mercoledì 23 agosto 2017

Dava Sobel

Nel 1707 una flotta di cinque navi guidate dall’ammiraglio Clowdisley Shovell di ritorno, vittoriose, dallo stretto di Gibilterra, brancolava nella nebbia lungo le coste inglesi. L’assenza di riferimenti visivi e la mancanza di un calcolo preciso della longitudine inquietavano gli equipaggi. Un marinaio che riteneva di aver tenuto conto esatto degli spostamenti delle navi “fece partecipi gli ufficiali delle sue preoccupazioni: fu immediatamente impiccato per ammutinamento”. Fu solo la prima vittima: quattro navi da guerra su cinque, compresa l’ ammiraglia Association, si schiantarono sugli scogli e duemila marinai morirono. Sette anni dopo (anche le coincidenze numeriche hanno un valore specifico) il parlamento inglese approvava il cosiddetto Longitude Act, una legge che stanziava ventimila sterline a chiunque avesse trovato il modo di risolvere l’annosa e difficile questione della longitudine. L’intento divulgativo non nasconde l’abilità narrativa di Dava Sobel che sa semplificare quanto basta le argomentazioni scientifiche e tecniche, senza banalizzarle, rendendole più che attraenti. Scriveva nell’introduzione a Sulle mappe. Il mondo come lo disegniamo di Simon Garfield: “Le mappe hanno il difetto di distorcere, è vero, ma io lo considero una colpa perdonabile. Del resto, come si fa a non sacrificare in certa misura le proporzioni quando si cerca in ogni modo di ridurre una cosa sferica come il mondo in un’immagine piatta su un foglio di carta? Tutte le tecniche di proiezione cartografica, da quella che da Mercatore prende il nome alla proiezione ortografica, a quella gnomonica o a quella azimutale, producono inevitabilmente una qualche deformazione in un continente o in un altro”. E’ chiaro che “l’identificazione del meridiano fondamentale è una decisione squisitamente politica”, ma è anche noto che, come dice Simon Garfield, “le mappe sono nate come una vera sfida all’immaginazione, e ancora oggi lo sono”. La longitudine è stata a lungo una chimera, foriera di esperimenti tra i più assurdi ed eccentrici, tutti riportati da Dava Sobel, solo che la soluzione piuttosto che fantasia e inventiva, richiedeva metodo, applicazione, rigore e infine la sua misurazione si è concentrata attorno a due concetti essenziali. La distinzione tra spazio e tempo si è riproposta anche nella ricerca di una soluzione per la longitudine: gli oggetti del desiderio che si sono disputati l’attenzione sono le mappe astronomiche (i calendari e i cataloghi lunari) e gli orologi marini. Detti così sembrano dettagli di una fiaba, in realtà sono proprio quelli gli strumenti su cui vertevano intrighi, finanziamenti, programmi, ricerche, proposte, delusioni. L’osservazione e la concentrazione sul cielo vantava ascendenti illustri, tra gli altri, in Tolomeo, Galileo Galilei ed Edmond Halley, tanto che lo stesso Isaac Newton sosteneva: “Un buon orologio può essere utile per tenere l’orientamento in mare per qualche giorno e per conoscere l’ora di un’osservazione celeste, e a tal fine può bastare un buon orologio montato su rubini, finché non se ne troverà un migliore. Ma se in mare si perde la longitudine, non la si ritrova con nessun orologio”. D’altra parte, erano tutti coscienti che “il tempo è longitudine e la longitudine è tempo”, e Dava Sobel concentra l’attenzione sull’orologio marino di John (e William) Harrison divenuto poi d’uso comune e, anzi, ritenuto uno dei motivi della supremazia sul mare delle navi della marina inglese nei secoli. Prima di arrivare a tanto, gli Harrison dovettero sfidare le differenze di censo (erano una semplice famiglia di artigiani), le inevitabili valutazioni economiche perché il loro cronometro era efficace ma “i cieli erano universalmente alla portata di tutti” e tutti i meandri della burocrazia, dell’accademia e della politica che Dava Sobel con garbo e intelligenza riesce a rendere intellegibili e scorrevoli, come se fosse un romanzo.

