martedì 31 gennaio 2023

Louise Glück

Immedesimandosi nelle fitte paludi di una separazione che è contatto, contrapposizione, reclamo e rimpianto, Louise Glück ha visto in Meadowlands il paesaggio ideale dove riflettere perdita e sofferenza: “Quel che penso è che dovremmo guardare al nostro ambiente con realismo, per quello che è nel presente”. L’immagine è chiara e forte e il riferimento va subito al titolo, rispetto al martoriato territorio di acquitrini fluviali del New Jersey, che comprende le connessioni ornitologiche rese esplicite in Parabola del volo: “È importante sapere dove vanno gli uccelli? È importante sapere anche di che specie siano? Se ne vanno via da qui, questo è quel che conta, dapprima i loro corpi, poi le tristi grida. E da quel momento, non esistono più per noi. Devi imparare a pensare alla nostra passione nello stesso modo. Ogni bacio era vero, poi ogni bacio è scomparso dalla faccia della terra”. Questo continuo ricorrere alla flora e alla fauna è una costante nelle poesie di Meadowlands e anche La parabola dei cigni si esprime in quel senso, arrivando a concludere che “prima o poi in una lunga vita insieme, ogni coppia si imbatte in una simile emergenza, in un qualche dramma che risulta dannoso. Questo accade per un motivo: per mettere alla prova l’amore ed esigere una nuova modulazione dei tuoi elementi complessi”. Tra i protagonisti si ritagliano uno spazio tutto loro gli animali domestici: il gatto (prima di tutto) e i cani che evidenziano il tran tran matrimoniale che suggella Il desiderio del cuore, lo imprigiona e lo annichilisce (e non è mai chiaro fino in fondo, cosa succede). Con loro, Louise Glück compone un capolavoro di equilibrio, dialogando tra i contrasti: amore/odio, presenza/assenza, uomo/donna, volto/maschera vengono sommati in un ecosistema che comprende Maria Callas, Wallace Stevens, Gustave Flaubert, i dettagli personali e autobiografici, ma più di tutto il continu richamo all’Odissea, che fluttua in parallelo. Le gesta di Penelope, Circe, Telemaco, Ulisse conducono in un mare aperto e pieno di incognite dove l’affollata poesia di Meadowlands si interroga sulle crepe (“Non ci fu niente di veramente difficile perché si sviluppano le abitudini, le compensazioni per le assenze e le omissioni percepite”) e sulle ultime chance (“Sento con certezza che c’è dentro di te qualcosa di umano, che si può avvicinare parlando”) di un legame ormai incrinato, a cui resta soltanto l’opportunità di “un’altra poesia” e l’ammissione di Louise Glück per cui “è dunque vero, dopo tutto, non è soltanto una regola dell’arte: se cambi la tua forma cambi la tua natura. Questo fa il tempo per noi”. Viene in aiuto solo Il fantasticare di Telemaco: “Suppongo che col tempo o si diventa un mostro oppure l’amante vede quel che si è”. Con questa asserzione si archivia la frattura e con Nostos si riportano i frammenti, i resti e gli avanzi su una sponda agli albori di tutto, visto che “guardiamo il mondo una sola volta, nell’infanzia. Il resto è ricordo”. Meadowlands è “una storia di inganni e innocenza”, di mutazioni e di piedi freddi, e dato che “giochiamo a scegliere la musica. La forma preferita”, si conclude citando Otis Redding perché “il solo dolore simile al mio è il dolore di Otis” e anche se Louise Glück non lo dice, l’album che risuona “attraverso il cortile, molto in sordina” deve essere per forza Otis Blue.

