lunedì 25 novembre 2019

Jorie Graham

Pagina dopo pagina, la sensazione è quella di arrampicarsi lungo un sentiero impervio e irto di ostacoli, di trovarsi in un “caos oscuro di parole” che in fast ha una collocazione a suo modo definitiva. È una poesia dal ritmo incalzante, stesa in verticale e orizzontale, con versi che si allineano dentro una punteggiatura ostica, un filo spinato di punti, virgole e trattini (un’infinità di trattini), rimandi e corsivi da cui non si può sfuggire. La struttura è figlia di un paradosso altisonante, che si sviluppa nel momento in cui Jorie Graham si chiede “che forma ho” (corsivo incluso) e, ancora di più, “quale forma prende la menzogna che non sia la giusta forma. Tutte le forme della menzogna ne sono la forma giusta”. La distinzione tra domande e risposte resta infinitesimale: le poesie di fast prendono pieghe insolite, anche graficamente, sulla pagina, come se fossero indipendenti dall’autrice. Frasi incise con il bisturi, brevi, scheggiate, eppure parte di un flusso costante, continuo, e la sua voce è “una voce nelle cose. Nelle cose. Una voce”. Le parole galleggiano sullo specchio dove Jorie Graham inquadra gli aspetti famigliari e domestici con la consapevolezza che “dimorare vuol dire lasciare una traccia” eppure, di fronte alla perdita, al dolore, vede il riflesso di un dubbio ingombrante, e si chiede: “chi ha detto che ci sentiremo a casa nostra”. C’è una sequenza costante nel formarsi della poesia di fast, che Jorie Graham costruisce uno strato dopo l’altro ribadendo l’urgenza di narrare “la continuità” e trasformando così il tempo in un processo chimico, molto libero, visto che “il mondo è un luogo breve”. Quello con il tempo è un rapporto combattuto e dissimulato nello spazio (“Una volta è un luogo che ho visitato” ) perché “il fatto è che la storia sgocciola fluisce ma non ha confini” e noi, adesso, “siamo nell’enigma del passato”. L’asserzione è all’origine di versi che affondano nella modernità, la sfidano, si contorcono nel tentativo di impersonarla. Una realtà mutevole e sfuggente, quella che ci circonda, che Jorie Graham digerisce con versi che tendono a esondare: affronta le macchine che parlano, codificano e ragionano e la sfida all’automazione, all’artificialità dell’intelligenza, “nel mercato delle idee”, è a favore di una comprensione molto più fragile, delicata, umana. Si accorge che si tratta di “un carnevale in cerca del vuoto. Com’è pieno il vuoto” e in Veloce che, inevitabilmente, “ogni epoca sogna quella dopo”. Le mutazioni, i cambiamenti delle stagioni, i passaggi di vita e di morte riportano ancora alla natura camaleontica di fast e Jorie Graham si premura di  prestare “attenzione a scherzare col fuoco. La forma esiste, conosce la differenza”. Pur nel suo continuo e ambivalente snodarsi, fast è la visione di  un autunno continuo e infinito con Jorie Graham capace di restare incantata: “E sono di nuovo alla finestra. E laggiù sotto di me la superficie del fiume mi fissa ancora. Ora è tutto piatto. Risplende e luccica in pieghe, mulinelli, gorghi di vento. Il giorno è lungo. Amoreggia il nulla. Lo fa sempre”. L’epifania trasmette l’impressione che “il sublime è così solo”, e che non resti altro se non aspettare “quando verrà di nuovo il tempo mentre qui non c’è nessun tempo”. Il legame tra il visibile e l’invisibile diventa palpabile quanto “intorno a noi tutto livellato, cancellato, noi sfondo, noi soltanto resti, restiamo, ma per cosa”. Da lì, le avvertenze si moltiplicano e riguardano la poesia e tutto ciò che le è estraneo (“Preparati a essere sepolto nella voce”), la libertà (“È duro accettare d’essere liberi” e i suoi limiti (“Attento: andrai troppo oltre”) e una raccomandazione esplicita (“Assicurati di sognare”). L’ultima contraddizione è che secondo Jorie Graham per  sopravvivere devi essere “leggibile” e invece fast è “un sistema basato sull’attesa”, dove solo la pazienza permette ci comprendere quella sorta di sillogismo che infine dice “guarda è un terrore è un eroe è un airone”. Bisogna salire parecchio per arrivare a comprendere una visione così, ma ne vale la pena.

