lunedì 30 settembre 2013

Francis Scott Fitzgerald

Catturare per sempre il riflesso di una stagione, la luminescenza di un tramonto, l’affievolirsi notturno di una danza, la sfumatura calante della parabola di una vita, la coda interminabile di una suite jazzistica davanti alla sterminata presenza dell’oceano, irridente nel suo infinito movimento a sfidare le solitudini umane, è una missione impossibile con il limitatissimo strumento della scrittura. Più di tutto, coglierne la distanza, e insieme la prospettiva, dentro l’avvertimento di una luce crepuscolare, è riuscito soltanto alle panoramiche marine e alle finestre oblique inondate di pulviscolo di Edward Hopper che usava la pittura per tracciare trame tanto cangianti quanto impercettibili. Ribaltando gli strumenti e le relative applicazioni, Francis Scott Fitzgerald è riuscito nel miracolo di mettere a fuoco l’inafferabile atmosfera di un’epoca e insieme la natura di un grappolo di emozioni sfuggenti. L’elevato tasso di romanticismo che Il grande Gatsby asseconda è sostenuto dall’equilibrio con cui Francis Scott Fitzgerald si regge “dentro e fuori, al contempo incantato e respinto dall’inesauribile varietà della vita”. L’immedesimarsi nel tenore quotidiano che si sviluppa tra le ville di Long Island, in apparenza un’imperturbabile enclave senza peccato, è un cammino acrobatico su un filo di rasoio che porta Francis Fitzgerald Scott a raccontare il dettaglio più microscopico con un uso macroscopico (e inarrivabile) delle parole. A maggior ragione quando deve inquadrare lo spirito del suo protagonista perché, “se la personalità è una serie continua di gesti riusciti”, Il grande Gatsby si è identificato nell’anfitrione di un’era, aprendo le porte della sua villa, dove “le persone non erano invitate: ci andavano”, a una galassia incredibile, evanescente e pervasa da una frenetica, invisibile tensione. E’ Il grande Gatsby che non è esente da ombre perché “nessun fuoco, nessuna freschezza può sfidare quello che un uomo accumula nel suo cuore fantasma” e la tragedia su cui si immola è logica e coerente con le movimentate orbite di collisione dei suoi protagonisti, così come, nelle tonalità scelte da Francis Scott Fitzgerald è la perfetta riduzione di “un mondo nuovo, materiale senza essere reale, dove poveri spettri, respirando sogni come aria, andavano alla deriva”. I fuochi d’artificio di Jay Gatsby diventano un incendio che divora tutta la comitiva che gli si raccoglie intorno e l’orizzonte si tinge di un colore vermiglio più denso, cupo e impenetrabile. Un tempo stava volgendo al termine e, chissà,  nemmeno i mutevoli party del grande Gatsby erano esenti dall’incombente presagio e, come se avesse intuito un destino senza comprenderlo, “non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in un punto di quel vasto buio oltre la città dove i campi oscuri della repubblica si estendevano nella notte”. Rimane il ricordo e forse la nostalgia di quei, “fatti casuali in un’estate affollata” visto che seguire Il grande Gatsby “era come sfogliare a tutta velocità una dozzina di riviste”. Fa ancora lo stesso effetto.