lunedì 30 gennaio 2023

Kurt Vonnegut

Quando il giovane avvocato Norman Mushari si trova di fronte alla contabilità della Fondazione Rosewater, capisce di trovarsi di fronte a un pozzo di san Patrizio e cerca, lì, seduta stante un modo per intromettersi nella successione del patrimonio che è enorme e ha un solo erede. Non sarà facile: Eliot è un reduce della seconda guerra mondiale, quando il disturbo da stress post traumatico non era ancora riconosciuto, e si gode l’ingombrante compagnia dell’alcol. Si è trasferito a Rosewater nell’Indiana che, come suggerisce il nome, è anche il punto di partenza di questi self-made man. Tracciata in un reticolo geometrico di strade che ha “anticipato Mondrian” è una small-town nel bel mezzo del nulla. Lì sta scrivendo anche un’opera letteraria, il Libro del catasto, che già dal titolo è tutto un programma, ma la principale occupazione è ridistribuire le fortune che gli sono capitate in dote e passare la giornata a rispondere al centralino dicendo “Fondazione Rosewater: in che cosa possiamo esservi utili?”, e inutile dire che i telefoni squillano in continuazione. Le intenzioni francescane di Eliot sono considerate una pazzia, anche all’interno del suo matrimonio con Sylvia, ma non sono soltanto antitetici alle volontà e alle tradizioni dell’istituzione famigliare, che non sa comprenderli, men che meno accettarli. Sono uno schiaffo a tutta la prosopopea del sogno e della storia americana che Vonnegut innesta sull’albero genealogico dei Rosewater senza particolari deviazioni (salvo l’incrocio con quello di un’altra famiglia, i Buntline) e invece articolando Perle ai porci secondo il suo personalissimo punto di vista. Ci scorrazza dentro in tutta libertà, scombinando il racconto e proiettando di volta in volta un personaggio nella vita di un altro. Kurt Vonnegut esagera (esagera sempre, se è per quello) e qui ha spinto il senso per la divagazione e per l’iperbole ai massimi estremi. La farsa e/o il dramma della famiglia Rosewater si consuma nei contorni di un’America pericolosa, votata a un’idea di successo monotematica, legata all’accumulo di denaro e, di conseguenza, di potere. Vonnegut la ricopre di sberleffi, noncurante di toccare il totem nazionale della ricchezza e dell’opulenza con un racconto frenetico e ipnotico, senza una particolare architettura e con una struttura molto libera che segue le impertinenze di mister Rosewater da vicino. La dimensione in sé di Perle ai porci è un turbinio di ipotesi che si accavallano e di dialoghi inconcludenti, almeno in prima istanza, ma che poi conducono, comunque, all’anomalia di Rosewater (Eliot e l’angolo in cui si dibatte). Così tra “la collezione privata di arpioni più grande del mondo”, un estemporaneo esempio di poesia (“Noi non pisciamo nei vostri portacenere, perciò siete pregati di non gettare sigarette nei nostri pisciatoi”), Shakespeare e Socrate, William Blake e Henry Miller, appare anche Kilgore Trout, lo scrittore alter ego di Kurt Vonnegut, invitato di riguardo a questo party sensazionale che viene presentato (guarda un po’) così: “C’era una fotografia di Trout. Era un vecchio con una folta barba nera. Aveva l’aria di un Gesù invecchiato e spaurito la cui condanna alla crocifissione fosse stata commutata in ergastolo”. Perle ai porci (o Dio la benedica, Mr Rosewater) è una classica turbolenza firmata Vonnegut che non resiste alle tentazioni e passa di digressione in digressione, sprizza humor da tutti i pori esprimendo una critica feroce all’economia di mercato, senza alcun intento moraleggiante perché sa che “il denaro è utopia liofilizzata”. Definizione geniale, e se ne accorgerà anche Norman Mushari.