mercoledì 20 novembre 2019

Daryl Sanders

Tempo fa qualcuno ha scritto che, al momento di incidere un disco, Dylan prende quanto c’è di meglio sul mercato e si porta in studio i musicisti per dare forma compiuta alle sue canzoni. È una percezione realistica e valida per gran parte della sua carriera, ma ci sono casi specifici in cui è parso più in cerca di una visione sonora, indipendentemente dai musicisti, dallo studio di registrazione e, a costo di apparire eretici, persino delle canzoni. Blonde On Blonde è forse la pietra angolare di quella propensione sia per esplicita ammissione dello stesso Dylan (“Ho quasi raggiunto la musica che immagino nell’album Blonde On Blonde: un suono sottile, mercuriale e selvaggio. Metallico e lucente, con tutto ciò che evocano queste parole. Quello è il mio vero suono”) sia per la considerazione del suo produttore, Bob Johnston: “Credo che sia stato l’inizio di tutto”. Una definizione che ha un senso, proprio perché Blonde On Blonde è stata la fonte a cui hanno attinto due o tre generazioni differenti di songwriter e rock’n’roll band, da John Mellencamp, Bruce Springsteen e Tom Petty a Robyn Hitchcock fino a Jason Ringenberg che con i suoi (Nashville) Scorchers ha dato vita a una sorprendente versione di Absolutely Sweet Marie. Il motivo va cercato proprio nel sound che secondo Greil Marcus “non è solamente integro; nelle singole canzoni non è mai identico, ma è sempre coeso, compatto. Possiede un bagliore che sembra provenire dall’interno della musica stessa”. La citazione non è casuale: lo schema seguito da Daryl Sanders è quello usato da Greil Marcus in La repubblica invisibile e ancora di più in Like A Rolling Stone, con una ricostruzione meticolosa delle sedute di registrazione, accompagnata da un’analisi delle canzoni. Daryl Sanders però si mantiene a un livello più appetibile, dedicandosi con scrupolo e pazienza a seguire Dylan, Bob Johnston, Robbie Robertson, i germogli della Band e soprattutto i musicisti di Nashville. La sensazione è quella di essere lì, con loro a inseguire il tempo giusto di una canzone o ad aspettare le parole, e con Dylan che sguazza nel suo elemento perché “a Nashville ti concedono più spazio che a New York. A Nashville la gente si siede e aspetta anche tutta la notte, se non ti senti pronto. A New York te lo puoi scordare”. Come succede spesso con tutto ciò che sfiora Dylan, la lavorazione segue cadenze indecifrabili: i musicisti rimangono in attesa per ore, spesso per tutta la notte, per poi essere chiamati a suonare senza sosta una take dopo l’altra. Una prassi riassunta così da Daryl Sanders: “Ai musicisti di Nashville non era mai capitato nulla del genere. Sebbene avessero già lavorato a tarda notte con artisti come Elvis Presley, non erano abituati a fare l’alba. Speravano che l’attesa del giorno prima fosse dovuta più che altro al ritardo del volo di Dylan, ma con il passare delle ore, in quella seconda notte di session, iniziarono a rendersi conto che le cose non stavano così”. Una disciplina singolare, assecondata da Bob Johnston, un produttore che lasciava molta libertà ai musicisti e vigilava sulle session. Va ricordato che allora si usava provare e riprovare le canzoni fino ad arrivare alla versione ritenuta idonea. Le sovraincisioni erano limitate, mentre oggi sono la routine principale. In un modo o nell’altro i musicisti dovevano entrare nella canzone e nello stesso tempo creare un suono, un habitat per le parole, e si capisce quando Dylan diceva che la musica cominciava a filtrare “con l’esplodere dell’alba”. Daryl Sanders, nell’introduzione Un sottile, selvaggio suono mercuriale, sostiene che “Dylan sapeva che cosa stava facendo, e sapeva che lì avrebbe trovato quello che stava cercando”, ma l’ipotesi è sibillina. Data la sua rivisitazione di quei giorni, peraltro molto particolareggiata e avvincente, non pare così automatico. Il ritratto di Dylan è più quello di un rabdomante che a Nashville, per intuito, per necessità, per vocazione e magari anche un po’ per caso, ha scoperto le condizioni ideali, forse irripetibili, per esprimersi al meglio. Di fatto, nella tortuosa gestazione di Blonde On Blonde, Dylan ha costruito e ribadito un’intera identità pescando nel caos un destino ancora tutto da decifrare.

