mercoledì 29 febbraio 2012

Edward Abbey

A Edward Abbey, Tom Russell ha dedicato una bellissima ballata in Indians Cowboys Horses Dogs, che potrebbe essere benissimo anche il sottotitolo di Fuoco sulle montagne. Gli argomenti sono gli stessi perché l’Edward Abbey di cui stiamo parlando è il narratore dei Sabotatori, uno scrittore che riconosce al territorio, alla wilderness americana, al deserto, alle pietre e al vento un ruolo superiore nella vita delle persone e degli animali. Come è giusto che sia, perché soltanto in tempi abulici e banalotti come i nostri si confondono le rive di un fiume con le lottizzazioni, si radono le montagne e poi si parla di fatalità davanti alle frane, ci si spaventa per un po’ di sabbia portata dal vento e non ci si accorge del veleno quotidiano che respiriamo. Fuoco sulle montagne va ancora più indietro nel tempo, nel New Mexico del 1960: nel pieno della guerra fredda, non per niente da lì a due anni scoppierà la crisi dei missili di Cuba, il governo degli Stati Uniti d’America requisisce terreni per ampliare le sue basi missilistiche. John Vogelin, proprietario di un ranch in una terra aspra, durissima e affascinante invece di partecipare al virtuale confronto nel mondo diviso in due, intraprende una sua personale battaglia. A difesa del ranch, ma anche del territorio, della sua bellezza e dei suoi modi, antichi e rudi, di vivere. Per dire, da quelle parti non esistono ipotesi di diete: “Un cowboy lo riconosci sempre da come mangia. Se non mangia come un lupo deve avere qualcosa che non va”. Lo aiuta soltanto il nipote Billy, da tempo trasferitosi in città, ma legatissimo al nonno e al suo ranch. Il confronto genera un romanzo che si legge d’un fiato, seguendo il percorso di almeno un paio di temi che si sovrappongono. C’è il nucleo centrale, quello particolarmente caro ad Edward Abbey, di un’ecologia attiva nella tutela del territorio e dei sentimenti, anche a costo di scontrarsi con le ipocrisie delle ideologie patriottiche (come già era successo in I sabotatori) e con l’inevitabilità delle incombenze storiche e c’è la crescita e la ribellione di Billy che vede negli ideali del nonno una sorta di ultima spiaggia per fuggire alla banalità e allo sfiancante tran tran della vita metropolitana. Con scenari degni di Cormac McCarthy e una dolcezza che, direbbe Jim Harrison, è soltanto una sincerità dell’anima, Fuoco sulla montagna è un bel romanzo sul crepuscolo del West e delle sue libertà, che il lettore apprezzerà tanto per le suggestioni, quanto per la scorrevolezza. Si legge in una sera (o poco più), e fa pensare per una settimana perché quello di cui parla Edward Abbey (come ha ben capito Tom Russell) non è soltanto il New Mexico e un vecchio cowboy che non vuole mollare la sua terra. Parte da un lungo momento di puro terrore che ormai si è impolverato negli archivi della storia per raccontare quello che ci appartiene, quello che è nostro, e che tale rimanere. Non è il ranch di John Vogelin, non è il deserto (salvo che non lo si voglia ridurre tutto così). E’ il mondo in cui viviamo. 

