigliare, con il padre che cerca con infinita pazienza di tenere insieme fili sfuggenti spinge Hattie ad accellerare i tempi e A occhi chiusi è la dolorosa ricostruzione di un’infanzia trascorsa accanto a una donna, una madre, intenzionata “a far parte dell’umiltà” nonostante la malattia, il disagio e la confusione. Hattie usa il ricordo come una leva per ritrovare qualcosa che le è sfuggito e per trovare un ordine a dimensioni troppo ingombranti. “Fui sottoposta a una tale valanga di idee e sensazioni insolite che avrei impiegato anni a scavare tra le macerie, stupita da quanto la vita mi stava mostrando, incerta su quanto si aspettava che custodissi” dice nel cuore di A occhi chiusi e si comprende il suo stupore. La dinamica dei rapporti è ondivaga e segue le tempeste emotive della madre che si trascina tra cupe depressioni e inarrestabili momenti di euforia. Il padre, per quanto stoico nelle sue sopportazioni, non può esserle d’aiuto più di quel tanto. Una delle spiegazioni all’improvvisa attività sessuale della madre arriva così, senza troppe perifrasi: “Devi sapere che uomini e donne si esercitano a fare bambini. C’è gente che non fa altro nella vita. A quanto pare, ultimamente tua madre ha una gran voglia di esercitarsi. Ma non preoccuparti prima o poi si fermerà a riprendere fiato”. La felicità, o anche solo una parvenza di serenità, è una chimera e in un continuo clima di conflitto Hattie impara a sopravvivere attraverso le parole. Un’iniziazione di cui lei stessa si accorge ben presto: “Già allora avevo la netta sensazione che in casa nostra avvenisse qualcosa di cui non ero al corrente. Conversazioni ed eventi mi passavano sopra la testa, e io trascorrevo il mio tempo a origliare la vita della casa”. A occhi chiusi è l’estremo possibile della sua scrittura, dove si incontrano i temi “southern” così come una raffinata evoluzione dello stile, in cui i dialoghi, figli di una radicata cultura orale, vengono definiti e impreziositi ma non edulcorati. Un aspetto che ha un riscontro autobiografico e sincero: in un’intervista Kaye Gibbons ricordava che nelle sue radici sudiste “c’è una tradizione oratoria molto radicata a tutti i livelli. Amiamo esprimerci in maniera colorita, folkloristica. Amiamo moltissimo le metafore. Cerco di dare alla mia scrittura e alla struttura dei romanzi un contenuto più denso, voglio mostrare un po’ più di quello che sta in profondità. Non sono brava a descrivere i paesaggi o le coreografie e sento che non lo sono nemmeno per le fisionomie. Così, quello che conta per me sono le motivazioni delle conversazioni. Per il resto, mi basta lasciare degli appunti, poi il lettore è libero di immaginarsi quello che vuole”. Soprattutto con A occhi chiusi, un romanzo da “sentire” più che leggere.