martedì 24 gennaio 2023

Kiese Laymon

109, 140, 142, 72, 136, 132, 102: per Kiese Laymon, Il giusto peso fluttua nell’ossessione verso la bilancia, trasformata in una sorta di specchio alternativo e impietoso. Essere americano ed essere nero (o, meglio: non essere bianco) è il dilemma che lo tormenta fino ad abusare del proprio corpo. Ingrassare senza senso, dimagrire fino a svenire, una lotta continua con l’attività fisica e il frigorifero: Kiese Laymon cresce bulimico e anoressico, confrontandosi ogni giorno con due generazioni femminili, quella della nonna che è la testimonianza vivente dal profondo del Mississippi e quella della madre, che l’ha cresciuto da single, ed è la destinataria della storia così come viene raccontata. La voce di Kiese Laymon è cruda, aspra e martellante, ed estrema dato che non fa sconti né a se stesso, né a nessun altro, lettori compresi. Ogni pagina richiede attenzione e cautela, perché Il giusto peso non concede altro, oltre alla bugia che alimenta per ritrovare una connessione con la madre con una sorta di confessione riparatrice. La tensione è costante e opprimente, il rapporto con gli altri, ragazzi e ragazze come lui, è mediato dal fallimento, dal rischio implicito ed esplicito della delusione, se non proprio dalla certezza di vivere in un’America divisa e desolata dove “nessuno, nella nostra famiglia, e pochissima gente di questa nazione, ha il minimo desiderio di fare i conti col peso del passato, il che significa che nessuno nella nostra famiglia, e pochissima gente di questa nazione, vuole essere libero”. Il mutevole e frammentario dialogo a distanza con la madre svela la fragilità delle reciproche promesse, l’insistenza nella necessità di eccellere, di non sbagliare mai (“Sapevo che non c’era modo di non perdere, a meno che non ci fossimo ripresi ogni singolo brandello di ciò che ci era stato portato via”) e di mantenere la rotta, anche quando una rotta non c’è, e intorno a Kiese Laymon continuano a prendere forma solo dubbi e incertezze, prevaricazioni e ingiustizie. Mentre negli schermi televisivi si susseguono Rodney King, l’11 settembre, Katrina e altri drammi americani, non ultimo lo stillicidio di corpi neri nelle strade, Kiese Laymon si laurea, si scontra con le istituzioni (a partire dalla stessa famiglia), si lascia travolgere dal gioco d’azzardo, come a voler ipotecare un futuro, come a voler scommettere oltre la propria natura che lo costringe a un’ordalia senza limiti e senza meta. La sopravvivenza ruota attorno alla lettura e alla scrittura che Kiese Laymon affronta come se si stesse aggrappando ad un ultimo appiglio: “Mi piacevano molto quelle frasi, ma non capivo bene la differenza tra scrivere a e scrivere per qualcuno. Nessuno mi aveva mai insegnato a scrivere a e per la mia gente. Mi avevano insegnato a scimmiottare Faulkner, e a scrivere a e per i miei professori. Che erano tutti bianchi. Quando scrivevo a te, lo facevo con la speranza che quello che scrivevo fosse sufficiente a risparmiarmi le botte”. Richard Wright e James Baldwin, Toni Cade Bambara ed Eudora Welty (“Eudora Welty non ne sapeva un accidente dei neri del Mississippi, ma ne sapeva abbastanza su se stessa da prendersi gioco dei bianchi nella maniera più feroce e spietata che avessi mai letto”) gli fanno capire che “la revisione, la rilettura, la comprensione, lo studio casalingo, l’immaginazione” sono indispensabili (e irrinunciabili) nella creazione di un’identità perché “correggere le parole significava correggere i pensieri. E correggendo i pensieri si plasmavano i ricordi”. Alla fine, la forma del corpo, sofferente, piegato, frustato, asseconda quella della scrittura: Il giusto peso è un memoir che non lascia scampo e che, in modo molto appropriato, si conclude con quella che è, a tutti gli effetti, un’invocazione laica e onesta nel mostrare tutto il suo dolore.

lunedì 16 gennaio 2023

George Saunders

In questa selezione di saggi, George Saunders tocca temi d’attualità scomodi e rilevanti, l’inizio tragico del ventunesimo secolo su tutti, con tratti ironici e sarcastici che non concedono nulla alla retorica e hanno un gusto per il ritmo frizzante e pop, che invita il lettore a sorridere, anche di fronte a situazioni drammatiche e ambigue. Comincia con la disanima della deformazione dell’opinione pubblica, attraverso subdoli metodi di impoverimento del linguaggio, in particolare dopo l’undici settembre e prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003, sostenendo che “a quel punto il nostro discorso nazionale era talmente degradato, il nostro lessico nazionale così impoverito, che eravamo dei bersagli facili”. Al contrario, George Saunders si scosta da concetti come “predominio” o “nazioni fluide” e convinto che “le rappresentazioni del mondo non sono mai il mondo vero e proprio” ama confrontarsi con la realtà, viaggiandoci dentro, ben sapendo che “il legame tra autenticità e piacere non è casuale”. Succede nei reportage da Dubai, con le pagine epiche in Nepal, ma più di tutto nella corrispondenza dal border tra Stati Uniti e Messico. La grande muraglia è un’abrasiva testimonianza delle differenze e delle distanze, dell’America, tra gli spazi fisici e mentali, con tutti i contrasti e le bellezze (“Il paesaggio, così sconfinato, così splendido, rivela le idee umane per quello che sono: invenzioni, proiezioni, approssimazioni, illusioni”) che spingono George Saunders a comprendere che il mondo “cambiava a seconda di cosa dicevi e di come lo dicevi. Limando le frasi che usavi per descriverlo modificavi l’inflessione della tua mente, che a sua volta modificava le tue percezioni”. Il passaggio successivo, immediato e senza soluzione di continuità, è che “migliorando la nostra prosa, discipliniamo la mente, affiniamo la logica e soprattutto scopriamo cosa pensiamo davvero. Ma questo esercizio richiede tempo, e ci obbliga a immergerci nei modelli passati di splendida sintesi”. Diventano necessarie le lezioni di letteratura che cominciano leggendo Donald Barthelme, Mark Twain (“Non c’è da stupirsi se poi la gente ha problemi a insegnare e apprezzare un romanzo complesso e imperfetto come Huck Finn, ma è ancora più urgente imparare a esaminare le storie con passione e metodo, se non altro per proteggerci da quelle false e manipolative che vengono messe in giro”) e Kurt Vonnegut (“C’è qualcosa di miracoloso nella lettura di un libro come Mattatoio n. 5, anche se nulla cambia, tranne quello che succede nella nostra testa. Quando finiamo di leggerlo ci sentiamo, sia pure per poco, in giusto rapporto con la verità, ricordiamo come stanno davvero le cose, riacquistiamo per un attimo la lucidità e la parte migliore di noi rifiorisce”) e poi si evolvono in pratici consigli di scrittura creativa. George Saunders immagina che “un racconto può essere inteso come una serie di piccole stazioni di servizio. L’obiettivo principale è far compiere al lettore un giro di pista; cioè farlo arrivare alla fine della storia. Qualsiasi altro piacere che una storia può offrire (tema, personaggi, morale edificante) dipende da questo”. Se, in estrema sintesi, lo schema è funzionale a comprendere i meccanismi della narrazione (nello specifico delle short story), George Saunders è ancora più esplicito quando ne deve decantare il valore: “Le storie migliori nascono da una misteriosa spinta verso la ricerca della verità, insita nel racconto che ha subito una revisione approfondita; sono complesse, spiazzanti, ambigue; tendono a rallentarci anziché a velocizzarci. Ci rendono più umili, ci fanno immedesimare con persone che non conosciamo, perché ci aiutano a immaginarle, e quando riusciamo a immaginarcele, perché la storia è raccontata bene, le vediamo sostanzialmente simili a noi”. L’assemblaggio eterogeneo di queste Cronache da un mondo troppo rumoroso non toglie nulla alla verve di George Saunders, convinto che “sorprendiamo noi stessi e creiamo qualcosa che è più grande di quanto avremmo mai potuto immaginare prima di metterci all’opera”. L’invenzione dell’arte, a quel punto, è anche relativa: c’è qualcosa di più, perché “resistendo all’impulso di sminuire per poi distruggere, noi teniamo in vita, anche solo per qualche altro secondo, la possibilità di una trasformazione”. Pregevole.