martedì 28 febbraio 2012

Mark Strand

L’uomo che cammina un passo avanti al buio è una corposa selezione di poesie che va dal 1964 al 2006 e rappresenta in modo vivido ed efficace la visione poetica di Mark Strand. Una proprietà di linguaggio che si svela frase dopo frase, che incanta senza appello per il fulgore delle immagini (“Sparirono allora le cetre imperlate di luci inarcate sopra i fiumi di New York. Un altro si riempì il bicchiere e fu la fine per le folle di sera sotto l’accendersi di lampioni giallo zolfo”) e la ricchezza dei temi. Nulla, per citare un altro grande poeta, sembra essergli estraneo, più di tutto e di tutti l’instabile materia dei legami umani in tutte le possibili declinazioni. Tra le tante merita una segnalazione in più La vita tranquilla, rappresentativa in particolare di quella voce che sconfina sul piano narrativa: “Sono passati anni, e anche se ho scordato dove andammo e chi fossimo, ricordo ancora l’istante in cui lo sguardo in cui alzai lo sguardo e vidi la donna guardare fisso oltre di me un luogo che potevo solo immaginare, e ogni volta provo una pena acuta, come in quel momento uscissi dalle profondità dello specchio ed entrassi nel salone bianco, ansimante e ardente, soltanto per scoprire troppo tardi che lei lì non c’è”. La natura delle poesie di Mark Strand parte e arriva sempre da lì e pur procedendo in modo florido e densissimo, è diretta, immediata, nitida e senza una sbavatura in ogni suo verso. “Ogni pagina che si gira è una candela che si muove nella mente. Ogni attimo è una causa senza speranza” scrive ed è come se tracciasse linee nell’aria perché “fissare il nulla è imparare a memoria quello in cui tutti verremo spazzati, e spogliarsi al vento è sentire l’inafferrabile da qualche parte farsi vicino”. E’ una poesia che condivide con il lettore molte domande dal peso specifico importante (una su tutte: “Cosa dovremmo sentire se non la voce che dovrebbe essere nostra darsi forma, la voce segreta dell’essere che ci dice che il luogo in cui scompariamo è il luogo in cui siamo?”), aspirazioni tutt’altro che scontate (“Vorrei uscire e trovarmi sull’altra sponda, ed essere parte di tutto ciò che mi circonda. Vorrei trovarmi in quella solitudine di cose mute, nella squinternata compagnia del vento, trovarmi senza peso, senza nome”) e precisazioni lapidarie sui limiti endemici dell’uso dell’abuso di inarticolate forme d’espressione (“Noi ce ne saremo andati, parlando ad alta voce a noi stessi, ripetendo le parole che sono sempre state usate per descrivere il nostro destino”) che hanno nella scrittura la più plastica evidenza del loro fallimento. Sembra ammetterlo in modo implicito Mark Strand quando dice: “E’ sempre così. Ovunque io sia io sono ciò che manca”. Allo stesso modo le numerose dediche sono piccoli omaggi senza altro scopo se non far brillare voci che condividono la stessa cura per le parole e la stessa passione per le le immagini: tra gli Octavio Paz, Charles Simic, Elizabeth Bishop e Wallace Stevens che per Mark Strand è stato più di un modello.

domenica 19 febbraio 2012

Eric Foner

“Se andate in rete e provate ad inserire in un motore di ricerca la parola freedom” ha detto in un'intervista Eric Foner “Troverete siti delle milizie, di estremisti antigovernativi, gente che non vuole pagare le tasse, che crede unicamente in un mercato senza regole. La parola libertà oggi è spesso usata solo come una negazione: nessuno governo, nessun limite, nessuna inibizione. E quello che io ho provato a suggerire è che ci sono state altre idee di libertà nella storia degli Stati Uniti d'America. La libertà come sicurezzza economica durante il New Deal, la libertà come giustizia nelle battaglie abolizioniste, la libertà dei movimenti per i diritti civili: e non si tratta di idee che abbiamo importato da qualche altra parte. Sono nate qui, in America”. Non potrebbe esserci introduzione migliore: professore alla Columbia University e tra i maggiori storici americani, Eric Foner ha incastrato nella Storia della libertà americana tutte le caselle di quel mosaico che ha portato a riassumere nella parola libertà l'essenza di tutte le contraddizioni su cui sono fondati e prosperati gli Stati Uniti d'America. Se all'inizio il valore della libertà corrispondeva per intero a quello dell'indipendenza, ben presto le interpretazioni cominciarono a trasformarne il senso, e in parecchi casi a deformarlo. L'auspicata rivoluzione intellettuale che avrebbe dovuto seguire la formazione degli Stati Uniti (scriveva Thomas Paine: “Vediamo con occhi nuovi; ascoltiamo con orecchie nuove; e pensiamo con pensieri nuovi, rispetto a quelli che abbiamo usato prima”) venne ben presto superata dalle enorme possibilità economiche che si spalancarono con l'emancipazione delle colonie. Fin dalle fondamenta infatti gli Stati Uniti si prefigurarono come “un mondo in cui la libertà personale coincideva sempre più con l'opportunità di mettersi in competizione per un guadagno economico e per la propria realizzazione". Il nuovo accesso alla proprietà privata, il repentino sviluppo del mercato del lavoro e la retorica nazionalista non avrebbero però risolto le questioni degli afroamericani, dei nativi, della condizione femminile e come giustamente annotava un cronista dell'epoca "mentre nel nostro paese si invoca con tanta passione la libertà la si nega poi ai propri vicini”. Su queste incongruenze si è generata, nel corso degli anni, la Storia della libertà americana ed Eric Foner non trascura alcun dettaglio nel cercare di proporre il più ampio ventaglio possibili di “interpretazioni della libertà”, senza tralasciare la definizione che diede Ralph Waldo Emerson degli americani: “fanatici della libertà”. L'avversione ad ogni forma e logica statale che ha generato l'icona degli outsider perennemente fuori e/o contro la nazione è più radicata di quanti si pensi: anche le milizie, evidentemente, non sono state importate. La libertà, in America, è una contraddizione scritta per costituzione e sono tantissimi gli argomenti che Eric Foner affronta raccontando la Storia della libertà americana, lungo due secoli e mezzo, dalla libertà dagli inglesi alla libertà di consumo. 