Christopher Dickey

Dopo i non pochi figli d’arte del rock’n’roll, eccone uno che arriva dalla letteratura. Christopher Dickey è infatti figlio di James, già autore di Dove porta il fiume, romanzo da cui è stato poi tratto un film fondamentale per capire il senso estremo della wilderness (non solo americana), ovvero Un tranquillo week-end di paura di John Boorman. Del padre (scomparso nel 1997) è stato pubblicato e tradotto anche Oceano bianco, mentre la tradizione di famiglia si arricchisce del’ottimo Sangue innocente di Christopher Dickey. Già corrispondente di guerra (ha vissuto oltre un anno con un gruppo di contras, esperienza che non è augurabile nemmeno al proprio peggior nemico), poi responsabile dell’ufficio parigino di Newseek (bella vita) Christopher Dickey con Sangue innocente coltiva un personaggio, Kurt Kurtovic, votato a fare esplodere molte delle contraddizioni della cultura americana, che lo stesso protagonista sintetizza, in modo molto essenziale, così: “Le dinamiche dell’immigrazione non sono così importanti, in America, una volta che ci sei arrivato”. Gli intrecci storici, politici, in gran parte anche militari che scorrono insieme al Sangue innocente portano a svelare situazioni paradossali vissute dall’America nel suo ruolo di guardiano mondiale, con tutti i contorni di paranoie, paure, ossessioni e tormenti assortiti. Però non c’è soltanto questo in Sangue innocente, titolo pertinente che ha due o tre strati di significati da svelare. Una grossa mano ce la può dare lo stesso Christopher Dickey che in un’intervista ha così spiegato la natura di Sangue innocente: “È un romanzo sul terrorismo. Volevo scrivere di un terrorista musulmano, ma volevo togliere completamente gli elementi razzisti dell’analisi. Non volevo che i lettori vedessero subito un arabo dalla pelle scura, un tipico cliché. Così ho immaginato un ragazzo cresciuto nel Kansas, i cui genitori erano immigrati Jugoslavi dei tardi anni Quaranta. Una famiglia sfasciata: la madre alcolizzata, un padre morto giovane, lui che entra nell’esercito e diventa un ranger e parte per la guerra del Golfo, senza aver coscienza del fatto che il padre era musulmano. Poi quando muore la madre, scopre le sue radici in Bosnia e decide di riportare la guerra in America. Il fatto strano è che sono partito con l’idea di scrivere un libro sul terrorismo e sono finito per costruire una storia che parla di famiglie a pezzi, di alienazione e legami negati, di ricerca delle proprie radici, in tondo”. Kurt Kurtovic, il suo alter ego in Sangue innocente, a sua volta ha sintetizzato la questione così: “Non sei il tuo indirizzo”, e nel suo vagare per quattro continenti alla ricerca del proprio passato scopre una trama esplosiva di paradossi e connessioni. Con un finale che si articola in due segmenti: il primo che sembra già scritto per una versione cinematografica con l’happy end che l’intero mondo si augura; il secondo, più inquietante, è quello che tutti temono. Come si dice in questi casi, buon sangue non mente.

lunedì 18 luglio 2011

Philip Dick

Per una ragione non meglio spiegata, ad un certo punto, intorno al 1986, il tempo ha cominciato a scorrere In senso inverso, proprio come recita il titolo di questo inquietante romanzo di Philip K. Dick. I morti risorgono, la gente vomita invece che mangiare, quindi dice merda al posto di cibo e viceversa, come è naturale e logico che sia in un contesto ribaltato: non è soltanto il tempo ad andare al contrario, ma tutta la vita. Nel 1998, anno in cui è ambientato In senso inverso, la Fase Hobart, il principio su cui si regge tutto il romanzo, giunge al culmine con la rinascita dell’Anarca Peak, un leader spirituale di colore dal carisma infinito. Attorno a questo evento si sviluppa in modo esponenziale l’intreccio di passioni, interessi, risvolti storici di In senso inverso. Non tutto però va al contrario: nella Los Angeles e nel mondo di In senso inverso la burocrazia, la sete di potere e le conseguenti lotte intestine alle istituzioni, una dilagante solitudine, persino una certa latente disinformazione (riassunta in un lapidario: “Tutto ciò che sappiamo lo leggiamo sui giornali”) appartengono di diritto alla realtà. Non che ci sia una qualche forma di condanna o una morale nello scorrere di In senso inverso, anche perché come scriveva lo stesso Philip Dick nel monumentale Mutazioni “lo scrittore non ha alcuna autorità morale; non più del pubblico, comunque, e spesso meno di questo. Quale morale può mai insegnare? Quel che può fare è presentare le proprie idee”. Scritto nello stesso periodo di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? a cui come è noto si è ispirato Ridley Scott per Blade Runner, In senso inverso di idee ne offre una valanga, a partire dai diversi e numerosi registri con cui Philip Dick incolla il lettore alle pagine fino all'atmosfera generale del romanzo, gotica e densa di riferimenti che diventano basi importanti per qualsiasi percezione del futuro, sia essa fantascientifica o meno. Non ha mai avuto la paura di confrontarsi con i problemi etici, filosofici o soltanto tecnici e razionali che lo sviluppo tecnologico impone ed anzi, alcune sue visioni hanno anticipato di diversi anni soluzioni scientifiche e catastrofi tecnologiche (con punte di vera e propria profezia, perché nel 1981 in Predizioni scriveva: “1985. Intorno a questa data, o prima, si verificherà un incidente nucleare di proporzioni gigantesche, in Urss o negli Stati Uniti, in seguito al quale verrano chiuse tutte le centrali nucleari” e almeno per quanto riguarda la prima parte della previsione ha centrato il bersaglio) e interpretando con ammirevole lungimiranza parecchi temi scottanti quali la manipolazione genetica o la clonazione, oggi di dominio pubblico. In senso inverso ne sfiora altrettanti e d’altra parte conferma che la scrittura permette di modificare il tempo. Come diceva Philip Dick (ancora in Mutazioni): “Quel che mi importa è scrivere, l’atto di produzione del romanzo, perché mentre lo sto compiendo, in quel momento particolare, vivo davvero nel mondo di cui sto scrivendo”. L’unico che conta.