martedì 10 gennaio 2023

Paul Auster

La vita avventurosa e caotica di Stephen Crane è una storia a parte, le opere sono scandagliate una per una, ma nonostante le dimensioni e la disposizione di Paul Auster, Ragazzo in fiamme non è un’agiografia, perché vengono messe in risalto deviazioni, contorsioni e contraddizioni, e nessuno dei due fa sconti. L’America è il punto di partenza e Crane dice che “in un paese dove si spara, nessun uomo vi dirà mai esattamente cosa ha fatto. Vi dirà cosa gli sarebbe piaciuto fare o cosa si aspettava di fare, proprio come se ci fosse riuscito”. È la sua biografia in quattro righe e Paul Auster aggiunge che “l’America non è altro che un miscuglio di ambiti multipli, contrastanti, l’epicentro globale di incroci improbabili e splendide conseguenze”. Da lì, l’interpretazione di Stephen Crane inizia dall’infanzia, quando è ancora Stevie e, come scrive Paul Auster, se “pure Crane non imparò nient’altro dai genitori, il loro esempio gli insegnò che il mondo era un posto in cui gli adulti responsabili si sedevano a un tavolo e scrivevano, che la scrittura era un’attività umana importante se non fondamentale”. L’alternanza tra la ricostruzione della breve e drammatica esistenza ad ampie riletture dei suoi lavori fornisce la solida struttura di Ragazzo in fiamma, con Maggie e Il segno rosso del coraggio come cardini inamovibili. L’importanza di Maggie, che nasce dalla frequentazione dei bassifondi di New York è presto detta: “Con Maggie fece il primo passo verso la scoperta della sua missione di scrittore. Da allora in poi tutte le sue opere di narrativa più importanti si sarebbero imperniate su situazioni estreme, su questioni di vita o di morte: la guerra, la povertà e il pericolo fisico”. Se la scrittura di Stephen Crane è cinematografica ante litteram, altrettanto rilevante è la sua personale teoria dei colori, a partire da Il segno rosso del coraggio, e la vocazione dichiarata di un intero stile: “Voglio essere sempre inequivocabile. In questo per me consiste il bello scrivere. La letteratura comporta parecchia fatica. Credo sia la sua difficoltà più grande. Non c’è nulla da rispettare nell’arte, se non l’opinione che se ne ha”. Per seguirlo, Paul Auster usa il tono e il ritmo del narratore e gli spunti da romanzare non mancano: irrequieto, tormentato e talentuoso in parti uguali, Stephen Crane spicca dalle pagine di Ragazzo in fiamme per quello che è. A volte il tono si fa colloquiale e via via prendono forma lo scontro con il dipartimento di polizia di New York (e la corruzione), il naufragio nell’Atlantico, l’incontro con Cora, un personaggio altrettanto travagliato, fino alla confessione di Crane che in una corrispondenza dirà: “Sono condannato, credo, a un’esistenza solitaria di futili sogni. Questo mi ha reso migliore, ha allargato la mia comprensione nei confronti delle persone e la mia solidarietà per quello che sopportano”. Lo si vedrà in particolare nell’esilio inglese, gli Stati Uniti ormai alle spalle, circondato da Joseph Conrad, Ford Madox Ford, H. G. Wells ed Henry James che definì una “brutale estinzione” la prematura fine di Stephen Crane. Nelle ampie parti dedicate ai racconti e ai romanzi e è chiara l’intenzione di rivalutarne il lascito, quella capacità di indagare e centellinare “il prodigio della tragedia umana” e di ricordare che “ogni peccato è frutto di collaborazione”. L’esegesi della narrativa del Ragazzo in fiamme è elaborata e insistente: con l’obiettivo dichiarato di scoprire e mostrare “l’effetto che fa”, Paul Auster riesce a determinare con precisione il valore ultimo di Stephen Crane: “Ciò che gli interessa è guardare da lontano qualcosa che fa la spola tra il leggibile e l’illeggibile, sulla linea che separa la forma coerente da una macchia indistinta, e quella linea, quella zona indeterminata, dove soggettivo e oggettivo si mescolano, è l’esiguo territorio su cui si svolge gran parte delle sue opere, e siccome è un territorio che nessuno ha mai esplorato fino in fondo, Crane rappresenta lo scopritore di un nuovo spazio”. Succede tutto all’interno di un passaggio storico della cultura americana, dagli interventi militari a Cuba e Puerto Rico alla riesumazione della salma di Cristoforo Colombo, una fin de siècle a cui Paul Auster dedica una scrupolosa attenzione. Molto più di una biografia, visto l’imponente apparato critico: un omaggio raro e speciale da scrittore a scrittore, senza nascondere nulla (eccessi, disastri, fallimenti, diatribe, malattie, sperperi) con uno splendido viatico per la letteratura, quanto mai necessario in questi tempi inafferrabili, quando Paul Auster cerca di immaginarsi e descrivere “una reazione pura e diretta a ciò che ci troviamo davanti sulla pagina, alle parole in sé, ai pensieri e alle immagini che tali parole suscitano in noi mentre passiamo da una frase all’altra”. L’eccesso di zelo (stiamo parlando di oltre mille pagine) è compreso nel prezzo.