lunedì 21 agosto 2017

Saul Bellow

Clara Velde e Ithiel (Teddy) Regler sono i protagonisti di un “rapporto completo, incantevole che è anche un disastro”. Originaria del Midwest, di cui ha mantenuto una certa rude praticità, lei è una donna indipendente e volitiva, manager del patinato mondo della moda, che ha cambiato più volte marito (l’ultimo, perenne candidato in campagna elettorale, particolarmente assente), con tre figlie da crescere nella tela urticante di NYC. Teddy Ithiel è un “enfant prodige della strategia nucleare”, un consulente del governo sempre in viaggio custode di “tutti quei fatti proibiti” che costituiscono il vocabolario della diplomazia e delle strategie geopolitiche. Prendendo spunto da Thomas Hardy, si rinominano “la coppia umana”, definizione che celebra e sublima una forma ideale di rapporto, un legame fortissimo che non di meno, nel corso degli anni è rimasto platonico. Avrebbe dovuto trasformarsi in un fidanzamento, e da lì in poi in un'unica entità, solo che di quel momento è rimasto giusto l'anello con smeraldo attorno a cui ruota La sparizione. In effetti le sue (due) scomparse sono i cardini del breve romanzo di Saul Bellow perché, scoperchiando l’ossessione di Clara per l’oggetto in sé, che nello stesso tempo è una storia contigua e parallela, rivela per gradi, sempre più in profondità, “il consorzio umano” che la circonda. Gli uomini appartengono a una dimensione in gran parte estranea (e fallimentare) dove “l’inerzia equivale alla stabilità” e il paradosso della composizione del legame con Teddy Ithiel è stabilita dalla certezza che “le supposizioni che azzardiamo sui nostri motivi reconditi sono così circostanziate, il nostro concetto dell’universo e delle sue forze così falsato, che più analizziamo, più danni facciamo”. Questo riflesso condizionato porta Clara a costituire il vertice di un triangolo di personaggi femminili di notevole efficacia, composto alla base da Laura Wong e Gina Wegman. La prima è un’amica con cui Clara si confida con assiduità in ossequio al fatto che “puoi sempre scoprire un rimedio, puoi trovarti da solo la tua panacea quando ne hai bisogno, puoi costruirti una soluzione. L’America è generosa sotto questo aspetto. L’aria è satura di suggerimenti costruttivi”. L’ironia, va da sé, è compresa nel prezzo. Gina Wegman, invece, è la baby sitter delle figlie: europea, bella, elegante, composta, adeguata al ruolo. Una presenza che diventerà fondamentale nella seconda parte del romanzo, quando l’anello sparirà di nuovo, dopo un primo, maldestro smarrimento da parte di Clara. Qualche dettaglio della trama va omesso perché Saul Bellow ama sorprendere e ci arriva con una raffinata disinvoltura che sovrappone diversi toni e piani, alternando l’aura crepuscolare e minacciosa alla fine del ventesimo secolo (La sparizione è del 1989) alla frenesia quotidiana di New York e incastrando, frase dopo frase, le diverse identità che sembrano prendere forma soltanto specchiandosi l’una dentro l’altra. Diceva Saul Bellow: “Nel corso della mia vita ho seriamente ponderato certi problemi, ma sono ormai nella condizione di chi può usare queste meditazioni come retroterra per il racconto, senza farle entrare troppo esplicitamente nella narrazione. Ho già pensato abbastanza. Ora voglio solo raccontare”. Con La sparizione mantiene la promessa, senza sforzi, senza sprecare una parola e con molti angoli da scoprire e riscoprire, come si conviene a ogni classico che si rispetti.