Francis Scott Fitzgerald

L’insegnante è particolare, frizzante, pungente e singolare. Spesso è altrettanto spiazzante e coraggioso nel dispensare consigli e conclusioni e nell’elencare le probabilità e gli imprevisti della scrittura e della lettura, due metà indivisibili della stessa realtà, e questo basterebbe ad alzare il tono di uno spicciolo manuale per adepti e specialisti. In più Francis Scott Fitzgerald alimenta una visione della letteratura tra le più sensibili, acute e condivisibili di sempre quando dice: “Questa, in ogni caso, è fra le cose più belle della letteratura: scopri che i tuoi desideri sono universali, che non sei solo, che non sei isolato da nessuno. Sei parte di”. Una precisazione che non può lasciare indifferenti soprattutto se si pensa che il mestiere di scrivere e di leggere parte comunque da una scintilla che nella sua essenza è solitaria e silenziosa perché, scrive ancora Francis Scott Fitzgerald “che sia qualcosa successo vent’anni fa o soltanto ieri, all’origine di tutto ci dev’essere un’emozione; un’emozione che mi tocchi da vicino e che io possa capire”. L’argomento è evanescente per definizione, le idee, le storie, i personaggi appaiono e scompaiono e quindi qualche punto fermo è utile. Prima regola, trattandosi di uno sforzo imponderabile e complicato: “Il lavoro è praticamente tutto. Ma non sarebbe male poter distinguere tra il lavoro utile e la semplice fatica. Anche questo, forse, fa parte del lavoro: saper cogliere tale differenza”. E’ fondamentale perché scrivere e/o leggere devono essere indipendenti da ogni altro fine, sono loro, il fine. Seconda regola, quasi consequenziale e altrettanto importante, se non di più: “Non si scrive per dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire”. La pagina bianca è un’invenzione inutile perché quando si comincia succede che, come scriveva Francis Scott Fitzgerald a Max Perkins “i personaggi non smettono mai di pensare, parlare, sentire, e tu pensi, parli, senti con loro”. E’ in quel momento che diventa concreto, palpabile l’essere parte di, ovvero quando “i fili della tua vita iniziano a intrecciarsi in un’unica trama, in modo che la fine di un lavoro coincide automaticamente con l’inizio di un altro”. Questi comandamenti sarebbero presuntuosi, se non fosse che, pur nella sua grandezza, si riconosce in Francis Scott Fitzgerald l’umiltà di chi riconosce di essere soltanto una metà come scriveva in Crepuscolo di uno scrittore: “Noi scrittori, perlopiù, siamo costretti a ripeterci: questa è la verità. Abbiamo due o tre esperienze intense e toccanti nella vita; esperienze così intense e toccanti che non sembra possibile, al momento, che qualcun altro sia mai stato così coinvolto, colpito, abbagliato, sbalordito, battuto, spezzato, riscattato, illuminato, ricompensato, avvilito. Poi impariamo il mestiere, più o meno bene, e raccontiamo le nostre due o tre storie, ogni volta in forma diversa, forse dieci, forse cento volte, finché la gente le sta ad ascoltare”. Essere parte di, ed è tutto quello che serve.