venerdì 6 gennaio 2023

Erik Hoel

Otto ricercatori vengono reclutati dall’Università di New York per un ambizioso programma di indagine sulla coscienza e con il disegno, a latere, di sviluppare “una specie di grande mappa cerebrale”. Il numero è lo stesso dei principali pianeti del sistema solare (e non è una coincidenza) e tra loro spicca Kierk Suren, un un personaggio che muta nel corso della storia. Da giovane promettente a homeless a outsider, crede di aver sfiorato una teoria della coscienza, al di là delle connessioni scientifiche. Il tormento di Kierk è una questione con una deriva più filosofica: non a caso, è l’unico che, occupandosi anche di letteratura, comprese, tra le altre, le letture di Una banda di idioti di John Kennedy Toole e Infinite Jest di David Foster Wallace, arriva alla considerazione che “il problema non è nel mondo esterno, ma in chi lo osserva”. Per un breve momento, il gruppo di giovani scienziati si gode le ambizioni, le discussioni i seminari e le libagioni in una New York molto cool ed effervescente, per quanto avvolta in una cappa d’afa opprimente, visto che Le rivelazioni (nella precisa traduzione di Olimpia Ellero) è ambientato in un mese estivo. Quando uno di loro, Atif Tomalin, scompare investito dalla metropolitana in circostanze ambigue, non solo restano in sette che è (come si sa) un numero particolare (ed elemento portante della suddivisione del romanzo che segue un’agenda settimanale), ma è la svolta decisiva. Nel CNS, Center for Neural Science, dove sono impiegati, succedono altre cose che non del tutto chiare, ma bisognerà scoprirle da soli. Di sicuro, ci sono primati con il cervello scoperchiato e Carmen (un’altra ricercatrice con un passato di modella) comincia a sospettare che stiano lavorando a qualcosa di più estremo, oltre alla vivisezione (di quello si parla) dei macachi. Al di là delle inevitabili questioni etiche, Kierk o si trova ancora più ai margini insofferente alle regole, alla gerarchia e alla burocrazia, ma soprattutto perché segue intuizioni tutte sue nell’elaborazione della coscienza, arrivando a pensare che “l’esperienza viene prima, e durerà più a lungo, di qualsiasi scienza”. Erik Hoel non teme la complessità e con Le rivelazioni bisogna confrontarsi con organoidi e qualia, ontologia e mitologia, feedback e neuroimagining, e persino con gli scontri di Toronto del G20. Il suo vocabolario oltre a essere erudito e raffinato, spesso è specialistico e ostico, ma spostando il sipario razionale, s’intravede senza fatica tutto un intreccio di rapporti labili e fragili, una somma di solitudini che non fanno un intero. Gran parte del romanzo si snoda tra porte e corridoi, oscurità e sogni, ombre e allucinazioni, come un labirinto borgesiano o una destrutturazione di Don DeLillo (compreso il “rumore bianco” citato due volte di fila), finché nei meandri del CNS non progredisce l’idea che “la nostra coscienza è cosa si prova a essere noi stessi”. A quel punto le maschere si dissolvono e mentre il ritmo degli eventi prende la piega di un thriller, Kierk Suren scopre, nonostante le sue capacità, tutti i limiti delle sue tesi e, infine, “la verità è che gli sembra di maneggiare dei fogli di legno di balsa in mezzo alle raffiche di vento”. Dato che non sfuggirà l’origine del suo nome, pare giusto ricordare, in parallelo, quello che diceva Søren Kierkegaard ovvero, “ciò che veramente mi manca è di capire chiaramente me stesso, quello che devo fare, non quello che devo conoscere”. Partiti dai sotterranei, Kierk e Carmen lo scopriranno sui tetti con vista panoramica su New York che gli “appare come una promessa fatta un tempo, poi infranta, poi fatta di nuovo, qualcosa di perennemente imminente che non arriva mai”. Eccessivo e rocambolesco come si addice a un esordio, Le rivelazioni è un notevole labirinto dove tutto resta in sospeso, escluso l’amore (che appartiene a quella gamma dove bisogna “avere il controllo di qualcosa senza nemmeno comprenderlo”) e i misteri non vengono risolti, ma resi soltanto più interessanti. 