giovedì 26 settembre 2013

Jack Kerouac

Scritta nel 1957 e rimasta avvolta nella polvere fino a qualche anno fa, Beat Generation è una commedia che fa onore al suo titolo. E’ sgangherata, eccessiva, divertente, anche se ha una sua solidità nei dialoghi sincopati che a vario titolo prendono forma con Buck, Milo, Tommy, Manuel, Slim, Jule, Vicki, Irwin, Mezz, Cora e Paul. Una carrellata di personaggi che bevono, giocano e più di tutto, come ha sottolineato A. M. Homes, “vogliono sapere come e perché esistono e poi, in una specie di combustione spontanea, alla fine arrivano a scoprire che una risposta non esiste, esistono solo l’attimo in cui ci troviamo e le persone attorno a noi”. Se il tema è in buona sostanza proprio quello, le improvvisazioni deviano spesso e volentieri in sacrosanti voli pindarici fino a quando ci si chiede: “Quante sabbie ci sono, che devono essere tolte dall’oceano Pacifico, ogni volta che versi un milione di galloni di succo della gioia nel vuo dell’intero spazio, e importa davvero qualcosa”. Dalla buca del suggeritore a quel punto della pièce arriva un bisbiglio che dice: “(Beve)”, e non sono previste controindicazioni. Le chiacchiere fluttuano inesorabili almeno quanto i propositi di Jack Kerouac che erano, al solito, fantastici e magniloquenti perché, prima di lasciarsi sfuggire Beat Generation in un angolo, e di imbarcarsi in altre mirabolanti avventure, proclamava: “Quello che voglio è rifare il teatro e il cinema in America, imprimere un moto spontaneo, rimuovere i concetti imposti di situazione e lasciare che la gente vada a ruota libera come fa nella vita reale. Ecco che cos’è questa commedia: non c’è una particolare storia, non c’è un particolare significato, c’è solo il modo di essere delle persone. Ogni cosa che scrivo è scritta immaginando me stesso come un angelo che fa ritorno sulla terra e, tristemente, la vede com’è”. La direzione intrapresa è suggestiva ed è la lettura di A. M. Homes  a renderla esplicita: “A differenza di quei reduci della seconda guerra mondiale che, dopo essere tornati a casa, si erano sposati e trasferiti nei sobborghi, abbandonandosi completamente al sogno americano e alla cultura rampante del di più e di più, allargando a dismisura il loro stile di vita, la vita beat veniva vissuta ai margini. I beat avevano poco da perdere e non molto in basso da cadere”. E’ un’annotazione interessante perché riporta la Beat Generation alle sue radici blue collar: la “guerriglia linguistica” di Jack Kerouac nasce dai bassifondi ed è per questo che, come dice A. M. Homes, “Beat Generation è un dono, una caramella trovata sotto i cuscini di un divano. Per quelli di noi che di Kerouac non ne hanno mai abbastanza, ecco qualcosa in più”. Anche se non è molto, con “tutta questa mediocrità che è entrata nella nostra vita negli ultimi tempi”, può sempre servire a guagnarsi il “permesso di esistere”. Un piccolo dettaglio scenografico. Alla fine c’è un flauto che suona. Lo immagino un po’ stridente e il profilo del jazzista nell’ombra è quello di Roland Kirk.

lunedì 23 settembre 2013

Leonard Cohen

Il Libro della misericordia di Leonard Cohen occupa una posizione speciale nell’arco di tutta la sua espressione. E’ un bizzarro breviario, non allineato, non conforme, non adeguato agli schemi e alle leggi della fede così come a quelle della scrittura. Volendo è persino incompiuto, e gran parte del suo fascino risiede proprio lì. E’ una forma di libero dialogo, anomalo e impossibile perché se è difficile “studiare senza un amico”, è altrettanto arduo confrontarsi con interlocutori divini e/o invisibili. E’ lo “scudo della solitudine” la forma di protezione che permette a questi arabeschi un po’ poesia, un po’ invocazioni, un po’ racconti e un po’ meditazioni di concatenarsi l’uno con l’altro in una sequenza logica. Le “lunghe sessioni di prova piene di rettifiche, applausi immaginari, umiliazioni, proclami di vendetta” sono un modo per parlare con se stessi pregando: l’univocità del tema non rende onore alla complessità della figura di Leonard Cohen e non di meno è proprio questa caratteristica a rendere straordinario il Libro della misericordia. Se l’aspetto religioso ha precisi contorni mistici, il tono è colloquiale e confessionale “da solitudine a unità”, come dice Leonard Cohen, precisazione che esprime benissimo il senso di un dialogo a metà: il rapporto con l’altro è scheggiato, improprio, limitato e segue vie misteriose, perché il divino è intangibile e si rivolge a quel “signore del caso fortuito che è l’essere umano”. Per tutto il Libro della misericordia Leonard Cohen è in mezzo a un guado, come gli è successo di frequente, e la sua ammissione è esplicita arriva quando dice: “Ho spaccato in due il tuo mondo, e sono andato a finire da entrambe le parti”. Anche separato e conscio che il tentativo di lasciarsi stritolare dalla comodità dell’ignoranza “era una strategia, e non funzionò affatto”, Leonard Cohen non rinuncia comunque ai suoi strali: “Qui la distruzione è appena percettibile, e là il corpo è lacerato. Qui ci si rende conto che tutto va in frantumi, e là i morti, inconsapevoli, trascinano i loro putridi resti. Tutti commerciano in lerciume, portano l’uno all’altro il proprio lerciume, tutti camminano per le strade come se la terra non si ritraesse per il disgusto, tutti allungano il collo per mordere l’aria, come se il respiro non si fosse ritratto in sé”. Una visione apocalittica, nel senso proprio di rivelatoria, che Leonard Cohen richiama spesso nel Libro della misericordia e in modo sempre più esplicito perché “tutto ciò che non sei tu è l’uomo che crolla contro la propria fronte e la fronte lo schiaccia. Tutto ciò che non sei tu se ne va sempre più lontano, raccogliendo le voci della vendetta, mietendo perduti trionfi lontano dalla vera e doverosa sconfitta”. A quel punto, Leonard Cohen si ritrova “solo con i gusci e le conchiglie” e un ultimo, grezzo e magnifico vespro che contiene ed esprime tutto il senso di questi esercizi spirituali: “Anche se non credo, vengo ora a te, e sollevo il mio dubbio alla tua misericordia”. Inafferrabile.