giovedì 16 febbraio 2012

Bruce Sterling

Lo zeitgeist, Lo spirito dei tempi di questo sorprendente romanzo di Bruce Sterling, passa attraverso la vita, breve ed effimera, di un gruppo musicale tutto al femminile, molto simile a quelli che vanno per la maggiore oggi. Il talento, la dedizione, lo stile sono relativi: “Non sanno cantare. Non sanno ballare. Vanno in playback. Sulle basi”. Nella realtà potrebbero essere le Spice Girls o qualche succedaneo più recente in Lo spirito dei tempi si chiamano G7 e coerentemente con il loro nome vengono dai maggiori paesi industrializzati. Il loro manager, l’astuto e loquacissimo Leggy Starlitz, al tramonto del 1999 ha grandi progetti per loro: conquistare il mercato musulmano, prima che il fantomatico millenium bug sveli trucchi e responsabilità di tanti sogni. Frenetico e veloce come una canzone pop, Lo spirito dei tempi diventa il territorio adeguato dove Bruce Sterling può stratificare la parodia e la cronaca, dando sfogo ad una scrittura serrata e coinvolgente, con un intreccio di storie, personaggi, moventi e sorprese che non cede mai il ritmo. In tutto questo affiorano, perfettamente inseriti nel contesto del romanzo, i linguaggi e le distorsioni dell’industria del pop. Dai teoremi per e contro il culto della personalità (“Chi ha bisogno di grandi star? Le grandi star sono veleno. Qui stiamo parlando di concetto di mercato. Il primo gruppo pop che non vende musica. Il primo gruppo pop con la data di scadenza”) alla consuetudine delle voci di corridoio (“Queste nostre chiacchiere informali mi fanno molto piacere. Ci apriranno tutto un mondo di potenziale espansione del mercato e del dialogo multiculturale”), che sono poi le vere fonti d’informazione e di comunicazione, tutto Lo spirito dei tempi è permeato dallo slang e dalle costruzioni verbali dello show business. Non si tratta di una semplice metafora, perché sono gli stessi modelli su cui si reggono gran parte dei mass media che Bruce Sterling mostra di conoscere a fondo. La sua interpretazione, brillante e iconoclasta nello stesso tempo, riesce a rendere l’idea della velocità e del caos in cui vengono generati i desideri e di conseguenza i mercati di riferimento. Ci mette una verve tutta sua, come è giusto che sia, nel raccontare le peripezie delle G7 e riesce sempre a distinguerle dalla complessità di piani in cui sono inserite, perché Lo spirito dei tempi non riguarda soltanto la musica e non è riferito soltanto all’effervescenza della cultura pop. Va un po’ più a fondo nello svelare il nostro zeitgeist. A partire dalla regola fondamentale del successo (pop): “Non serve essere eccitanti. Né essere l’uomo del mistero o l’eroe in prima linea. Basta solo far sì che gli altri vogliano delle cose e poi dargli quello che vogliono”. Give the people what they want, date alla gente quello che vuole: lo dicevano anche i Kinks, quando il ventesimo secolo brillava di illusioni e il 2001 era soltanto un anno in un film di Stanley Kubrick e valgono ancora oggi: sono cambiate le rock’n’roll star, ma Lo spirito dei tempi è rimasto lo stesso.