martedì 19 novembre 2019

Richard Yates

Forse ha ragione Zadie Smith quando, a proposito di Richard Yates e di Una buona scuola, sostiene che “in un certo senso la scuola era l’argomento perfetto per lui, ossessionato com’era dal divario con il modo in cui vediamo noi stessi e quello in cui siamo in realtà”. Quell’intima distanza si concentra nel perimetro di un plesso scolastico che è l’epicentro di rapporti, sia per gli affanni e i rimpianti dell’età adulta, sia per le turbolenze adolescenziali. Una miscela dal potenziale esplosivo, che La buona scuola contiene a fatica, rivelandosi (anche nella sua architettura) piuttosto un’istituzione barcollante, rigida soltanto nei residui della morale e vecchia nelle fondamenta. Nel fragile ecosistema della Dorset (così si chiama La buona scuola) le relazioni sono forzate perché i muri hanno le orecchie, e tutti sanno tutto. È come vivere in una bolla trasparente, limitati nei movimenti come nelle emozioni. Per William Grove è un impedimento, ma non più del tanto, avendo fin lì vissuto nella terra di nessuno della separazione dei genitori. Il padre, già appassionato cantante, è ormai un travet della General Electric, mentre la madre è un’artista disordinata e con poche speranze. Alla Dorset, che solo in apparenza è La buona scuola a cui la madre aspirava per il figlio, William Grove ci arriva con un limitatissimo portfolio di ambizioni. Non si adegua e non riesce a conformarsi, dagli abiti alla postura fino alle abitudini e alle regole, il suo profilo è senza alcun dubbio quello di un outsider. Le contorsioni di William per districarsi dallo stillicidio quotidiano di sberleffi e dispiaceri riflettono i tormenti che ospita la Dorset, dal preside che cerca di sopportare l’inevitabile destino che si avvicina alle faticose conduzioni famigliari, dalle risse per i motivi più futili alle prime, maldestre esperienze sessuali. Le sofferenze sono inevitabili, ma con il tempo William prova ad ambientarsi e, pur senza raggiungere un particolare status di successo, alla fine riesce a diventare il direttore del giornale scolastico e a credere che, alla Dorset, “con un po’ di immaginazione si riusciva a vivere da adulti”. Non un granché, visto che gli toccherà pubblicare l’ultimo numero (con la chiusura della scuola) ma almeno riuscirà a cavarsela, archiviando il tempo trascorso alla Dorset come un ricordo agrodolce. Attraverso gli occhi di William Grove, Richard Yates attiva una forza centrifuga che coinvolge una trentina di personaggi, a cui non risparmia nulla. La benzina delle frustrazioni non finisce mai e la routine scolastica procede senza intoppi significativi, ma, nel frattempo, le vite dei docenti e degli studenti si intersecano nello scenario di piccoli e grandi drammi, che sembrano destinati a erodere lentamente la convivenza forzata nella realtà bucolica e asettica della Dorset. Dalle liaison inconfessabili ai party notturni, dall’abuso di alcol a un tentato suicidio, tutto diventa irrilevante quando sopraggiunge il 7 dicembre 1941 e la guerra richiama alla nuova, brusca realtà anche La buona scuola. Da quel momento è come se la tensione che saldava e mascherava le diffuse ambiguità si sfaldasse, lasciando la Dorset sola e nuda con il suo bluff scoperto. Prima viene creato un campo d’addestramento poco più che amatoriale per gli allievi, poi molti studenti (e un professore) vengono risucchiati nell’esercito e nella marina e, con il primo caduto, in un attimo le pulsioni emotive e sessuali, il momento transitorio dell’adolescenza e le traversie degli adulti diventano minuscole parti della storia, suggellate dal fallimento della scuola e destinate a sbiadire in fretta. Con il suo stile martellante, Richard Yates non fa sconti nemmeno al lettore: La buona scuola costringe a seguire William Grove da vicino e a condividerne la faticosa ricerca di una personalità sfuggente che l’istituzione in sé e, per estensione, la società nel suo complesso, tendono a uniformare in schemi prevedibili. Un dolore solitario e collettivo insieme che Richard Yates interpreta con quel fraseggio duro, amaro e comunque brillante qui adatto allo scopo più che altrove.