venerdì 18 agosto 2017

Stephen King

Quando Boston viene “esposta” a una generale devastazione, partita da “una specie di imperativo di gruppo” filtrato dai cellullari, Clayton (Clay) Riddell, disegnatore e sceneggiatore, sta pensando a un regalo per il figlio, che lo aspetta a casa. Attorno a lui, “come in un film dell’orrore” (Stephen King non resiste alla tentazione della battuta), uomini e donne si trasformano in orde disperate e fameliche. Per Clay, l'unica speranza è l'incontro con Alice Maxwell e Tom McCourt che, con un ultimo scampolo di lucidità, suggerisce ben presto la fuga: “Sono sempre stato lento ad arrivarci, ma mai uno che non ci arriva. La città brucerà e a farsi arrostire resteranno solo i matti”. Come pellegrini in cerca di una destinazione che non c’è più, perché è tutto “insensato”, partono spinti dall'istinto per la sopravvivenza e dall’amore filiale di Clay che lo porta a sfidare la sorte (segnata) e ad accorgersi che le regole ormai sono cambiate perché come lui stesso: a) “Credete che tutti quelli che sono scappati si siano ricordati di spegnere il gas?”; b) “A che cazzo serve la fine del mondo se uno non può sfondare un fottuto steccato?”. Le domande sono retoriche e le risposte vanno cercate nella dissertazione Charles Ardai, professore, preside e protagonista della svolta centrale di Cell: “Alla base, vedete, noi non siamo affatto homo sapiens. Il nostro nocciolo è la follia. La direttiva primaria è l’omicidio. Quello che Darwin per delicatezza non ha voluto dire, amici miei, è che se siamo diventati i padroni del mondo non è stato perché siamo i più intelligenti o nemmeno i più crudeli, ma perché siamo sempre stati i più pazzi e sanguinari figli di puttana della giungla”. Non è comunque sufficiente quando un “errore irreversibile di sistema” genera un organismo che va oltre il “comportamento da branco”, o da “stormo” e si muove e si sviluppa come un virus, sintomo evidente che una parte (considerevole) della “società tecnologica” ha già preso il sopravvento. Solo che in Cell la forma di odio e di follia che Stephen King chiama “Stati Unicellulari d’America”, non nasce dalla tecnologia, in particolare dai telefoni. Avanza attraverso quegli strumenti, li attraversa per crescere verso una dimensione onirica e telepatica. I toni apocalittici consentono la distinzione tra una presunta normalità (a partire dall’uso della tecnologia) e un dubbio morale di fronte al nuovo organismo biologico perché “la razionalizzazione era un grande sport umano, forse il più grande sport umano, ma quella notte non avrebbe cercato di truffare se stesso: certo che quella era la sua vita. Qualunque cosa fossero o qualunque cosa stessero diventando, erano comunque e sempre esseri viventi”. La distinzione, che rimane impigliata nelle pieghe del racconto di Stephen King, non è relativa ed è parte integrante di “un modo faceto di esprimere un piccola denuncia politica”. Gli interrogativi restano annunciati e sospesi, un po' come il convulso finale: Stephen King, as usual, è attaccato al nocciolo della storia e dell'azione di Cell e l'unico, nitido avvertimento ai viaggiatori rimane quello di Tom McCourt: “Credo che se vogliamo avere qualche speranza di sopportare quello che ci aspetta d’ora in avanti, dovremmo trovare la maniera di congelare per qualche tempo le nostre sensibilità più vulnerabili”. Su questo, ormai, ci sono ben pochi dubbi.

