giovedì 23 marzo 2023

Violet Kupersmith

Il mondo degli expat, che vivono un eterno esilio anche quando tornano a casa, è soltanto l’inizio. La distanza tra l’America e il Vietnam viene bruciata in un istante, e non resta nulla. Ospitata dai Cook, che, ossessionati dall’igiene e dalla pulizia, la considerano “una specie di misterioso germe gigante che erano fieri di sanificare”, Winnie non ci mette molto a capire che “l’illusione della sicurezza era un’invenzione dell’Occidente” e si avvia a scoprire che il Vietnam, per lei e per chi legge, sarà un viaggio nel tempo che disorienta, avvolto in una sorta di nebbia onirica e ipnotica (e alcolica, anche) e distinto da una profonda precarietà. Dal cibo (una costante in tutte le salse, non solo metaforiche, anzi) al sonno, dalla pioggia alla viabilità, tutto è fluido, instabile e sfuggente e scorre secondo schemi impropri e un serrato accavallarsi di flashback. Attraverso Winnie, che dovrebbe insegnare inglese, ci si inoltra in un groviglio di trame che tendono a intrecciarsi con un brulicare di vite umane, animali e persino vegetali a cui Violet Kupersmith fornisce una voce con una scrittura densa e palpitante che non teme di offrire una presenza raziocinante anche a cani, maiali, topi e (parecchi) cobra (compreso uno, anzi una, a due teste). Sì, succedono molte cose strane nel Vietnam di Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, ma non per via della flora o della fauna. C’è un contrasto stridente tra l’esistenza corporea e la componente onirica, o fantastica: ci sono secrezioni, odori, parti umane descritte fino ai minimi dettagli (e oltre) e, come un riflesso distorto, immagini che fluttuano eteree e inafferrabili. La stessa, “labirintica”, Saigon pare soltanto uno sfondo teatrale per i personaggi che si incrociano nell’ombra, e ancora di più quando ci si avventura negli Altipiani. Se Winnie è la connessione con il mondo occidentale, i cascami coloniali sono dietro ogni angolo. Una scena con i francesi Gaspard Valentin Renaud, Jean-Pierre Courcoul e Louis Lejeune alias “l’Anguilla” è un salto temporale di 69 anni proprio nel mezzo del romanzo e ricorda da vicino la famosa sequenza tagliata di Apocalypse Now. Un segmento grezzo e deviato, uno dei tanti in un gorgo che via via si porta dentro tutto: il sesso, la corruzione, la decadenza e una violenza strisciante. Una visione del Vietnam che si snoda proprio come le spire degli onnipresenti serpenti, che hanno un ruolo da protagonisti. Tutto è plausibile, compresa la trasformazione degli esseri umani in forme mutevoli, che sarebbero piaciute un sacco a Ballard, e la transizione biunivoca con gli animali o il ruolo del fumo, che si presenta come, un’essenza, un ectoplasma ed è il più eclatante tra gli elementi sovrannaturali che costituiscono la parte più originale e sorprendente del romanzo. Persino l’ambiente si muove, un paesaggio lussureggiante che vive di vita propria, a partire dalle foreste degli alberi della gomma dove è necessario possedere delle facoltà divinatorie per districarsi tra i misteri che affollano i filari. La scomparsa di Winnie (e non è l’unica) è l’enigma sottinteso dall’esordio di Violet Kupersmith e sviluppa una rete che intrappola il lettore in un dedalo kafkiano di metamorfosi e inquietudini inzuppato fradicio nelle leggende, nei riti e nelle fantasie ancestrali vietnamite. Le squame della storia compongono una pelle sgusciante, viscida e urticante che vede nel corpo femminile una preda e nello stesso tempo una tana per i fantasmi di cui brulicano tutte le storie. Non solo quella di Winnie, ma anche quella di Binh, Tan, Long, Odile, di volta in volta compresse nelle contorsioni della vendetta, che arriva a sorpresa, dopo una lunga, meticolosa preparazione in un vorticoso finale, degno di uno dei romanzi più visionari, originali e sorprendenti degli ultimi anni.