domenica 17 novembre 2019

Norman Mailer

A livello embrionale la logica dell’hipster è elementare: “Io sento questo, e ora lo senti anche tu”, e può essere il sound di un sassofono, come un nuovo linguaggio, o un inedito posto nel mondo. L’hipster è visto come un elemento sociale che non rientra in nessuna classificazione, perché “essendo l’unico non conformista in senso estremo della sua generazione, egli esercita un’attrazione potente, anche se sotterranea, sui conformisti, attraverso i resoconti giornalistici delle sue trasgressioni, attraverso il suo jazz destrutturato, e l’impatto emotivo delle sue parole simili a grugniti”, così come lo definiva Caroline Bird in Born 1930: The Unlost Generation. Il legame con il jazz è indissolubile, non solo come forma di ribellione al conformismo imperante, nell’anno di grazia 1957, come oggi, ma soprattutto nell’ attitudine di “lasciarsi portare dal ritmo al momento giusto” e nella convinzione che “ogni uomo è visto come un insieme di possibilità”, e l’improvvisazione è sempre un ottimo viatico per esplorarle tutte. Last but not least, è uno degli strumenti prioritari nella costante ricerca del piacere, dato che secondo Norman Mailer “il jazz è orgasmo, è la musica dell’orgasmo, buono o cattivo che sia, e come tale ha parlato a un’intera nazione”. È anche il tramite principale con la cultura della diaspora afroamericana: il ritratto dell’hipster si manifesta con il riflesso del “negro” (rigorosamente tra virgolette, anche se l’uso della parola che ne fa Norman Mailer lasciare intendere una certa confidenza, se non altro a livello provocatorio). Affermando che “gli hipster aspirano alla dolcezza, e il loro linguaggio è un assortimento di indicazioni sottili del loro successo o fallimento della competizione per il piacere”, la prosopopea di Norman Mailer va oltre le analisi Marx e Freud e arriva a determinare una sorta di data di scadenza, quando afferma che “siamo costretti a convivere con la consapevolezza che persino le sfumature più impercettibili della nostra personalità o il riflesso più insignificante delle nostre idee, ovvero l’assenza di idee e di personalità, potrebbero comunque determinare la nostra fatale scomparsa”. Essendo l’hipster incongruo e sfuggente, The White Negro lo usa come modello di riferimento per segnalare come “una società totalitaria mette a dura prova il coraggio degli uomini, e una società parzialmente totalitaria ne richiede una quantità ancora maggiore, perché il senso di ansia è più diffuso a livello generale”, prendendo comunque atto, non senza una certa responsabilità, che “indipendentemente da quale deforme e perversa immagine umana venisse riflessa dalla società che noi avevamo creato, quella società nondimeno era opera nostra”. È così che Norman Mailer mette tra parentesi un’ultima avvertenza: “Eppure folle è anche l’ironia con cui l’hipster si protegge. Vivendo di domande e non di risposte, è così diverso nel suo isolamento e nell’estensione della sua fantasia, così fuori portata per quasi ogni altra persona con cui entra in contatto nel mondo esterno degli square, e incontra generalmente tanta inimicizia, competizione e odio nel mondo hip, che il suo isolamento rischia sempre di ritorcersi su se stesso e ridurlo proprio così folle”. Il pamphlet ha ancora una sua efficacia anche se il linguaggio risulta ormai un po’ “out of time”, come non potrebbe essere diversamente, ma resta molto valido quando ricorda che viviamo in “una società talmente ingiusta che la carica di violenza collettiva che s’è accumulata nel popolo non è forse contenibile; se, quindi, aspiriamo a un mondo migliore, faremmo bene a trattenere il respiro, perché dovrà necessariamente venire prima di un mondo peggiore”. L’augurio non è proprio utopico, ma è in linea con il sentire dell’hipster: volubile, coraggioso, indipendente, ribelle con o senza causa.

