giovedì 31 marzo 2022

David Joy

Tra il flash dell’eroina e il buio della crisi di astinenza, il tempo è delimitato da uno spazio infinito, dove tutta l’esistenza è consacrata alla spasmodica caccia della dose successiva. In mezzo, il nulla: la tossicodipendenza è come un buco nero che inghiotte inesorabilmente tutto e tutti. Non c’è pietà, compassione, speranza: come diceva William Burroughs (uno esperto, sul campo) è una condizione “minerale” che, nella bellissima e tormentata wilderness della Carolina del Nord, si riflette nel fumo e nella cenere sollevati dagli incendi boschivi. Su questo sfondo apocalittico Raymond (Ray) Mathis vive il dramma del figlio Ricky, ormai giunto ai confini estremi del suo calvario di tossico. Prima deve intervenire per salvarlo, rimettendoci diecimila dollari, ma ammettendo di essere arrivato al capolinea, tanto da dirgli: “Quello che voglio dire è che è finita. Non c’è più modo di salvarti. Non mi è rimasto più niente da darti”. È più di una premonizione perché, poco dopo, un’overdose stronca Ricky e scatena in Ray la volontà della vendetta (sacrosanta) contro gli spacciatori. “Se mai ho commesso una sola buona azione in tutta la mia vita, me ne pento dal profondo dell’anima”, una battuta dal Tito Andronico, citato en passant da David Joy, condensa la scelta perentoria di Roy. Conosce il terreno, sa come muoversi in una foresta di notte, ha un compagno pronto a tutto e altrettanto esperto sui sentieri di caccia (con una particolare specializzazione per gli esplosivi) e porta a termine la sua missione, ma siamo solo all’inizio e la trama di Queste montagne bruciano riserva ancora molti colpi di scena. Intanto, come ammette tra le righe David Joy, bisogna ricordare che “i buoni propositi facevano sempre così, lampeggiavano e luccicavano e bruciavano come fuochi d’artificio. Ma alla fine tornava sempre il buio”, e da lì i repentini cambi di prospettiva spiazzano e rileggono tutti i cliché dell’atmosfera noir. L’azione di Ray genera una reazione a catena che vede implicati sceriffi, squadre tattiche di quattro o cinque contee diverse, agenti infiltrati, poliziotti corrotti e poveri disperati che vivono di espedienti. Le montagne bruciano e “le decisioni hanno un loro modo di sommarsi. I numeri ti sfuggono. Più passa il tempo, più è difficile riconciliarsi”: la storia raccontata da David Joy trova, sì, la sua dimensione nella rivalsa di Ray nel nome del figlio, ma nella sua progressione si rapprende in una sfumatura filosofica, con le fiamme che devastano e avvelenano l’aria accostate deliberatamente alla distruzione senza speranza imposta dal mercato e dall’abuso di sostanze. La metafora è palese e continua ad avere una sua logica. Sono le riflessioni dedicate a Ray portano Queste montagne bruciano a indagare sul senso proprio dell’uso e del consumo della vita, che si addicono al suo protagonista, sono condivisibili a tutte le latitudini: “Quando un uomo arriva alla fine di qualcosa, un conto è guardarsi le mani e vedere che la propria vita è andata in pezzi, ma un altro conto è guardarsi indietro e vedere che tutto è andato distrutto a causa sua. Le vite possono andare solo in una direzione, e quello che rimane indietro è una cosa potente e permanente”. È in quei passaggi che David Joy, con una scrittura tersa e densissima riesce a intravedere, come i suoi personaggi che scrutano attraverso il fumo degli incendi, dove portano le loro scelte e soprattutto cosa rimane: “Quando il tempo si accorcia, restano solo i ricordi, i racconti sparsi come semi, le storie che ci tengono uniti in questo mondo. Possiamo ripeterle, possiamo raccogliere i resti delle anime che sono esplose all’infinito, ridare forma ai pezzi frantumanti e infondere nuova vita in coloro che abbiamo amato e perduto. Mentre guardiamo nell’oblio e vediamo svanire lentamente ciò che conosciamo, quelle storie saranno le facce intorno a noi e le voci che ascolteremo quando verrà il nostro momento”. Un romanzo potente che ha il coraggio di affrontare l’oscurità di quel mondo parallelo dove una fiamma sotto il cucchiaio vale più di tutto, ma l’inferno è ciò che gli sta attorno.