giovedì 14 luglio 2011

Walter Mosley

Romanzo d’iniziazione torbido e feroce, Il viaggio è un curioso flashback nelle vite di Ezekiel Rawlins e Raymond Alexander. Nomi per esteso di Easy e Mouse che, come si sa, sono i suoi personaggi preferiti di Walter Mosley alla cui saga ha dedicato un bel po’ di romanzi. In particolare il primo, ma anche Mouse, un tizio che non ci mette un attimo ad infilare il coltello nella pancia di qualcuno e dare “una rimescolata alla minestra” come direbbe lui. Il problema è che si deve sposare (prima o poi capita) e per mettere insieme il gruzzolo necessario decide di partire verso la città del Texas di cui è originario. E’ il 1939, Easy lo segue e dopo un po’, come capita a gran parte dei viaggi americani, se non tutti, l’orizzonte si perde. Un po' perché il paesaggio non lascia scampo e Easy e Mouse si trovano davanti a pianure piatte e monotone, ma tutt’altro che aride. Come notano anche loro durante Il viaggio: “Dicono che questa zona è come un deserto, e hanno ragione, qualche volta. Ci sono strisce di terreno su cui non cresce quasi mai niente, ma anche qui le cose non sono così semplici. Il Texas contiene tutti i tipi di terra: argilla rossa, zolle grigie e fertile terriccio marrone, trasportato o lavorato con il sudore da poveri contadini che cercano di farci crescere qualcosa. Quella terra ti dà una sensazione di fiducia perché è così tanta e così diversa, e soprattutto, perché ha la pazienza di starsene lì e di non cercare mai un posto migliore”. Un po’ perché quando cominciano ad accorgersi che “la strada è piena di vipere” le variazioni sul percorso diventano frequenti e incontrollabili, in particolare modo quando gli ospiti indesiderati hanno le sembianze di fantasmi e ricordi che appaiono in continuazione. A volte, sotto la stesa ombra, specie dentro un blues: “Una volta Blind Lemon Jefferson suonava qui, più di quindici anni fa, ma mi ricordo quanto suonava bene come se fosse passata una settimana”. Citare il più spiritato e lancinante dei bluesman è impegnativo, però appropriato e non soltanto per la comune denominazione geografica. Sulle sue note Il viaggio diventa anche un pellegrinaggio nel tempo, verso il passato, dentro la miseria, quella che tutti i personaggi di Walter Mosley conoscono bene perché come si sente dire Easy “i poveri non hanno tempo di preoccuparsi delle raffinatezze, Ease; un disgraziato non può nemmeno guardarsi il culo perché basta che abbassi gli occhi un attimo ed è finita”. Il linguaggio, si sarà, capito è questo e Walter Mosley non fa altro che sbatterlo sulla pagina senza tante esitazioni, dandogli quel tanto di dignità necessaria a garantire l’esistenza dei suoi personaggi preferiti. E funziona perché con l'ombra della seconda guerra mondiale che incombe, Eazy e Mouse rotolano sulle strade, tra le paludi e i juke joint, sbagliando e riprovando e cercando di cogliere quella “piccolissima luce” che è la vita, come direbbe James Baldwin, non smettono un attimo di parlare, parlare, parlare. Il rap deve essere nato così.