mercoledì 18 settembre 2013

Louise Erdrich

Siamo nel North Dakota, è il 1988, e per attraversare il territorio in cui sorge La casa tonda bisogna prima di tutto risalire al peccato originale nelle vene dell’America perché alla fonte, come scrive Louise Erdrich, la logica era “arraffare terra indiana più in fretta che si può e in tutti i modi possibili e immaginabili. La speculazione sui terreni è la borsa valori dell’epoca. Lo fanno tutti. George Washington. Thomas Jefferson”. I fondatori della democrazia, dell’indipendenza, della libertà. Non è facile da digerire ed è per quello che le riserve hanno assunto un carattere ambivalente. Sono terre di frontiera in cui l’idea stessa del diritto, delle istituzioni su cui si fonda la moderna nazione americana, gli Stati Uniti, è latente e ambigua fin dai registri delle nascite e delle morti visto che “di generazione in generazione siamo diventati un impenetrabile sottobosco di nomi e di rapporti”. La casa tonda è il luogo rituale, poco più di una capanna in riva a un lago, accanto alla quale viene aggredita, violentata, massacrata Geraldine Coutts. Solo per un caso fortunato, uno di quei piccoli dettagli che Louis Erdrich ama disseminare nei suoi racconti, la donna è riuscita a salvarsi dall’aggressione che, nell’idea del suo carnefice avrebbe dovuto risolversi con un bel cadavere carbonizzato. Attorno a lei c’è tutta la comunità e la famiglia nativa a cercare di curare ciò che le sta erodendo l’anima e la vita come “un’infezione dello spirito” e più di tutti il marito e il figlio, Joe. Il primo è il giudice della riserva e cerca di districarsi come meglio può nella babilonia di codici e giurisdizioni per amministrare una parvenza di giustizia. E’ una vocazione che si scontra tutti i giorni con il fallimento e soprattutto con la sensazione di essere stranieri sulla propria terra. Joe è poco più di un bambino che ha appena scoperto la birra e quel poco di indipendenza che può concedere l’uso della bicicletta e ha un’ammirazione sconfinata per il padre, che vede come un saggio uomo delle istituzioni. Quando scopre che in realtà le sue sentenze hanno sempre riguardato piccole diatribe locali, capisce che non potrà contare su di lui per risolvere il mistero della violenza subita dalla madre. Ci vuole proprio l’innocente libertà di associazione che riesce ad annodare le leggende e il linguaggio nativo, i codici tribali e le leggi federali, piccoli scampoli della realtà e “così tante cicatrici che non era facile contarle” per mettere insieme la visione di un mondo complicato. Quello delle riserve, che non sono soltanto il lascito di una sconfitta, la prima e fondamentale perdita americana, ma continuano a essere una zona grigia di violenza e di dolore per le donne. Louis Erdrich riesce a mantenere in equilibrio tra la sua storia e quella tragica realtà con una delicatezza e una cura nei suoi personaggi che sono ammirevoli e con un finale, dolente e bellissimo, in cui l’unico vero giudice, la vita, emette il suo verdetto e “la sentenza è: soffrire”. Ha ragione Philip Roth: stupendo.