lunedì 4 novembre 2019

Paul Auster

Frutto dell’incontro con l’accademica I. B. Siegumfeldt, Una vita in parole ripercorre tutto il lavoro di Paul Auster e, come è successo spesso nella sua carriera, alterna e confonde l’autobiografia con il racconto, con la sua interlocutrice rincara la dose passando al setaccio entrambe le fasi. Il confronto è cordiale, serrato e continuo, ma tende anche a una certa meccanicità. Il dialogo tra Paul Auster e I. B. Siegumfeldt può diventare lezioso e infilarsi in vicoli ciechi dove l’interpretazione si sovrappone alla rilettura e l’esegesi del testo si infila in spirali di valutazioni e ricostruzioni, sapendo che in fondo “mettiamo delle parole sulla pagina per creare delle immagini nella mente del lettore”. La conversazione segue la cronologia delle pubblicazioni di Paul Auster che si rivela sempre molto attento quando deve spiegare il mestiere di scrivere, che nel suo caso “incomincia nel corpo, è la musica del corpo, e anche se le parole hanno significato, possono a volte avere significato, è nella musica delle parole che i significati hanno inizio”. È prodigo di spiegazioni che toccano i lati più intimi della narrativa (“Tutti abbiamo dentro un racconto continuo, ininterrotto, su chi siamo, e andiamo a raccontarcelo ogni giorno della nostra vita”), i limiti naturali (“Credo sia impossibile cogliere appieno una persona. Ci si prova, ma, come dicevamo prima, non si riesce mai a penetrare il mistero di un essere umano. In un certo senso, tutta la scrittura è un fallimento”), le necessità strutturali (“Scrivere in sostanza è riscrivere”), il peso di particolari fattori  (“L’inconscio ha un ruolo molto ampio nella creazione di una storia”) e persino un suo senso ultimo quando Paul Auster si espone ad affermare che scrivere è “trovare la propria umanità e il proprio legame con altri esseri umani”. Nella discussione trovano posto anche il rapporto con il cinema, i ricordi d’infanzia e gli aneddoti famigliari, gli incontri e i personaggi veri o fittizi che siano (“Io credo che ogni essere umano sia uno spettro. Gran parte della nostra vita la viviamo al centro, ma ci sono momenti in cui fluttuiamo verso gli estremi, e passiamo da una sfumatura di colore all’altra in momenti diversi, a seconda dell’umore, dell’età e della situazione”). Ai margini dei commenti a Follie di Brooklyn, c’è un’immagine di New York prima dell’11 settembre, dove Paul Auster ricorda “com’eravamo fortunati con i nostri piccoli problemi, i nostri piccoli dolori, le piccole sofferenze, le cose che ci rendono umani”, che s’incastra alla perfezione all’idea per cui “tendiamo, solo per istinto di sopravvivenza, a omettere il peggio” e che, comunque, nonostante tutti gli sforzi possibili legati alla scrittura “gli esseri umani sono imponderabili, raramente si possono catturare a parole. Se ci si apre a tutti i diversi aspetti di una persona, di solito si resta storditi”. Guidato con insistenza da I. B. Siegumfeldt (che, per inciso, gli ha dedicato gran parte dei suoi studi), Paul Auster procede per tentativi sapendo che “stiamo parlando della materia dei sogni” ed è sincero quando dice di essere “affascinato dalla porosità fra ciò che è inventato e ciò che è reale; l’intersezione delle diverse sfere immaginarie” e, ancora di più, quando, infine, si lascia andare ammettendo che “siamo tutti sparpagliati, tutti frammentari”. Preso così, a sprazzi e a frammenti, Una vita in parole ha una sua utilità, per il resto pare dedicato proprio ai fans di stretta osservanza, che non mancheranno.