lunedì 14 agosto 2017

William Burroughs

Blade Runner “è un film troppo grande per stare in una sola frase”, e questo si era capito, visto che è stato un titolo ambivalente: sgusciato dalle mani dell’autore originale, Alan Nourse, passato attraverso le forche caudine di William Burroughs, ha finito per incorniciare il film di Ridley Scott ispirato, come è noto, da Philip Dick. La minuziosa ricostruzione dei passaggi, a cura di Riccardo Gramantieri, chiarisce ed esaurisce le coincidenze e le assonanze tra The Bladerunner di Alan Nourse, Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? di Philip Dick, la sua riduzione cinematografica e l’inedita rilettura di Blade Runner di Burroughs che inghiotte la storia e la rigurgita a modo suo, tagliata e cucita, sparpagliata per le pagine, immersa nell’espressione caustica del suo linguaggio. Il film immaginato da William Burroughs non è una pellicola standard, non ha proprio nulla di convenzionale, piuttosto è inteso come un organismo a se stante, o almeno così si snoda nella breve sceneggiatura. L’ambientazione, salvo NYC invece di San Francisco, è sempre un’esplosione metropolitana, l’incubo di una città che “sembra aver subito un attacco nucleare. Intere aree in rovina, campi di rifugiati, tendopoli. A milioni hanno lasciato la città e non ritorneranno. New York è una città fantasma. Altre città sono in condizioni simili”. Una distopia in cui sono crollati uno sopra l’altro tutti i livelli di convivenza, dove gli animali sono tornati protagonisti e dove l’involuzione ha spinto una larga parte della specie umana ha portato alla clandestinità. Burroughs descrive così lo scenario in Vista di Manhattan dall’elicottero: “La sovrapposizione ha portato ad un aumento mai visto del controllo sul privato cittadino. Niente a che vedere con lo stato di polizia vecchio stile che usava oppressione e terrore, ma controllo in termini di lavoro, credito, abitazioni, benefici per la pensione e assistenza medica: tutti servizi che possono essere soppressi. Questi servizi sono informatizzati. Niente numero, niente servizio. Comunque, tutto ciò non ha prodotto quelle unità umane uniformate dal lavaggio del cervello previste da ingenui profeti come George Orwell. Al contrario, una larga percentuale della popolazione si è spinta nell’underground. Quanto larga, non lo sappiamo. Questa gente è senza numero”. Le visioni, a tratti profetiche, di William Burroughs, ritornano con maniacale dedizione a alla malattia e alla cura ricordando, prima di tutto, che “ogni terapia, ogni droga, ogni vizio qui ha il suo prezzo”. La trama del suo Blade Runner si condensa e si concentra proprio attorno all’idea che “tutto quello che ti serve è l’accesso ai farmaci” e, per naturale, estensione alle informazioni. Complotti o paranoie a parte, le sollecitazioni sono pesanti perché Burroughs individua alcuni gangli notevoli nel rapporto tra potere corrotto e costituito e farmaceutica, e li evidenzia con geniale irriverenza. Giusto per mettere in ordine e per riconoscere il dovuto a Philip Dick (così come ad Alan Nourse) va detto, per esempio, che già nel 1972, nel saggio L’androide e l’umano, ipotizzava uno sviluppo di sostanze stupefacenti (legali e/o meno) per limitare le escursioni emotive: “L’intera gamma di sentimenti quali il dolore, la rabbia, la paura e ogni sorta di sensazione intensa verranno ricondotte al di sotto di una certa soglia dalla presenza di carbonato di litio nel tessuto cerebrale. Il comportamento del soggetto diventerà stabile, prevedibile e non sarà più una minaccia per gli altri. Praticamente, questi avrà sentimenti e pensieri costanti per tutto il tempo, da mattina a sera, giorno dopo giorno. Di certo, le autorità non avranno più brutte sorprese da parte sua”. Si vedono, in filigrana, i temi di Blade Runner (in ogni versione) e, a sua volta, William Burroughs non fa che distillare e ampliare l’ossessione del controllo (delle comunicazioni e delle somministrazioni), non del tutto fuori luogo (anzi). 