martedì 17 settembre 2013

Percival Everett

In Ferito, Percival Everett sceglie il ranch di John Hunt come un crocevia singolare in cui si intersecano vecchie e nuove tensioni americane, un luogo in cui la magia naturale (animali compresi) si annoda alle forme incompiute e inconsulte della violenza degli esseri umani, i rigori e le difficoltà del paesaggio e le perversioni razziste e omofobe. Anche se Percival Everett sveglie un tono informale, Ferito si sviluppa in modo esponenziale, una spirale che si snoda velocissima, tagliente, per giungere a un finale crudele e amaro perché in fondo la frontiera è proprio così. John Hunt si è insediato a Highland, Wyoming ad allevare ed educare cavalli. E’ nero, colto, appassionato e risoluto e non è capitato laggiù per errore, anche se sa deve e dovrà lottare tutti i giorni per sentirsi a casa: “Non provavo necessariamente affetto per la storia di questa gente e certo non per il mitico West, il West che non era mai esistito. Ma era diventata la mia terra. E forse era proprio questo l’effetto che aveva questa terra su quelli che avevano scelto di viverci”. Il suo ranch è isolato, il luogo ha una sua ruvida e impervia bellezza e Highland “è un paesino normale. Quasi tutti bianchi. Gli indiani sono trattati di merda. Insomma, l’America”. L’ambiente è ostile e può solo peggiorare: quando Wallace, un giovane aiutante di John Hunt scompare e viene trovato ucciso, il confine tra l’ignoranza e la brutalità viene varcato per sempre. Nel ranch Wallace non godeva di grande popolarità, mettiamola così, perché nonostante l’impegno, la vita tra i cavalli e la prateria non era il suo destino. Wallace era gay e il suo presunto assassino, presto arrestato, viene trovato suicida in carcere. Fino a questo punto John Hunt rimane ai bordi della corrente feroce e violenta che serpeggia tra Highland e il suo ranch, ma è davvero Ferito quando scompare David, figlio di un vecchio amico e suo ospite. David era gay e viene trovato massacrato in modo orribile e senza senso. E’ allora che John Hunt, qualcosa del predatore è rimasto nel suo nome, rimarrà coinvolto nella scia di sangue perché “la frontiera è ovunque” ed è una linea sottile che unisce la vendetta e la giustizia. Ispirato, per stessa ammissione di Percival Everett, al caso di Matthew Shepard, un giovane gay ucciso brutalmente nel 1998 proprio nel Wyoming, Ferito è una coraggiosa cavalcata lungo i crinali più scoscesi delle fondamenta americane. Il West, la vita nella wilderness e l’idea stessa di frontiera sono stati troppo a lungo per giustificare l’ignoranza, la diffidenza e la prevaricazione nei confronti dell’altro solo perché indiano, nero, gay, straniero o comunque, in un modo o nell’altro, diverso. Lo si percepisce, nella sostanza di Ferito: salvo una flebile comprensione di se stessi e un’infinita stanchezza, Percival Everett non concede molto ai suoi personaggi e interpreti. L’unico essere vivente che John Hunt riesce a salvare è Emily: un piccolo cucciolo di coyote, accecato e mezzo carbonizzato a cui sono rimaste tre zampe, ormai simbolo, chissà, di un’umanità che non riesce a stare in piedi.

mercoledì 4 settembre 2013

Susan Sontag

Anche in tempi in cui le immagini corrono più veloci delle parole, la fotografia ha mantenuto una dimensione in cui cercare la profondità in due semplici coordinate, alla fine. Ridurre uno spazio a tre dimensioni (più quella, non relativa, del tempo) a un ordine verticale e orizzontale, dove si concentra lo sguardo, la luce, l’impressione e insieme cercare di saldare “realtà e immagine nella nostra società”, come dice il sottotitolo di Sulla fotografia, è ancora qualcosa che merita di essere considerato niente altro che arte anche quando lo scopo, l’obiettivo è diverso perché comunque “la fotografia è diventata uno dei principali meccanismi per provare qualcosa, per dare una sembianza di partecipazione”. Va ricordato che Sulla fotografia è del 1977 e se Susan Sontag non poteva immaginare cosa sarebbe successo con la rete in tutte le sue derivazioni, aveva già compreso, e molto bene, cosa stava facendo l’altro strumento che ha fagocitato le immagini e la nostra stessa percezione, perché “la televisione è un susseguirsi ininterrotto di immagini, ognuna delle quali cancella quella che la precede” e non è una constatazione relativa. Nella sua prospettiva “la realtà è sempre letta attraverso i rapporti che ne forniscono le immagini” e le analisi allineate da Sulla fotografia sono impietose: “le immagini paralizzano. Le immagini anestetizzano” ed è dunque una sorta di filosofia dell’ottica, un’etica della visione quella che viene sottolineata perché “collezionare fotografie è collezionare il mondo”. Se è vero, non è così lineare dato che, come scrive Susan Sontag, la fotografia consiste comunque “in uno spiegamento di frammenti casuali, in un modo di misurarsi con il mondo che è insieme infinitamente allettante e intensamente riduttivo”. Si capisce allora il senso della definizione, citata a proposito, che Berenice Abbott offre del fotografo come “l’essere contemporaneo per eccellenza; attraverso i suoi occhi l’oggi diventa passato” e in effetti Sulla fotografia condensa la pittura, il cinema, le arti in generale e l’informazione nello specifico perché poi, come scrive Susan Sontag “il desiderio non ha storia, o almeno è sempre vissuto come qualcosa che è tutto in primo piano, tutto immediato. E’ suscitato da archetipi ed è, in tal senso, astratto. I sentimenti morali invece sono radicati nella storia, dove le persone sono sempre concrete e le situazioni sempre specifiche”. La conclusione di Susan Sontag è che “noi abbiamo un’idea moderna del bello, la bellezza non è insita in nulla; bisogna trovarla, con un altro modo di vedere” e Sulla fotografia finisce con una “breve antologia di citazioni” che in realtà costituiscono una solida e coerente appendice di suggerimenti, una vera e propria mappa per interpretare l’immagine e la realtà. A maggior ragione se ci si confronta, tra gli altri, con il brevissimo, concreto aforisma di Frederick Sommer che dice: “La vita non è la realtà. Siamo noi che infondiamo vita nelle pietre e nei ciottoli”. E’ la sintesi estrema di una testimonianza che è molto più di un saggio Sulla fotografia.