Charles Bukowski

Il protagonista di Pulp, Nick Belane, è un detective alle prese con un caso particolare. Non si capisce cosa stia cercando, anche se lo fa con una certa determinazione, quando prende la porta ed esce nelle strade di Los Angeles: “Fuori, avanzai con decisione tra la nebbia. Avevo gli occhi tristi e le scarpe vecchie e nessuno mi voleva bene. Ma avevo da fare”. Non c’è dubbio che lo sappia dove sta andando: la sua missione è complicata e oscura e gli occupa tutte le giornate, ma non deve scoprire né colpevoli né innocenti e il più delle volte si lascia trasportare dalle onde di una malinconica impotenza che gli fa dire: “Niente da fare. Tutti restavano fregati. Non c’era nessun vincitore. Solo vincitori apparenti. Stavamo tutti dando la caccia a un grandissimo nulla”. A dire il vero le sue ricerche sono abbastanza sgangherate e intervallate da distrazioni ingombranti. Un po’ si tratta di voli pindarici a cui Nick Belane non riesce a rinunciare e che lo portano sempre a riflettere su improbabili svolte esistenziali: “Cominciai a pensare di passare a un altro genere di lavoro. Ero lì in attesa di commettere un’effrazione e registrare una scopata, e non ci provavo nessun gusto. Era solo lavoro, l’affitto, la sbobba, aspettare l’ultimo giorno o l’ultima notte. Sempre ad aspettare. Che stronzata. Avrei dovuto diventare un grande filosofo, avrei detto a tutti quanto eravamo sciocchi, a stare in giro a fare andare l’aria dentro e fuori dai polmoni”. Il più delle volte si fa cogliere fuori posto, attratto da dettagli tanto appariscenti quanto irrilevanti per i suoi scopi. Solo che non sa resistere, e lo confessa senza pudore: “In qualche modo mi persi, cominciai a guardarle su per le gambe. Mi sono sempre piaciute, le gambe. E’ stata la prima cosa che ho visto quando sono nato. Ma allora stavo cercando di uscire. Da quel momento in poi ho sempre tentato di andare nell’altra direzione, ma con fortuna piuttosto scarsa”. Per adeguarsi a quella terra di nessuno, dove le ambizioni sono limitate e le possibilità ancora più rarefatte, Nick Belane ha un suo personalissimo metodo, tutt’altro che infallibile: “Avevo la tendenza a preoccuparmi quando non ce n’era nessun motivo. E quando c’era qualcosa di cui preoccuparsi mi ubriacavo”. Il vero problema è il bersaglio di cui si deve occupare: più ci pensa e più è vago, più lo cerca e più lo perde e, come se non bastasse, “c’è sempre qualcuno in procinto di rovinarti la giornata, se non l’esistenza”. Il suo nome è una sciarada nel cruciverba dei boulevard di Los Angeles e tra un drink e l’altro diventa chiaro che Nick Belane non raggiungerà mai l’incredibile scopo di trovare (o ritrovare, volendo essere generosi) se stesso perché “l’inferno era come lo facevi tu” e nel suo, se proprio non ci sta a meraviglia, almeno sa come tirare tardi. Un caso a parte nella storia di Charles Bukowski, Pulp è un romanzo affascinante e non privo di una sua surreale ironia nell’immergere Raymond Chandler in un bagno di whiskey, se basta a rendere l’idea.