mercoledì 9 agosto 2017

Dave Eggers

Sergei Andropov è lo spin doctor di Stuart Craspedacusta: uno stratega elettorale che ha vinto 32 competizioni su 34 in due continenti, che ama e crede “fervidamente in tutti i suoi candidati, tranne quelli che perdevano” ed è in grado di licenziare qualcuno solo perché si chiama Maurice. Un motivo vale l’altro per lui “la gioia che gli procurava dirigere campagne elettorali era qualcosa di bello da osservare, ammesso che l’osservatore avesse occhi per vedere”. I suoi motti sono tre, come i punti esclamativi che d’abitudine mette alla fine: 1) “Gli elettori non nascono, vengono registrati!!!; 2) “Prima di saper correre devi imparare a strisciare!!!”; 3) “Se vuoi godere, impara prima a strisciare!!!”. C’è anche un ultimo segnale, in bella mostra sulla sua scrivania: “Per reclami rivolgersi qui!!!”, firmato J.K., che non sta per Jack Kerouac, ma per “Just Kidding”, ovvero “sto scherzando”, perché ammette l’ineffabile Sergei “sono scherzoso e sono un pazzo. Sono un animale politico”. Con Ronette Robinson, il suo equivalente presso il candidato avversario, Murray Olongapo, condivide “una simbiosi, una sorta di visione condivisa del futuro, anche se di due futuri parecchio diversi”. Entrambi veterani di altri rally e altre battaglie, sanno che “il punto non era l’aspetto tecnico del governare: il punto era riscaldare il dibattito fino a una temperatura alla quale le cose potevano finalmente essere cambiate, e le menti piegate e plasmate”. Quando Ronette fa decollare nel cielo californiano il nuovo gadget della campagna, un dirigibile scintillante, guasta la colazione di Sergei e del suo luogotenente, Little Nicky alias Nicholas Chiaroscuro, specialista in “opposition research”, un concetto che andrebbe articolato su (almeno) il doppio delle pagine di Se non è vietato è obbligatorio, ma che si può riassumere nello spalare e spalmare fango (o materia ancora meno nobile) in tutte le direzioni. Gli sforzi tesi a denigrare, dileggiare, diffamare, la normalità dei colpi bassi, la spettacolarità dei retroscena, vizi e difetti privati sulla gogna pubblica sono le scorie che infettano la competizione tra i due principali candidati, le cui idee sono il manifesto politico del vuoto pneumatico. Per la cronaca, ci sono anche un terzo e un quarto candidato, a corollario di una situazione paradossale, ma non troppo. Una parodia, che poi è forse l’unico modo pertinente per raccontare l’intrinseca realtà di ogni campagna elettorale per quello che in effetti è: un universo autoreferente, autoindulgente e suicida o, per dirlo direttamente con Dave Eggers, “una cosa orribile e sbagliata e malgrado questo strepitosamente divertente”. Il finale pirotecnico, a sua volta una parafrasi acidula dell’happy end hollywoodiano, è una sarcastica rivisitazione dei luoghi comuni della terra delle opportunità: “Stava per accadere qualcosa di nuovo e di grande, proprio sopra le loro teste. Erano al centro di qualcosa di decisivo, là nella California meridionale, qualunque cosa decisiva stesse per accadere, e questo fatto gli ricordava ancora una volta perché vivevano lì: lì dove le cose erano possibili”. Il dirigibile che tiene tutti con la testa alzata ne è la metafora perfetta: gonfio, teso, lento, inutile, innocuo e infiammabile nello stesso tempo, è lì sospeso nell’aria, una spada di Damole all’idrogeno sopra i pretendenti al trono. Nel dubbio, votate Dave Eggers.