venerdì 11 marzo 2022

Rick Bass

Nei racconti di Rick Bass c’è sempre un fiume che scorre trascinando i destini dei personaggi, come è chiaro fin dalla splendida ouverture di Pagani. Una short story incantevole che rilegge il tema classico e inesauribile dell’irrisolta coabitazione tra amicizia e amore seguendo un gioco (pericoloso) lungo e dentro il fiume. L’incipit è essenziale e perfetto: “C’erano una volta due ragazzi, migliori amici, che amavano la stessa ragazza e, in un variazione meno comune di quella vecchia storia, lei non scelse nessuno di loro, ma proseguì per la sua strada e ne incontrò un terzo, e vissero felici e contenti”. Potrebbe finire qui, ma sotto la superficie nasconde sia gli spunti agrodolci dei riti di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, sia considerando il fiume nella sua realtà (“Solo perché l’acqua era brutta, non voleva dire che avesse un brutto suono” e in una dimensione molto più ampia che solo i veri river rat riusciranno a comprendere: “A quel tempo c’erano ancora un milione, o forse centomila, o almeno diecimila luoghi come quello al mondo. Morbide congiunture di possibilità, luoghi a cui non erano stati imposti limiti, dove riserve dal potenziale infinito erano alla portata di tutti, e aspettavano chi li reclamasse, li scoprisse, li lavorasse, li immaginasse. Luoghi di ricchezza e salute, anche nel mezzo di veleni torcibudella”. Ecco, nonostante la devastazione e l’abbandono, lungo le correnti d’acqua di Rick Bass è facile trovare, come per succede in Pagani, “una riserva di dolcezza, un’ampia volta sotterranea di dolcezza, come la tana del tesoro dei barbari: il passato, occultato nel profondo dei loro cuori, trattenuto e custodito, mitico e potente, anche se immobile”. È lo stesso senso di speranza dei racconti e dei romanzi di Richard Ford, ma Rick Bass ha una prospettiva più spigolosa e acuta, con l’attitudine a “scolpire e scrivere; fendere e caricare. Un po’ come una guerra. Come se questa guerra non richiesta dovesse essere, e fosse, il prezzo della loro pace precedente e della loro pace a venire”. L’intenso rapporto con la natura, che viene declinato di volta in volta a seconda delle evenienze e delle situazioni, diventa ancora più esplicito Nel paese di Ruth (dopo il Texas di Pagani, lo Utah), con La storia di Rodney o in L’attesa dove i protagonisti sono immersi nelle acque (rispettivamente dei canyon, del Mississippi e del bayou). Un rapporto mistico e animalesco nello stesso tempo che poi viene celebrato definitivamente in Cigni così: “Notte e giorno, giorno e notte. C’è un equilibrio perfetto, un momento esatto di tensione per tutto. È caratteristico dell’essere umano, ed è forse sbagliato?, cercare di ritrarsi, cercare di tornare indietro, di fermarsi, di costruire una fortezza dentro l’inevitabile rilascio e il rinculo di questa tensione? O il cercare di non permettere all’equazione di svolgersi, come l’acqua corrente dei fiumi che passa sopra, oltre e intorno ai massi dell’alveo?”. Questa proiezione battesimale vale per tutti: i boxeur dei circuiti sotterranei che popolano La leggenda di Pig-Eye, i pompieri che lottano “sul lato opposto del miracolo” in Il vigile del fuoco, e si nota ancora negli Esercizi di atletica all’aria aperta o in Fuochi (“Quassù tutto è lontano”) e, molto di più, nell’immersione gelida di Alci o nella magia blu di Storia di un eremita, dove ci si accorge, in definitiva, che “è come se ci fosse qualcosa in noi, un impulso, un elemento catalizzatore, che ci impedisce di andare dritti verso qualcos’altro”. Quell’incertezza è l’ingrediente determinante per tutta la lunghezza di Cane da petrolio, l’ultimo racconto di questa splendida raccolta, che è un capolavoro nell’alternare le speculazioni sui sentimenti e sulle emozioni con gli effetti dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio (e di gas), compresa la sensazione che “forse era tutto un erratico sogno, il sogno di bruciare”. Come gli altri caratteri di Rick Bass, il protagonista è combattuto (“Sapevo che il mio mondo era piccolo e pulito, ma era venuto il momento di trasferirmi nel misterioso mondo più grande”), ma alla fine si accorda allo scorrere della vita (“Credevo semplicemente di esistere, di non avere alcuna responsabilità, e che la strada era sgombra e si dispiegava davanti a me”). L’arma segreta dell’happy end, che non è così ovvio o banale, è garantita da una complessa serie di circostanze, ed è proprio lì, con un fiuto da segugio, che Rick Bass sa trasformare “la bellezza invisibile in bellezza manifesta”. Livello superiore.