mercoledì 13 luglio 2011

Richard Ford

I protagonisti delle short stories di Rock Springs sono sempre in mezzo, “dove c’è l’azione” direbbe Sam Shepard, con cui hanno un certo grado di parentela. Con una differenza sostanziale: mentre nel caso di Sam Shepard l’azione è spesso (o quasi sempre) il viaggio, nei racconti di Rock Springs i passaggi esistenziali sono sottolineati in gran parte dall’immobilità come quella raccontata dal protagonista alla fine di La preda: “E mentre stavo lì disteso a fumare in quella luce grigia, mentre il frigo ronzava e i ferrovieri dello scalo smistavano le carrozze e le agganciavano, pensavo che, anche se la mia vita in quel momento sembrava aver preso una brutta piega ed essersi fermata, come vita, per me, essa significava ancora qualcosa, e non sarebbe passato molto tempo prima che ricominciasse in qualche maniera promettente”. Le short stories di Richard Ford sono pervase da una calma apparente, che appartiene più al tono che ai temi. Le vite raccontate da Richard Ford sono piuttosto turbolente o indefinite, nel migliore dei casi, e se c’è una speranza va proprio cercata nell’atmosfera che riesce a creare Richard Ford. E’ quel riflettere a voce alta attraverso i pensieri dei suoi personaggi che all’epoca si era già distinto in Sportswriter, coetaneo delle short stories di Rock Springs (rispettivamente 1986 e 1987). Molti dei personaggi sono vicini per le condizioni e l’umore a Frank Bascombe, a partire da quello che conclude Amore con una definizione azzeccata del titolo e del suo significato: “Sapevo cos’era l’amore e sapevo di che si trattava. Si trattava di non inguaiarsi e di non inguaiare nessuno. Si trattava di non lasciare una donna per il pensiero di un’altra. Si trattava di non essere mai in quel posto dove dicevi che non saresti stato mai. E si trattava di non essere mai solo. Mai. Mai”. Tutti, in Rock Springs, sembrano tormentati dall’amore e dalla vita e si pongono un sacco di domande, forse troppe, perché la conclusione di Great Falls, un titolo questa volta ambivalente, è lapidaria: “Anche se forse è, la risposta, semplice: è la vita, la mediocrità della vita, una freddezza che c’è in ognuno di noi, un’impotenza che ci porta a fraintendere la vita quando è pura e semplice, che fa sembrare la nostra esistenza un confine tra due nulla, e che ci fa essere né più e né meno come animali che s’incontrino per la strada: guardinghi, inesorabili, privi di pazienza e di desiderio”. Le influenze di Raymond Carver e John Cheever, tanto per cominciare, sono alle spalle e Richard Ford ha ormai trovato un mood informale e personale, più vicino allo storyteller e al songwriter che allo scrittore tout court. Le storie di Rock Springs, proprio a partire dal tono colloquiale, hanno molti punti di contatto con le ballate springsteeniane. Legame che diventerà chiarissimo al momento di dare un successore a Sportswriter, che Richard Ford non avrà alcun timore a chiamare Il giorno dell’indipendenza, proprio come la grandiosa ballata di The River, e non è proprio una coincidenza, anzi.