mercoledì 4 gennaio 2023

James Lee Burke

Anche se i paesaggi sono gli stessi, la Louisiana, New Orleans, il Sud degli Stati Uniti, siamo molto distanti dalla saga di Dave Robicheaux (e Clete Purcel). L’ambiente è comunque determinante già con Luce d’inverno, dove il protagonista “è giunto a credere che l’accettazione di un angolo oscuro nell’anima e il rifiuto di parlarne con gli altri siano la massima consolazione che un uomo possa ottenere, e per qualche strana ragione quel pensiero sembra dargli un po’ di pace”. Quella pausa esistenziale, favorita dal momento e dal territorio innevato, è turbata dall’arrivo di intrusi che spezzano un fragile equilibrio. Una trama che si ritrova, in altre condizioni e con un diverso clima, ma con la stessa tensione, in La stagione del rimpianto, perché i racconti di Gesù dell’uragano sono agganciati tra loro da connessioni più o meno evidenti, come se avessero le stesse radici ma fossero cresciuti in modo indipendente. Succede con le disavventure della rock’n’roll band in La notte in cui Johnny Ace morì, con Elvis (ovvero il Greaser) e il colonnello Parker sullo sfondo, e per i jazzisti in Gesù dell’uragano, un racconto brevissimo che concentra tutte le brutture emerse con il disastro di Katrina, con New Orleans diventata ormai un ricordo: “Ecco com’era all’epoca. Ti svegliavi al mattino con il profumo delle gardenie, l’odore elettrico del tram, del caffè di cicoria e delle pietre ricoperte di licheni verdi. La luce era sempre filtrata dagli alberi, quindi non era mai pesante, e i fiori sbocciavano tutto l’anno. New Orleans era una poesia, amici miei, una melodia nel cuore che non finiva mai”. Nei cupi giorni dell’uragano, con l’acqua putrida arrivata alla gola, Chuck e Miles tornano a pensare al collega musicista Tony, ormai lontano, con un solo rimpianto: “Nessuno si è degnato di spiegare perché nessuno è venuto a prenderci”. Non sono gli unici alla deriva, che è cominciata almeno mezzo secolo prima, così come si intravede nella vita (durissima) dei personaggi di Gente d’acqua, quasi un’introduzione a Texas City, 1947, una storia straziante, ma a suo modo un capolavoro nel mostrare i tratti della disperazione, se non oltre. Subito dopo Foschia, nel seguire Lisa e Tookie lungo le tortuose dipendenze (alcol e eroina) aggiunge all’elenco dei loser convenuti, reduci e veterani dalla seconda guerra mondiale all’Iraq, una famiglia allargata (e numerosissima) con un bagaglio troppo pesante da condividere. La loro presenza dipende dalla naturale spontaneità di James Lee Burke ad annodare gli eventi storici alla fiction. Si nota nella filigrana nell’essenza di Il molestatore: l’intrico tra boxe, mafia, e un parco cittadino, è lo scenario dei principali snodi dell’infanzia e dell’adolescenza dove, infine, bisogna “affrontare forze che certe volte sono semplicemente troppo grandi per noi”. Il racconto inizia il trittico dedicato a Nick e Charlie: i due ragazzi saranno protagonisti anche in Il rogo della bandiera e, nello contro con il coetaneo Vernon Dunlop, misureranno la distanza dal mondo degli adulti e, di nuovo, in Perché Bugsy Siegel era amico mio. La coppia di giovani amici si ritrova nella cornice di un’America che non c’è più: quella dei lampioni agli angoli delle strade, dei giorni e delle notti che ruotavano dentro i confini di “un quartiere dove ogni alba si infrangeva all’orizzonte come una testimonianza della disfatta personale”. Il paradosso sottinteso (ma neanche tanto) da Perché Bugsy Siegel era amico mio è che soltanto con l’appoggio di un fuorilegge può arrivare un atto di giustizia, ma sono Nick e Charlie, proprio come novelli Dave Robicheaux e Clete Purcel, ad allungare un filo di speranza in un’America spietata, desolata, abbandonata a se stessa.