martedì 1 marzo 2022

Josh Ritter

Sia nella realtà che nell’immaginario trasposto da Hollywood e in ogni altra sua rappresentazione, il West è una meta e un destino “per il richiamo dell’avventura, per far fortuna, per la promessa della libertà”, come scrive Josh Ritter, già eccellente songwriter (e consigliamo senza esitazioni i suoi album, buoni ultimi So Runs The World Away e Fever Breaks) e, da qualche anno, anche sorprendente narratore. Tutta l’epopea del West, dove la legge non arriva e, come si sa, ci sono altri modi per regolare i conti, ha un ruolo insindacabile in Una grande, gloriosa sfortuna. Agli albori del ventesimo secolo, il legname è ancora una materia prima ricercata e preziosa ed è all’origine del miraggio di gloria e guadagni, assicurati dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali e del lavoro degli immigrati russi, italiani, finlandesi. Per loro non esiste ancora l’America, e il piccolo Weldon Applegate assiste alla spedizione verso il Territorio Perduto, un impervio angolo di foresta da disboscare, organizzata da padre, Tom. È quando glielo riportano in una bara di legno, e siamo solo all’inizio di Una grande, gloriosa sfortuna, che nasce lo scontro con Linden Laughlin, un personaggio particolarmente odioso, un vero bad boy. Si muove con accurata lentezza, sogghigna perché “i mostri peggiori fanno le cose con calma” e pare avere doti sovrannaturali. È l’antagonista del giovane Weldon Applegate, che vorrebbe far valere i suoi diritti sul Territorio Perduto e, per estensione, vendicare la morte del padre. Per i taglialegna, Weldon Applegate è solo un “cucciolo”, e deve stare alla larga dal Territorio Perduto, dato che “i bambini non portano fortuna nei boschi”. Dalla sua parte ha soltanto la Strega e i western (muti) con Bud Maynard e poco altro perché Cordelia, Idaho, non è propriamente nemmeno una small town, è un agglomerato di case, con un saloon dove il pianista, Billy Lowground, suona la stessa canzone per giorni interi: Some Somewhere, e il titolo dovrebbe già dire abbastanza. Scorre un fiume sotterraneo di alcol, e con il proibizionismo, Cordy si popola soprattutto di fantasmi (“Se n’erano andati tutti. Come se fossero stati rapiti in cielo lasciandomi solo in mezzo alla strada deserta, fiancheggiata da edifici scheletrici e falciata da un vento di morte, circondato dalle ossa di taglialegna scomparsi da tempo e vissuti e morti sotto i rami immensi di un’antica magia profumata che stava svanendo”), ma non si può dire molto di più. Una grande, gloriosa sfortuna si snoda come un’intensa e turbolenta ballata dell’Anthology of American Folk Music piena di mistero, ironia, magia, amore, omicidi, leggende, ed è persino blasfema (come è giusto che sia) in certi passaggi, ma c’è qualcosa in più, o meglio, in meno. L’alternarsi delle voci tra il giovane e il vecchio Weldon Applegate si rimbalza in un arco temporale di cent’anni di solitudine, quelli che separano lo scontro per il Territorio Perduto e, all’estremo opposto, la diatriba con il nuovo (vecchio) nemico, Joe Mouffreau. La loro faida, che si specchia con quella di Linden Laughlin, è persino relativa: gli alberi sono stati tagliati tutti e solo gli ecologisti si arrampicano sui tronchi per salvarli, e già questo rende l’idea di come cambia la percezione dell’ambiente e della wilderness nel corso della storia. Qualcuno sopravvive, qualcuno no, e “i ricordi vanno a riempire gli spazi dove manca qualcosa”, e qui a ben guardare in Una grande, gloriosa sfortuna, manca una parte fondamentale, quella dell’età adulta (e, diciamo così, produttiva). Josh Ritter la rimuove, come se fosse una componente troppo ingombrante, come se fosse importante solo ciò che succede fino al termine dell’adolescenza e poi molto, molto più in là, quando rimane solo di bersi una birra in pace. Una visione anomala, da un punto di vista narrativo, ma non del tutto fuori luogo, anzi: è proprio quel vuoto in mezzo che rende Una grande, gloriosa sfortuna un romanzo originale, se non proprio geniale. Mascherandola e nascondendola dentro conflitti di ogni genere e natura, dove il mito americano della frontiera vuol dire trovarsi un nemico a tutti i costi e il West è sinonimo di crepuscolo, Josh Ritter lascia un’intera prateria a disposizione per capire che gli adulti si affannano a rincorrere un mondo di fallimenti e se c’è un Territorio Perduto va cercato proprio lì.