mercoledì 18 settembre 2013

Louise Erdrich

Siamo nel North Dakota, è il 1988, e per attraversare il territorio in cui sorge La casa tonda bisogna prima di tutto risalire al peccato originale nelle vene dell’America perché alla fonte, come scrive Louise Erdrich, la logica era “arraffare terra indiana più in fretta che si può e in tutti i modi possibili e immaginabili. La speculazione sui terreni è la borsa valori dell’epoca. Lo fanno tutti. George Washington. Thomas Jefferson”. I fondatori della democrazia, dell’indipendenza, della libertà. Non è facile da digerire ed è per quello che le riserve hanno assunto un carattere ambivalente. Sono terre di frontiera in cui l’idea stessa del diritto, delle istituzioni su cui si fonda la moderna nazione americana, gli Stati Uniti, è latente e ambigua fin dai registri delle nascite e delle morti visto che “di generazione in generazione siamo diventati un impenetrabile sottobosco di nomi e di rapporti”. La casa tonda è il luogo rituale, poco più di una capanna in riva a un lago, accanto alla quale viene aggredita, violentata, massacrata Geraldine Coutts. Solo per un caso fortunato, uno di quei piccoli dettagli che Louis Erdrich ama disseminare nei suoi racconti, la donna è riuscita a salvarsi dall’aggressione che, nell’idea del suo carnefice avrebbe dovuto risolversi con un bel cadavere carbonizzato. Attorno a lei c’è tutta la comunità e la famiglia nativa a cercare di curare ciò che le sta erodendo l’anima e la vita come “un’infezione dello spirito” e più di tutti il marito e il figlio, Joe. Il primo è il giudice della riserva e cerca di districarsi come meglio può nella babilonia di codici e giurisdizioni per amministrare una parvenza di giustizia. E’ una vocazione che si scontra tutti i giorni con il fallimento e soprattutto con la sensazione di essere stranieri sulla propria terra. Joe è poco più di un bambino che ha appena scoperto la birra e quel poco di indipendenza che può concedere l’uso della bicicletta e ha un’ammirazione sconfinata per il padre, che vede come un saggio uomo delle istituzioni. Quando scopre che in realtà le sue sentenze hanno sempre riguardato piccole diatribe locali, capisce che non potrà contare su di lui per risolvere il mistero della violenza subita dalla madre. Ci vuole proprio l’innocente libertà di associazione che riesce ad annodare le leggende e il linguaggio nativo, i codici tribali e le leggi federali, piccoli scampoli della realtà e “così tante cicatrici che non era facile contarle” per mettere insieme la visione di un mondo complicato. Quello delle riserve, che non sono soltanto il lascito di una sconfitta, la prima e fondamentale perdita americana, ma continuano a essere una zona grigia di violenza e di dolore per le donne. Louis Erdrich riesce a mantenere in equilibrio tra la sua storia e quella tragica realtà con una delicatezza e una cura nei suoi personaggi che sono ammirevoli e con un finale, dolente e bellissimo, in cui l’unico vero giudice, la vita, emette il suo verdetto e “la sentenza è: soffrire”. Ha ragione Philip Roth: stupendo.

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