Isabel Wilkerson

Tre personaggi, tre famiglie, una miriade di diramazioni, due colori: le odissee di Ida Mae Gladney, George Starling e Robert Foster che lasciano il Mississippi, la Florida, la Louisiana per trovare un posto nelle vastità dell’America si annodano a una marea biblica che, nel corso del ventesimo secolo, trasformò il volto della nazione, perché “migliaia di aspirazioni frustrate e represse portarono gli individui dall’esasperazione estrema alla decisione di andarsene; quando furono milioni, diedero vita a un vero e proprio esodo di massa”. Seguendo le vicissitudini individuali al centro di un’imponente scelta collettiva, Al calore di soli lontani ricostruisce le migrazioni afroamericane mettendo l’accento sulle motivazioni che spinsero milioni di persone ad abbandonare la terra in cui vivevano e a partire. Più di tutto è stata determinante “la loro condizione nel sistema feudale in cui gli era toccato vivere, e la follia che poteva serpeggiare in qualsiasi momento”: lo sfruttamento (particolarmente odiosi i meccanismi della mezzadria), le cosiddette leggi Jim Crow, i linciaggi all’ordine del giorno, la segregazione e la sottomissione come frutti ormai marci della schiavitù, costituiscono gli elementi di pericolo, paura e tensione che diedero il via alla fuga e “quando le circostanze avverse li obbligarono ad andarsene, seguirono un flusso che durava da anni. La loro è la prova vivente che le emigrazioni innescate dall’animo umano non sono fenomeni misurabili con i numeri”. Servono le storie, e il lavoro di Isabel Wilkerson nel dipanare “il racconto epico della grande migrazione afroamericana” è impressionante ed enorme: racconta grandi privazioni, violenze e torture, ma anche l’evoluzione di una resistenza coraggiosa, di una forza straordinaria nella migrazione, dove i protagonisti “immaginavano un mondo diverso e libero: lo avevano visto nell’atteggiamento disinvolto, quasi superbo, nei vestiti e nei racconti di quelli del Nord. Per un breve istante avevano scorto un universo di possibilità al di là delle sbarre dell’esistenza quotidiana, e ora il mondo in cui si trovavano non aveva più un senso chiaro, era un enigma che lasciava strascichi sempre più marcati e inquietanti nella loro mente”. Le migrazioni si rivelano una sorta di esilio, che si sviluppa “non su uno sparpagliarsi caotico di anime perse, ma un vero e proprio reinsediamento, quantificabile e relativamente ordinato, lungo assi rappresentati dalle linee ferroviarie e degli autobus”. Anche al Nord, con la vita nelle metropoli e il proliferare dei ghetti, un’idea di stabilità e di dignità deve affrontare tutti i giorni lo spettro della miseria, la difficoltà ad avere una casa, un lavoro, un’istruzione, e quell’ombra persistente che cala tra il bianco e il nero. La conclusione di Isabel, in cima a seicento pagine di una ricerca fittissima, snocciolata come un romanzo, è eloquente, e priva di retorica: “Tutto sommato, si può dire che il denominatore comune degli emigranti fosse il desiderio di essere liberi come dice la dichiarazione di indipendenza, di potersi candidare a qualsiasi lavoro, di giocare a dama con chiunque, di occupare un posto qualunque sul tram, di vedere i propri figli andare a ritirare la laurea che a loro era stata negata. Se ne andarono per inseguire una versione della felicità, e poco importa se la ottennero o no. Fu qualcosa di apparentemente semplice, scontato per la maggior parte degli americani ma categoricamente proibito agli emigranti e ai loro progenitori, nella terra da cui partirono”. È il motivo per cui Al calore di soli lontani ci troverete Martin Luther King, Mahalia Jackson e James Baldwin, Ray Charles e Richard Wright e Langston Hughes, ma anche quell’anonimo che scriveva da Birmingham, Alabama: “Sono nel buio del Sud e faccio del mio meglio per uscire. Oh, per favore, aiutatemi a uscire da questa terra abbattuta. Conto come un cane, o poco più, aiuto, per favore, aiutatemi”. Una lettura importante, che delinea con chiarezza una prospettiva molto precisa sulla complessa natura della società americana.