giovedì 9 marzo 2023

David Joy

Mentre sul giradischi scorre For The Sake Of The Song di Townes Van Zandt, una porta si apre su uno scenario da incubo che coinvolge quattro ombre, una pistola e un “tipo di casino che non può essere ripulito”. Ne succedono parecchi, in Dove tende la luce, che si distingue in due parti, una incastrata dentro l’altra. All’inizio David Joy particolareggia con estrema accuratezza i luoghi della contea di Jackson, tra gli Appalachi della Carolina del Nord, dai dettagli della torre idrica alla cupola bianca della scuola da cui Jacob McNeely, giovane protagonista e narratore, ha preso le distanze fino all’ambiente naturale circostante, cani e trote in tutte le loro varietà compresi nella mappa. La definizione dei luoghi come se fossero galassie distanti anni luce e sono soltanto posti in una contea dove vivono esseri umani sbandati e limitati come i McNeely. Se nella prima parte, vengono indicati con meticolosa sistematicità, nella seconda sono solo i punti di congiunzione di un diagramma invisibile, uno spazio tra “qui” e “lì”, dove i protagonisti sono legati tra loro, a partire da Jacob, figlio di una stirpe per cui “infrangere la legge era una questione di sangue quanto l’altezza e il colore dei capelli”. La famiglia intera ha qualche problema: “Mamma sniffava crystal, papà gliela vendeva, e io non avevo mai avuto le palle per andarmene”. Charlie McNeely, il padre, è una leggenda, abituato a far sparire i nemici, i traditori, le spie. Un ras cresciuto disseminando corruzione e cadaveri, convinto che “la storia la scrivono quelli che restano in vita” e va da sé che i morti non possono smentire. Un uomo con un buco al posto dell’anima e Jacob, nonostante il nome biblico, sa di non avere speranza, come tutta la sperduta comunità none trash che lo circonda. Quando i personaggi prendono il sopravvento, il territorio diventa un dedalo in cui i passi sono già scritti, come se il genius loci di quell’angolo sperduto e miserabile dell’America determinasse i destini individuali, senza possibilità di appello. Per Jacob, che crede ancora nella redenzione e  vive una tormentata love story con la coetanea Maggie Jennings, fresca di diploma, vorrebbe aiutare (almeno) lei andarsene, se proprio non può salvare se stesso. È una missione impossibile: la brutalità del padre non ha alcun limite e così tradimenti e vendette si sovrappongono, fornendo a David Joy lo spunto per raffiche di colpi di scena. Non c’è spazio per effetti spettacolari, però: più che una voce, quella di Jacob è una testimonianza e una visione d’insieme di una terra arida, acida e senza scampo. David Joy la rende benissimo con una scrittura asciutta e lineare, capace di cambiare registro in un secondo, e capita spesso: non si può specificare di più, perché, per quanto breve ed essenziale, Dove tende la luce è un groviglio infernale in cui lo stesso Jacob è infine costretto ad ammettere: “Quella era la mia realtà: il dolore, la vergogna, e tutto quello che comportava. Quindi aspettare di morire era una cosa che conoscevo bene, e non era la morte che mi tormentava”. È per quello che tra le canzoni del terzo album di Townes Van Zandt, quella nascosta tra le pieghe è piuttosto Waiting Around To Die che, insieme all’epigrafe di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, rende benissimo il tono cupo e lacerante di Dove tende la luce.

giovedì 2 marzo 2023

Allen Ginsberg

“Siamo onesti, e ammettiamo che la poesia, nella espressione più alta, sazia pochi appetiti profondi nell’epoca moderna. Ma l’apparizione in mezzo a noi industrializzati di un uomo senza astuzia o fini politici o consorteria, che si prodigava per diventare saggio e santo, fu per molti una sorprendente, anacronistica gioia per l’anima”: è il ritratto dedicato da Kurt Vonnegut ad Allen Ginsberg e Bloodsong ne celebra proprio gli esordi, che sono sempre difficili. La composizione, piuttosto traballante, ma non priva di una sua logica, è stata assemblata da James Grauerholz, un tempo complice e factotum di William Burroughs. In un beato disordine, sfilano appunti dei diari giovanili, trascrizioni di sogni, schegge dell’infanzia (“La maggior parte delle persone passa metà della propria vita creando ricordi e l’altra metà ricordandoli. Così facendo, ne creano di nuovi”), letture e poesie, discussioni con Lucien Carr e corrispondenze con Jack Kerouac, nonché le lettere d’addio nell’evocazione di uno o più suicidi, per fortuna rimasti senza seguito (arriverà un omicidio, invece). Molti di questi frammenti non superano l’enfasi adolescenziale (“Quanto sarebbe meglio essere astuto e saggio, essere Socrate e comprendere tutto questo perfettamente, capirlo sempre di più e poi mandarlo al diavolo”), anche se Allen Ginsberg sfoggia già una vocazione ammirevole: “Seguendo il desiderio del mio cuore, vedo la ragione per foggiare un’arte futura con la politica. Allo stesso tempo porto avanti fino ai limiti le mie capacità i miei desideri artistico-consci di espressione di sé creativa e selettiva”. Si convince “come tutte le persone tristi”, di essere un poeta e si dedica all’osservazione dei suoi sodali, come la digressione su Lucien Carr, che contiene già pesanti indizi per l’immediato futuro, visto che “è stranamente limitato da repressioni subliminali che razionalizza, in modo abbastanza inconscio, e da cui trae vantaggio. Dichiara di essere annoiato da me, dai luoghi, dalle cose. Un artista ipersensibile non lo sarebbe”. D’altra parte in coda a descrizioni delle attività e delle passioni letterarie di Burroughs, Allen Ginsberg sostiene: “In quanto artista mi propongo di estrarre una serie di valori dall’accozzaglia di contraddizioni. Vorrei vedere la bellezza in ciò che non ha cura per la bellezza e la verità in un universo troppo complesso per essere semplificato in apoftegmi. Desidero plasmare il significato strappandolo alla confusione, unificare i miei desideri, capire le mie passioni e dirigerle anziché esserne diretto. Cerco i valori”. Quasi a voler confermare i suoi intenti, a breve distanza, annuncia: “Sto scrivendo un romanzo naturalista-simbolista. Se un particolare è semplicemente disgustoso e osceno non trova posto nel romanzo. Se l’oscenità delle azioni o dei moventi rappresenta qualcosa di importante al di fuori di sé, se diventa uno sfondo necessario: in breve, se è un simbolo, la uso. Confido che i fatti naturali abbiano un significato universale”. The Bloodsong resta incompiuto, così come gran parte di quei giorni acerbi: quello raccontato da Allen Ginsberg è solo un comitato bohémienne, con molti grilli per la testa (“Stiamo seduti a fissare lo specchio dell’arte, affascinati dalle nostre stesse deformità”) e poco più, insieme alla spericolata frequentazione dei bassifondi di New York e all’assassinio di David Kammerer da cui si dipaneranno le triangolazioni acute tra Burroughs, Kerouac, Ginsberg che cambieranno la posta in gioco e daranno forma alla Beat Generation. È cominciato tutto lì.