domenica 6 agosto 2017

Charles Bukowski

In un angolo nascosto di questa selezione antologica (che comprende una buona parte di inediti) e rigorosamente tematica, il buon vecchio Hank si lascia sfuggire che “sono gli extra, sono tutti quegli extra” a convincerlo a inseguire “i bei momenti del miracolo dell’amore”. Si tratta pur sempre di piccole frazioni, perché se è vero, come scriveva nel marzo 1971 all’inizio di La doccia che “stare insieme risolve quasi tutto”, in quel “quasi” si spalancano le porte dell’intero mondo di Bukowski, con i suoi scenari: Los Angeles, gli appartamenti trasformati in campi di battaglia, le corse dei cavalli (immancabili), la radio che trasmette Mozart, le bottiglie di vino scolate a ripetizione e, più di ogni cosa, l’ossessione per la scrittura. La fine della stessa poesia riassume, “quasi” come un’elegia, tutto il senso delle meditazioni Sull’amore: “Nella storia di una donna e di un uomo, è diverso per ognuno, meglio e peggio per ognuno, per me, è splendido abbastanza da ricordare oltre la marcia delle truppe e dei cavalli che zoccolano per le strade là fuori oltre i ricordi di dolore e di sconfitta e di infelicità: Linda, mi hai donato tutto questo, quando me lo porterai via fallo lentamente e dolcemente, fallo come se io stessi morendo nel sonno invece che in vita, amen”. E così sia: già nella dedica alla moglie, Sull’amore rivela un Bukowski intimo, a tratti persino accorato e lirico, riscoperto nelle sue variazioni più sensibili in ordine (e disordine) di donne e amore. Una trama, non lineare, non organica, collega tutte le poesie e lascia emergere, nello stesso tempo, un Buk “quasi” confessionale che, in Ho fatto un errore, si ritrae come “un vecchio confuso che guida sotto la pioggia chiedendosi che fine abbia fatto la sua fortuna”. E’ soltanto la prima delle ammissioni della sua infinita rissa con “la futilità del compromesso dell’esistenza”, altrimenti riassunta così: “Mi sono fatto il quartiere, mi sono bevuto la città, mi sono scopato il paese, ho pisciato sull’universo. Mi è rimasto poco da fare se non consolidare la mia posizione e rilassarmi”. Il relax lo porta ad alcune considerazioni antitetiche al suo mood, ma che suonano stranamente sincere. Scrive in Ragazze pulite tranquille in abiti di percalle: “So che la loro pace è solo relativa, ma è comunque pace, spesso ore e giorni di pace”. Ancora di più in ammette che “ha i suoi vantaggi essere soli, ma si avverte un calore insolito nel non esserlo”. Un Bukowksi a cuore aperto fino a Il dramma della fine dove dichiara senza possibilità di fraintendimento che “la cosa più immensa della bellezza è scoprire che ne è andata”. E’ l’apoteosi del modo di vivere di Bukowski che, concentrato soltanto sul presente, ha una sua logica stringente perché “il potere corrompe, la vita abortisce, e tutto ciò che rimane è solo un pugno di mosche”. Le abitudini e le necessità di Bukowski non sono complicate, anzi, sono piuttosto limitate, eppure c’è sempre qualcosa può andare va storto (tanto che in Scopare dice: “Dormo con le palle in mano così nessuno può rubarmele”) finché in Sento il suono delle vite umane fatte a pezzi (notare l’allegria del titolo) non rende pubblico l’antidoto (omeopatico) al pessimismo cosmico (e comico) sostenendo che “è così facile prendersela comoda, se te lo consenti, questo è tutto quello che serve”. La benedizione finale non tarda ad arrivare quando in Una per il lustrascarpe rivela di apprezzare “i migliori tra voi più di quanto pensiate. Gli altri non contano se non perché hanno dita e teste e alcuni di loro occhi e quasi tutti gambe e tutti quanti sogni belli e brutti e un lungo cammino da percorrere”. L’amore è un bel compagno (compagna) di viaggio “e l’armonia ti fa credere che ci sia qualcosa dopo la morte”. L’immancabile commiato arriva con La migliore poesia d’amore che riesco a scrivere per adesso, dove Bukowski alla fine di lunghe ed esplicite peripezie erotiche ribadisce che “in tema di poesie d’amore visto dove ci siamo spinti questa poesia basta e avanza”. Okay, manca solo il corollario di due righe autobiografiche, che non tardano ad arrivare: “Sono un uomo senza istruzione con folli sogni selvaggi, alcuni dei quali si sono avverati (voglio dire, se devi stare qui tanto vale lottare per il miracolo”). Il vero extra rimane sempre lui.