martedì 3 gennaio 2023

Joan Didion

Tra i modelli di stile collezionati da Perché scrivo, un’antologia che copre un campo di osservazioni abbastanza ampio, dal 1968 al 2000, spicca il ritratto di Nancy Reagan. Non è il più importante, e nemmeno il più immediato, anzi, è un articolo sostanzialmente innocuo, almeno in apparenza, ma perfetto. Solo che all’improvviso, Joan Didion vede la moglie dell’allora governatore della California e futuro presidente degli Stati Uniti in questo modo: “Nancy Reagan mi appare proprio così, congelata in quell’inquadratura, la bella Nancy Reagan in procinto di cogliere un germoglio di rododendro troppo grande per il suo cesto di quindici centimetri di diametro”. È una posa, è tutto finto, è soltanto un soggetto televisivo, ma questo Joan Didion non lo dice: la sua è una scrittura obliqua, che rimbalza sui dettagli, con una specifica utilità, come tiene a precisare: “Scrivo solo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa. Che cosa voglio e che cosa temo. Perché le raffinerie di petrolio intorno allo stretto di Carquinez mi apparivano sinistre nell’estate del 1956? Perché le luci notturne del Bevatron sono rimaste accese nella mia mente per vent’anni? Che cosa accade in quelle immagini nella mia mente”. Secondo Hinton Als, è “un modo di vedere le cose tutto suo, tipico del mondo che l’ha creata, un modo di vedere che, in ultima analisi, rivela la scrittrice a se stessa”. L’obiettivo delle sue attenzioni è mutevole ed è destinato a risolversi in impressioni indelebili: le parole della stampa underground, delle riunioni degli alcolisti anonimi, dei veterani delle guerre americane e dei figli in partenza per il Vietnam, Robert Mapplethorpe, Hemingway e Fitzgerald diventano oggetti della coscienziosa osservazione di Joan Didion. Per Hinton Als è “un’indagine sulla verità” e anche da prospettive distanti o strumentali il fil rouge in sottofondo è comunque “il sistema”, ovvero “il modo in cui tradizionalmente il potere viene tramandato e lo status quo mantenuto”. È il caso, esplicito, del fenomeno di Martha Stewart, che ha fatto della vita casalinga, un’azienda, un brand, un’istituzione o, meglio, una “presenza”. Joan Didion la racconta con le stesse modalità usate con Nancy Reagan, forse con un tocco di raffinatezza in più, vista la poliedrica ed evanescente struttura del personaggio, ma il confronto con la scrittura, e il senso di Perché scrivo, tocca in ogni caso ruolo dello scrittore e del lettore, un ambito fluttuante e biunivoco, almeno come lo rappresenta Joan Didion che parte con la spinta di un’inquietudine irrisolta: “La razionalità, la ragionevolezza mi confondono... Molte delle storie con cui sono cresciuta avevano a che fare con azioni estreme, lasciarsi tutto alle spalle, attraversare deserti senza sentieri”. Le potenzialità della scrittura diventano limiti (e viceversa) e in questo Joan Didion resta una voce unica e Perché scrivo nel complesso diventa una sorta di confessione, se non proprio un auto da fé quando dice che “la particolarità dell’essere uno scrittore è che qualsiasi iniziativa implica l’umiliazione mortale di vedere le proprie parole stampate”. A maggior ragione, quando la scrittura si rivela uno strumento che richiede “un’imposizione della sensibilità di chi scrive nello spazio più privato del lettore”, un gesto che, a dire il vero, a Joan Didion riesce con un’incredibile facilità.

