lunedì 15 settembre 2025

Paul Bowles

Quando propose Il tè nel deserto ai suoi editori, se lo vide respingere perché si aspettavano un romanzo e invece si trovarono tra le mani “una cosa diversa”. Nell’episodio in sé, c’è molto di Paul Bowles che scrive per sottrazione, lasciando al lettore il compito di decifrare il fitto tessuto di ombre, lingue, montagne, sogni, premonizioni, incontri, fughe e sparizioni. Il ritmo è cadenzato dal trascorrere delle giornate, alba e tramonto, il caldo asfissiante di giorno e il freddo pungente nel buio, una forma fluttuante con le immagini che compongono l’intero vocabolario, insieme ai suoni che provengono da ogni angolo. C’è una colonna sonora costante, un battito delle mani, la melodia di un liuto, una tromba, un flauto, una fisarmonica o un oud che suonano in sottofondo, un commento musicale latente che tende a sottolineare le esistenze “sradicate” dentro un’altra dimensione dove, in un istante ogni cosa può precipitare. Tocca in particolare ai Moresby, Port e Kit, e al loro matrimonio claudicante e verboso, dove parlano un sacco senza dirsi nulla. Lui, Pche nel suo passaporto alla voce professione ha lasciato un vuoto riesce ad ammetterlo, per quel che vale: “Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù”. Le disavventure sembrano cercate con una insistenza, persino con noncuranza verso le usanze, le asperità del clima, del paesaggio e per le creature che lo popolano, forse un lascito del retaggio coloniale. Del resto sia Port che gli altri protagonisti hanno l’aria “di chi ha davanti a sé tutto il tempo del mondo, per qualsiasi cosa”. Quello che è comune a tutti è un’ambiguità di fondo: sembrano fuori posto, come se dovessero trovare qualcosa, proprio dove non c’è nulla. L’entità del territorio sahariano è qualcosa in più di uno sfondo e dell’ambientazione: è uno scenario vivo, multiforme, capace di influire in modo pesante sulle vite e sui percorsi delle persone che l’affrontano. Nella prima parte del tragitto Kit è contesa dal marito e dall’amico Tunner si riflette nella seconda, come un miraggio sulle dune, dove Kit è ancora prigioniera di un’altra triangolazione. Quando Port si ammala le condizioni diventano insostenibili: “E gli passò per la mente che una passeggiata attraverso la campagna era una sorta di epitome del passaggio attraverso la vita stessa. Non ti concedevi mai il tempo di assaporare i particolari; dicevi: un altro giorno, ma sempre con la segreta consapevolezza che ciascun giorno era unico e definitivo, che non vi sarebbe mai stato un ritorno, un’altra volta”. Città emergono dalla sabbia: Aïn Khorfa, Bounoura, El Gaa, Sbâ, ogni volta diverse e uguali, tappe che per Kit, una figura femminile enigmatica, sono altrettante prove di una mutazione. Se, all’inizio, “si trattava unicamente di resistere, di esserci” che suona un po’ come un presagio, la destinazione finale è drammatica. L’andamento del romanzo ricorda così l’istinto dei viaggiatori che tendono a compiere un cerchio, prima o poi e ci ricorda che “il deserto è un posto così grande, eppure niente va veramente perduto, mai”. Paul Bowles si mimetizza spesso e volentieri tra i suoi personaggi, condividendo “le assurde banalità che riempivano la giornata e una cosa seria come mettere parole sulla carta” e quel senso latente di tragedia, che prima di tutto interviene nelle relazioni. Il tè nel deserto è un romanzo che attrae e confonde le idee con i suoi panorami estremi: è torbido e sinuoso e attraverso i suoi tempi dilatati coinvolge i sensi nell’attraversare odori, rumori, sensazioni, silenzi e poi “soltanto oscurità. Notte assoluta”. Bon voyage.

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