mercoledì 1 marzo 2023

Mark Bowden

L’intervento multinazionale in Somalia del 1993 fu un disastro su più piani, l’ultimo dei quali, quello militare, si rivelò fatale. A Mogadiscio o Moga come lo chiamavano gli americani, finirà in un massacro e la storia è un po’ più complessa di come è stata semplificata in Black Hawk Down di Ridley Scott, tratto proprio dal reportage di Mark Bowden: c’erano stati attacchi precedenti, con un uso smodato della forza e degli elicotteri e numerosi “danni collaterali”, ovvero vittime civili. C’erano state operazioni sanguinose, ma infruttuose, e, più in generale, l’aria era ammorbata dalla frustrazione per il senso d’impotenza da parte dell’esercito più grande al mondo. Il disastro, non il primo e neppure l’ultimo partorito in queste condizioni, era dietro l’angolo, e non soltanto metaforicamente. Mark Bowden fa un grande lavoro di ricerca, anche dove i segreti e l’oblio sono stati spesso un muro invalicabile, con l’intenzione dichiarata di “unire la precisione di una descrizione storica, con l’emozione delle memorie, e scrivere un racconto che si leggesse come un romanzo ma che fosse vero”. Di questo bisogna dargliene atto, anche se non tutte le valutazioni e le celebrazioni della forza militare devono essere per forza condivisibili, anzi (e lo ammette pure Mark Bowden, alla fin fine). La ricostruzione però è meticolosa, tiene presente i un quadro d’insieme credibile, non dimentica le posizioni somale, così come tutta la controversa situazione creata dagli americani. Mark Bowden sa come mettere a fuoco un aspetto alla volta e nello stesso tempo sa lasciare al racconto l’opportunità di passare dal particolare al generale, dalle emozioni alle sottili distinzioni di “tecniche, tattiche e procedure”. Il suo lavoro, che si basa una quantità di fonti primarie, è enorme e specifico, eppure riesce sempre a ricondurlo all’essenza della storia. Da ottimo reporter, non nasconde nulla: le indecisioni politiche, l’aggressività dei ranger, la visione da Far West del generale Garrison, il caos in un’antica città africana trasformata in un campo di battaglia, gli effetti devastanti della moderna tecnologia bellica, gli intoppi della missione, i morti americani (diciotto) e somali (centinaia), le divisioni tra i clan locali e le incongruenze delle “buone intenzioni” occidentali. Da un punto di vista narrativo, la contraddizione più grande che emerge dal resoconto di Mark Bowden riguarda le vite e i profili dei soldati. Quella che chiama “una storia vera di uomini in guerra” è l’occasione per ricostruire le peculiarità distintive dei protagonisti dell’incursione, in particolare, come è logico dei caduti. Le identità, dalla famiglia alla scelta di approdare alla carriera militare, dalle caratteristiche fisionomiche ai tratti caratteriali trovano ampi spazi nella ricomposizione di Mark Bowden che pare però tralasciare un dato di fatto fondamentale, ovvero che l’inquadramento militare, in particolare in unità d’élite come quelle che operarono a Mogadiscio prevede una ristrutturazione standard della personalità e un inquadramento fatto di disciplina e di catene di comando lungo le quali la responsabilità personale viene diluita. Come ha ammesso lo stesso Mark Bowden, il suo “contributo è stato quello di trasformare in parole l’esperienza di combattimento, attraverso gli occhi e le emozioni dei soldati coinvolti, mescolando la loro prospettiva umana con una visione militare e politica della loro difficile situazione”: un passo decisivo per arrivare a comprendere “un’ulteriore lezione di quanto l’impiego della forza abbia i suoi limiti”. È un eufemismo e dato che “a Washington il solo odore del fallimento è sufficiente a produrre una diffusa amnesia”, il risultato finale è che “il loro combattimento non è stato né un trionfo né una disfatta, semplicemente non importava a nessuno”. Per inciso, l’età media dei guerrieri era diciannove anni.