domenica 10 luglio 2011

Washington Irving

C’era una volta New York è il risultato di un intreccio di vite, un quadro di Mondrian le cui perpendicolari e parallele sono tracciate dalle gesta di governatori e condottieri che rispondono al nome di Peter Stuyvesant, Wouter Van Twiller, William Kieft. Protagonisti in una città che era ancora un isola, fondatori di una nazione dentro la nazione, eppure anche le loro apparizioni sul territorio magnetico di New York sarebbero rimaste fugaci e  imponderabili perché come scrive Washington Irving “per quanto possiamo avere grande opinione di noi stessi, e per quanto possiamo suscitare il vuoto plauso della massa, è certo che anche i migliori tra noi non riempiono in realtà che uno spazio minuscolo nel mondo, ed è ugualmente certo che anche quel piccolo spazio viene rapidamente occupato di nuovo non appena lo lasciamo vacante”. Se non fosse per lo storico che si ispira a Senofonte, Sallustio, Tucidide, Tacito e Livio l’oblìo avrebbe avuto la meglio e non a caso la stesura di Washington Irving è ridondante: un florilegio di arabeschi e di speculazioni filosofiche trascinato  da una scrittura che ha il suono degli zoccoli dei cavalli sui ciottoli della Bowery. Un andamento insieme maestoso e ruspante con il tono del vociare della street life che offre un’articolazione alla storia eccessiva e fuorviante e non di meno fedele allo spirito dei tempi e dell’opera stessa. Anche lo stratagemma studiato da Washington Irving per la genesi di C’era una volta New York appartiene alle dimensioni caotiche della città: un manoscritto abbandonato in un albergo viene pubblicato giusto per ripianare i debiti di un ospite ormai fuggitivo. Non unico e non ultimo: anche nella prosa lussureggiante di Washington Irving gli elementi conflittuali di una città che è stata un avamposto (e un’avanguardia) vengono riportati nell’insieme ed evidenziati angolo dopo angolo. Sono le discendenze di New Amsterdam, le origini di Battery Park, le radici del nome di Manhattan gli highlights della ricostruzione “mitica” di Washington Irving dove New York diventa una terra di frontiera a cui lo storico alias il narratore, conferisce, non senza una certa furbizia, “un’antichità che risaliva fino alle regioni del dubbio e della favola”. La lezione di C’era una volta New York vale proprio per l’intenzione estrema che sembra coinvolto e assorbito soltanto soltanto dall’oggetto del desiderio metropolitano, ma è certo e convinto che tutti i miti hanno bisogno di essere raccontati per esistere. New York compresa perché “le città di per sé, e in effetti gli imperi di per sé, non sono nulla senza uno storico. E’ il narratore paziente che registra con gioia la loro prosperità quando nascono, che divulga ed elogia lo splendore del loro sommo apice, che puntella i loro pericolanti monumenti commemorativi quando si avviano verso la decadenza, che rimette insieme i loro frammenti sparsi quando marciscono, e che devono raccoglie infine le loro ceneri nel mausoleo della sua opera e innalza un trionfale monumento, è costui che trasmette la loro fama alla posterità”. Esagerato.

venerdì 8 luglio 2011

William Goldman

Raymond Euripides Trevitt o meglio Raymond se ne va in giro per la città prendendo a calci i suoi giorni e combinandone di ogni colore. Il padre è un professore universitario incapace di sollevare la testa dai libri e la madre, salvo il minimo sindacale di affetto, è altrettanto assente. Con questi presupposti, Raymond è il protagonista che si presenta alla vita e all’età adulta con un carico impossibile di contraddizioni ed è costretto a svolgere riti di passaggio crudeli e dai risvolti drammatici. Gli impulsi autodistruttivi sono all’ordine del giorno, come una strada obbligata, un percorso di guerra, una linea da superare che viene spostata sempre più in là. Chiamandosi Euripides vale la pena riassumere la sua storia con un frammento dell’illustre antenato: “Molti uomini, a causa del riso,
 producono gioie illusorie: ma io
 odio i buffoni che per mancanza dei saggi
 hanno bocche senza freno, e non
vanno verso armonia d’uomini, ma nel riso degne case abitano, e dalle navigazioni giungono salvi a casa”. Raymond è proprio uno di loro e la sua storia viaggia sulle ali di un linguaggio spiccio e pratico e a metà strada, è il caso di dirlo, Io sono Raymond arranca e anche la scrittura sembra ripetersi con una certa stanchezza inseguendo le gesta di Ray e Zock, l’amico di una vita, e delle ragazze che tormentano. Poi è come se venisse varcato un limite e si apre una ferita, una frattura netta circoscritta da due eventi tragici. Nel primo, Zock alias Zachary Crowe, rimane ucciso in un incidente stradale in cui guidava lo stesso Euripides. Nel secondo la vittima è un suicida, un compagno d’armi, perché lui stesso a un certo punto pensa che l’esercito possa essere una soluzione con le sue regole, al disordine e al caos che la sua presenza riesce a generare. L’unico amico che trova è il figlio del comandante che che si fa esplodere una granata addosso facendogli guadagnare la classica ferita da un milione di dollari che lo rispedisce alla vita civile. Il segmento di romanzo compreso tra le due morti è una terra di nessuno che separa la vita dei figli da quella dei genitori ed è dove Raymond si accorge della distanza e della separazione: “Sono diventato ciò che sono, credo, anche grazie a loro o loro malgrado, che più o meno è la stessa cosa. E se non erano i genitori che avrei desiderato  se avessi potuto scegliere, so che nemmeno io sono stato il figlio che loro avrebbero voluto. E così tutto si pareggia. In un mondo come questo, sarebbe insensato pretendere di più”. Essere giovani ed essere già vecchi: è come se Raymond fosse il romanzo, il dramma, come se non ci fosse altra storia, oltre alla sua, fino a quando non si rende conto che “non siamo ricordati per ciò che siamo, per i gesti che veramente più ci rappresentano, ma molto più spesso per piccole cose, per un evento fuori dall’ordinario, che ci proietta, anche solo per un minuto, oltre i recinti delle nostre esigenze”. Non è facile da capire ed è l’essenza della tragedia del crescere, per tutti, anche per chi si chiama Euripide. 