lunedì 2 settembre 2013

Dara Horn

E’ il 1862 e la guerra di secessione è ormai penetrata a fondo nel tessuto umano e geografico dell’America, rivelando “una vasta landa selvaggia e vuota”. A Jacob Rappaport, che per evitare l’imposizione di un matrimonio si era arruolato nell’esercito dell’Unione, viene conferito un incarico segreto. La devozione alla causa e al massimo la riconoscenza di un “onore privato” lo portano ad assecondare le sue missioni in modo stoico, anche se ciò non gli impedisce di innamorarsi di Jeannie alias Eugenia Levy. Lei è bella, geniale, volitiva e irraggiungibile perché sta dall’altra parte della barricata. Tutte le altre sere è sospeso in un limbo di gesti che durano all’infinito e il suo mosaico è incorniciato in modo indelebile dalla figura controversa di Jacob Rappaport, “un soldato buono solo per le ritirate e le sconfitte”. Il suo struggimento, la sua lotta per una personalità sfuggente mantiene viva la brace, mentre nella cenere sparsa dalla guerra, si aggirano le multiple identità di uomini e donne in cui serpeggiano “piccole speranze, piccole paure, piccoli trionfi e fallimenti, tutti”. La scrittura di Dara Horn è decorativa, accattivante, seducente, coinvolgente, molto equilibrata e attenta, incisiva nei dettagli e inventiva nel linguaggio e negli artifici per tenere il lettore incollato alle pagine (che non sono poche), compresi i palindromi, gli anagrammi e i calembour di Rose, la sorella di Jeannie. Se il corpo principale di Tutte le altre sere è quello di un romanzo storico, va notata una parte consistente di melodramma alimentato da una love story impossibile, eppure la voce di Dara Horn è attenta alla dimensione psicologica dei personaggi, a partire dal protagonista Jacob Rappoport e non è un compito semplice visto che “buona parte dell’inganno è costituita dalla condiscendenza”. Se l’impianto, non privo di ambizioni, regge, è facendo forza su una trama ricca di nodi. Fin troppo, perché molti restano irrisolti e sommersi nel fitto tessuto di episodi e scene voluto da Dara Horn, a partire dalla guerra che è sempre in primo piano anche se, come dice un saggio interlocutore di Jacob Rappaport, “le guerre vanno e vengono, giovanotto. Vanno e vengono, e noi andiamo e veniamo con loro. Sono come il tempo, come una tempesta o una siccità. E noi non possiamo fare altro che cercare riparo e aspettare che passino”. Per dirla con la voce di un grande (grandissimo) poeta, Wallace Stevens, “la guerra è solo una parte di una totalità in tumulto” e Tutte le altre sere sembra la naturale estensione, ben calibrata, di quel lucido (e purtroppo sempre attuale) verso. Memorabile l’incipit, che rasenta la perfezione: “Dentro un barile sul fondo di un battello, con una borraccia d’acqua incastrata fra le gambe e un pacchetto di veleno nascosto in tasca, Jacob Rappaport avvertiva una stretta allo stomaco, non perché fosse sul punto di fare qualcosa di pericoloso, ma perché era sul punto di fare qualcosa di sbagliato”. Quattro righe e dentro si trovano già i motivi e i tempi di Tutte le altre sere.