lunedì 2 gennaio 2023

Jim Morrison

Nella progressiva ridefinizione della scrittura di Jim Morrison diventa sempre più evidente il suo approccio istintivo, la stessa attitudine viscerale, per non dire animalesca, come del resto accadeva per la musica. Nella miscellanea qui ricomposta & assemblata con gran cura, “poesie, diari, appunti e liriche”, si riversano nelle pagine, come frutti colti di sorpresa, o di nascosto. Il processo ricorda più un rituale magico, una percezione trasfigurata nel richiamo costante ai rettili e a una variegata fauna che affolla i paesaggi morrisoniani. Lo nota anche Tom Robbins che nella scoppiettante prefazione scrive: “Allo stesso tempo atavici e postmoderni, questi versi sono fitti di evocazioni delle nostre paure più profonde, vipere velenose e insetti pungenti, serial killer e nubi radioattive”. Spiriti, fantasmi, ombre e altre creature irraggiungibili: la forma delle “fantasie urlanti” di Jim Morrison deve molto, nella sua libertà espressiva, all’impeto della Beat Generation, così come alle letture più radicali, da Blake a Rimbaud, ma se “la poesia ha un’armonia & una maestà che non potrà mai essere negata”, l’essenza del frammento, dell’impressione, e del movimento è la sua cifra stilistica, nella convinzione che “tutto è in frantumi & danza”. Il tambureggiare delle parole di Jim Morrison ondeggia tra lo spirito naïf (“C’è una rivoluzione ogni giorno, ogni volta che il sole sorge”) e una dimensione mistica, potente, a tratti profetica, se si considera la profezia come una componente rivelatrice della realtà, così come di “un’intersezione di idee, sfere di interesse, eccitazione o intenso desiderio”. Secondo Joan Didion, Jim Morrison tendeva a “suggerire una gamma di possibilità appena più in là di un patto suicida” ed è una definizione estrema che senza dubbio evidenzia uno dei suoi tratti più evidenti e complessi, però a voler leggere senza preconcetti e senza lasciarsi influenzare dall’appariscenza della rock’n’roll star si trova anche un volto più riflessivo (“Esiste un’uguale attrazione verso l’interno, un ritorno a tutte le cose”) capace di scrivere: “Un uomo rastrella foglie nel suo cortile, le ammucchia & s’appoggia al rastrello & le brucia completamente. La fragranza invade il bosco. I bimbi si fermano & si fanno attenti al profumo, che diverrà nostalgia fra un bel po’ d’anni”. O, ancora di più, in Potere: “Posso rendermi invisibile o piccolo. Posso diventare enorme & raggiungere le cose più lontane. Posso cambiare il corso della natura. Posso posizionare me stesso dovunque nello spazio o nel tempo. Posso richiamare i morti. Posso percepire eventi in altri mondi, nella mia mente più profonda, & nella mente altrui”. Ecco, assemblate in una lussuosa iconografia, “una serie di note, poesie in prosa, storie, schegge di commedia & dialogo, aforismi, epigrammi, saggi. Poesie? Certo”, che sono, al momento, il ritratto più completo di Jim Morrison. Il volume è prezioso, in qualche modo definitivo, anche se bisogna ricordare che gran parte di questi scritti erano già apparsi in altre forme, ma qui raggruppati in un solo corpo ci sono gli appunti del rapporto intenso con il cinema (“Il cinema sintetizza il conflitto tra giorno & notte, sonno & veglia, conscio & inconscio, soggetto e oggetto, passato & presente”), compresa la stesura della sceneggiatura di HWY, trascrizioni di nastri registrati nonché le note dal processo per la famigerata notte di Miami, primo marzo 1969, lo zenith delle rivolte dei Doors e l’inizio del crepuscolo. L’intenzione pare ripercorrere le motivazioni di Jim Morrison: “dobbiamo cucire assieme tutte queste impressioni disperate” ed eccolo nel “deserto” affrontare i “crocevia” e  i blues, e avvertire che “Chuck Berry che invecchia”, e poi tornare sulla strada tra un autostoppista e un killer in agguato, con “amanti & questuanti & partenti sì impazienti di piacere & scordare”. Non è difficile ritrovare spunti che poi riemergono espansi e ricollocati nelle canzoni dei Doors qui poste in un’appendice conclusiva, a ricordare che “la mente elabora meraviglie per un incantesimo, la lanterna respira illumina poi addio”. È la sua biografia (e quella dei Doors) in tredici parole, il resto è l’esilio nella notte infinita di Parigi.