lunedì 4 luglio 2011

Don DeLillo

In anni di guerre lontane e senza fine, Elster ha elaborato teorie e speculazioni per il Pentagono perché “la guerra crea un mondo chiuso, e non soltanto per quelli che combattono, ma anche per quelli che tramano, gli strateghi. Solo che la loro guerra è fatta di acronimi, proiezioni, contingenze, metodologie”. Il suo lavoro è stato sviluppare una filosofia per creare modelli utili al pensiero militare, tra estrapolazioni metafisiche e haiku estemporanei. Jim Finley vuole filmarlo, una sola inquadratura, come una testimonianza, ispirato da 24 Hour Psycho, una videoistallazione di Douglas Gordon in cui il film di Alfred Hitchcock è stato rallentato per durare un giorno intero. L’idea è provare che “ci vuole un’attenzione estrema per vedere cosa succede davanti a te. Ci vuole impegno, pio sforzo, per vedere cosa stai guardando”, ma Elster è sfuggente e svanisce nelle strade di New York. L’incontro avviene soltanto nel deserto californiano, dove si è ritirato, perché “le città sono state costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla natura”. Portandosi dietro il suo bagaglio di delusioni e di rimpianti, Jim lo raggiunge e nella notte americana i due si cucinano frittate, bevono, fissano il cielo e parlano anche se entrambi sanno “la vita vera non si può ridurre a parole dette o scritte, nessuno può farlo, mai. La vita vera si svolge quando siamo soli, quando pensiamo, percepiamo, persi nei ricordi, trasognati eppure presenti a noi stessi, gli istanti submicroscopici”. L’arrivo, e poi la repentina e irrisolta scomparsa della figlia di Elster, Jessie, scardina per sempre il fragile equilibrio e Don DeLillo, dentro una cornice e una situazione che ricorda moltissimo le prospettive di Sam Shepard, si muove con le conoscenze di uno scienziato e la cautela di un chirurgo: sa che nei rapporti e nei dialoghi dell’umana realtà “quando hai strappato via tutte le superfici, quando guardi sotto, ciò che resta è il terrore. E’ questo che la letteratura vuole curare”. Punto omega è un taglio chirurgico che pulisce, ma non cura la ferita della percezione che resta pur sempre “un momento, un pensiero, che arriva e scompare, ognuno di noi, su una strada in un posto qualsiasi, e questo è tutto quanto”, e niente di più. In bilico tra un mondo digitale e il deserto preistorico, tra il rumore di fondo e il silenzio totale, tra una visione rallentata per la volontà di un artista e l’osservazione immobile imposta dalla natura, il Punto omega è un bivio desertico e notturno tra “il tempo che si sgretola” e “la coscienza che si accumula”: un luogo più immaginario che concreto, più naturale che costruito in cui Elster può rivelare a Jim l’esattezza della sua filosofia: “Abbiamo bisogno di sapere cose che gli altri non sanno. E’ quello che nessuno sa di te che ti permette di conoscerti”. Il limite del romanzo è implicito nella sua forma, nella prosa: per dire che che la realtà è l’alfa non l’omega, come ha fatto Wallace Stevens, serve la poesia e quello è un estremo a cui Don DeLillo non è ancora arrivato. 