martedì 7 febbraio 2012

Gary Snyder

Nel mondo selvaggio di Gary Snyder, un grande visionario, descrive e illustra quello che chiama “il galateo della libertà”. Una definizione raffinata per introdurre una concezione dell’uomo e del suo posto nell’universo: una disposizione immaginata attraverso il racconto, perché “le narrazioni sono un tipo di traccia che noi esseri umani lasciamo nel mondo. Tutte le nostre letterature sono avanzi”, e una riflessione filosofica che ne è diretta conseguenza. Secondo Gary Snyder “per essere veramente liberi dobbiamo accettare le condizioni fondamentali della nostra esistenza così come sono: dolorose, instabili, aperte, imperfette; ed essere grati della libertà che l’instabilità ci dona” e Nel mondo selvaggio elenca una dopo l’altra tutte le variazioni possibili che mettono l’uomo nella condizione di scegliere il posto dove stare e soprattutto come starci. Quel luogo è il mondo e non potrebbe essere diversamente come perché dice Gary Snyder “il mondo è natura e, a lungo andare, inevitabilmente selvaggio, perché il selvaggio, in quanto processo ed essenza della natura, è l’ordine dell’instabilità”. E’ proprio Nel mondo selvaggio, in quella che Gary Snyder chiama “la grammatica della natura” che va cercata l’esatta dimensione della presenza umana perché “il nostro luogo fa parte della nostra identità” ed è proprio lì, into the wild, che la “wilderness richiama il caos, l’eros, l’ignoto, il tabù, l’ambito a cui appartengono sia l’estasi sia il demoniaco. In entrambi i sensi è un luogo di potere archetipico, di apprendimento e di sfida”. L’ecologia ovvero la filosofia di Gary Snyder è tutta dentro l’appartenenza all’unicità di un mondo che è anche un tempo presente limitato (“Ogni danza e la sua musica appartengono a un tempo e ad un luogo. Possono essere prese in prestito altrove o in un’epoca successiva, ma non sarà mai più il loro momento. Quando questi boccioli culturali sono sfioriti diventano una curiosità etnica o nostalgica, ma non sono mai più pienamente presenti, non manifestano più la rete dei loro rapporti e significati originari”) con cui è indispensabile confrontarsi perché “la natura non è un luogo da visitare, è casa nostra”. Nel mondo selvaggio si regge proprio su questa definizione che insieme apre e disegna i confini tra due mondi, quello della wilderness e quello degli esseri umani, che si definiscono a vicenda. Con una differenza sostanziale, visto che l’homo sapiens ha la responsabilità di comprendere e di conoscere. Come scriveva un nobile antesignano di Gary Snyder, Ralph Waldo Emerson: “Per la mente ottusa tutta la natura è grigia. Per la mente illuminata il mondo intero arde e scintilla di luce”. E’ proprio quello che succede Nel mondo selvaggio: si aprono le porte a una percezione che è primordiale ed evoluta nello stesso modo, e in cui non mancano sorprese, dato che Gary Snyder sostiene che: “occorra risalire ancora più indietro: al mais, alla renna, alla zucca, alla patata dolce. E alle loro canzoni”. Certe radici si trovano solo così.

venerdì 3 febbraio 2012

Ernest J. Gaines

In un’angusta cella di un carcere della Louisiana, un ragazzo condannato a morte per una rapina sfociata in omicidio attende l’ora del’esecuzione. Il suo destino è stato segnato dalla vita nel ghetto, dal colore della sua pelle, persino dall’incapacità di affrontare un giudizio senza cadere in grossolane e brutali storpiature. Il suo avvocato, in un ultimo, disperato tentativo di difenderlo e provando a giustificare una limitata capacità di intendere e volere, arriva a chiamarlo “maiale”, epiteto che pesa quanto la sentenza alla pena capitale. Siamo intorno alla prima metà del ventesimo secolo, i neri rispondono ai bianchi “sì, signore” o “no, signore” e Grant Wiggins, giovane insegnante, viene incaricato di istruire il condannato a morte perché almeno non muoia come un “maiale”, ma con la dignità di un uomo. All’inizio la sua resistenza a una missione difficile, se non impossibile è naturale e spontanea: “Che potrei dirgli? Io so che cos’è un uomo? So in che modo un uomo dovrebbe morire? Dovrei dire a qualcuno come morire quando io stesso non ho mai vissuto?”, si chiede mentre tutte le donne della contea (a partire da Vivian, la fidanzata con cui vive un rapporto intenso e tormentato) sono convinte che sia proprio lui l’unico che può impartire Una lezione prima di morire. Un romanzo che si snoda come un lungo blues, alternando le visite al carcere agli squarci di vita quotidiana, come se fossero strofe e ritornelli delle canzoni di Tampa Red o Hank Williams che arrivano dalle stazioni radiofoniche di Baton Rouge. Una storia dura, per niente accomodante, fin troppo concreta nel suo plastico realismo eppure non priva di una nota di speranza, forse implicita nell’idea della letteratura di Ernest J. Gaines: “Credo che ogni libro sia parte di un grande libro. E’ come una specie di capitolo. Mentre scrivi, scopri nuove cose, e ciascun libro che affronti non serve altro che aggiungere nuove domande. E tu provi a rispondere a queste domande col libro successivo. Ma una volta che hai affrontato anche quel libro, la stessa cosa ti capita di nuovo. Rispondi ad alcune domande, ma ne nascono altre. Penso che tutta la scrittura, in fondo, non sia che questo: cercare continuamente una cosa, ma non torvare mai la risposta. Perché saltano fuori due domande per ogni risposta che trovi. E’ un processo intinterrotto, e probabilmente non troverai mai le risposte tutte insieme. Dopo un po’ ci sarà qualcun altro che prenderà la tua fiammella e continuerà la staffetta per te. O, almeno, questo è quello che si spera”. Di questioni importanti e dal peso specifico rilevante, Una lezione prima di morire ne sviluppa parecchie, anche se poi il pensiero va sempre lassù, come ricorda Grant Wiggins nel suo commiato: “Un’altra cosa, prima di salutarci. Voglio che tutti voi pensiate a una persona durante questo periodo natalizio. Sono sicuro che non devo ricordarvi di chi sto parlando. Se non ci sono altre domande, potete prendere le vostre cose e andarvene. E non voglio sentire baccano per il quartiere. La lezione è finita”. Toccante.