Stephen King

“Ciò che corre in tondo torna sempre. Credo l’abbia detto Bob Dylan… O forse è stato Ronald Reagan” si chiede la voce narrante di It e la domanda resta relativa: non importa chi sia stato, è sempre la stessa America che entrambi evocano, un’America immaginaria, sospesa in un limbo di speranze e illusioni. Nella definizione di William Carlos Williams, l’anfitrione che porta a Derry, cioè a It, “un ammasso di poltiglia, una gelatina, una lastra sensibile pronta a ricevere qualsiasi segno vi si voglia imprimere”. Guarda caso, è la stessa plastica e multiforme natura di It ed è per questo che il senso del tempo è quello di un ritorno al futuro e gli elementi fantastici, più che in altri romanzi di Stephen King, appaiono, sì, strutturali, risolutivi e spettacolari, ma non centrali e assoluti. Il mostro, quella “cosa” che si nasconde tanto nelle viscere di Derry, quanto nel passato dei protagonisti, è un riflesso della nostalgia ed è parte della città, della sua storia, del suo intimo. Il paesaggio è dialettico e il ritorno a Derry implica il conflitto con la malefica presenza nei sotterranei della città perché It è Derry e come dice Beverly Rogan “l’incubo è Derry”: un polo magnetico la cui forza d’attrazione è fornita da un nucleo potente e indefinito, la magia di un’età, quella dei bambini, in cui le storie sono tutto. Alla fine è lo stesso Stephen King che “pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia”e It vive di quella battaglia con e/o per i ricordi che emergono con il volto di un clown o con le sembianze di un lupo mannaro o di qualsiasi altro mostro si annidi tra le fogne e a cui non resta che voltare le spalle perché ogni protagonista “nei sogni che farà in futuro sta sempre partendo da Derry da solo, al tramonto. La città è deserta, se ne sono andati tutti”. Magari It non sarà un capolavoro della letteratura americana, ma è una bibbia del rock’n’roll: John Lee Hooker, Joe South, Neil Young, Chuck Berry, Nick Lowe, Marvin Gaye, i Doors, Eddie Cochran, Jerry Lee Lewis, Screamin’ Jay Hawkins, Buddy Holly, Little Richard, Frankie Lymon non sono soltanto la colonna sonora palpitante del Club dei Perdenti. Il rock’n’roll è ovunque, nel passato e nel futuro con il suo infinito presente che nell’era di It, scritto tra il 1981 e il 1985, vuol dire Born In The USA di Bruce Springsteen. Oltre all’epigrafe iniziale, ovvero proprio i primi versi della stessa canzone, Born In The USA fornisce altre due tracce fondamentali: No Surrender e soprattutto Glory Days. No Surrender è l’inno che risponde alla storia di It e Glory Days è il ritornello che crea un varco verso il passato. Born In The USA e It vivono in parallelo la stessa America nostalgica, che poi, come si sa, venne sfruttata a livello di consenso e quindi di politica. Di più il legame con Born In The USA riporta alle sue origini più tragiche e se Stephen King chiamava quell’oscurità It, Bruce Springsteen l’ha chiamata Nebraska.