giovedì 2 febbraio 2012

Elizabeth Grosz

C’è qualcuno convinto che, proprio da un punto di vista astronomico e scientifico, all’origine dell’universo non ci sia un’esplosione o un’implosione, ma piuttosto una complessa serie di onde e di vibrazioni che hanno generato il fantomatico Big Bang. C’è qualcun altro, Charles Darwin (non uno qualsiasi), che ha messo la musica in un ruolo fondamentale (al centro) “della selezione sessuale nelle funzioni della selezione naturale”. Questo possiamo capirlo con facilità anche noi, ma, scherzi a parte, non ci sorprende quanto la musica sia importante nella definizione dei rapporti tra Caos, territorio, arte che Elizabeth Grosz sviluppa in modo eccellente, mostrando una conoscenza sterminata, profonda e matura, ma anche una certa eleganza nel condividerla con il lettore. Il tema, ed è evidente, è filosofico perché “la filosofia inventa concetti per creare una coerenza dal caos. L’arte inquadra o compone il caos in modo che sia possibile produrre e far proliferare sensazioni, la scienza opera per rallentare il caos, per estrarne limiti, costanti, misure”, e una volta sottolineate le differenze si torna alle origini primordiali, a quella nebbia rossa in cui il caos genera una forma d’arte che, in fondo, è la risposta della presenza degli esseri umani su un territorio. I passaggi sono sviscerati nel dettaglio da Elizabeth Grosz così: “L’arte dunque cattura entro una cornice un elemento del caos, un frammento, e da esso o estrae non un’immagine o una rappresentazione, ma una sensazione o piuttosto un insieme o una molteplicità di sensazioni”. Si potrebbe fraintendere, ovvero scambiare l’emozione con il caos, due elementi che non rispondono a logiche coerenti e/o razionali, ma i processi del pensiero in Caos, territorio, arte sono troppo precisi per cadere nella tentazione di semplificare, per cui le definizione non lasciano nulla in sospeso. Procedendo nell’ordine suggerito dal titolo, per quanto riguarda il concetto di caos “viene anche esplicitato o evocato attraverso altri termini: l’esterno, il reale, il virtuale, il mondo, la materialità, la natura, la tonalità, il cosmo”. L’apparizione dell’imprevisto musicale a legare i tre elementi in discussione è rivelatoria perché, scrive Elizabeth Grosz  “ogni persona canta la terra e il proprio corpo e li porta a esistere solo identificando quegli elementi terrestri che si legano al proprio corpo e alle proprie esigenze fisiche o si pongono in contrappunto con questi: la terra, per quanto rarefatta e astratta, contrassegna ancora ogni corpo ed è la condizione di tutte le capacità artistiche di ogni corpo. Proprio perché la terra lo incornicia e lo avvolge, il corpo può cantarla e cantare le storie della sua origine”. E’ lo stesso walkabout, lo stesso percorso seguito da Bruce Chatwin lungo “le vie dei canti” e le intersezioni tra Caos, territorio, arte diventano sempre più evidenti, grazie a un’esposizione, quella di Elizabeth Grosz in grado di rendere chiara tutta la sua esplorazione filosofica, neanche fosse un romanzo.