lunedì 20 novembre 2017

Jack London

A saldo delle inclinazioni ideologiche, Jack London si è sempre schierato dalla parte degli ultimi, facendo notare che a generare la spaccatura è “la mancanza del benessere che non è mai stato creato”. Nell’assemblaggio di Il senso della vita (secondo me), la prima parte ha il tono e il ruolo del pamphlet, anche se Jack London ha ragioni da vendere quando dice che “con le risorse naturali del mondo, le macchine inventate, una organizzazione razionale della produzione e della distribuzione e una parimenti razionale eliminazione dello spreco, i lavoratori sani di corpo non dovrebbero lavorare più di due o tre ore al giorno per nutrirsi, vestirsi, pagarsi un alloggio, istruirsi e concedersi una giusta quantità di beni secondari. Non dovrebbero esistere più il bisogno materiale e le condizioni disagiate, né bambini sfruttati, né uomini, donne e bambini che vivono e muoiono come bestie. Non dovrebbe essere solo la materia a essere padroneggiata, ma anche la macchina”. Jack London è stato un precursore perché ancora una decina d’anni dopo Lewis Mumford articolava lo stesso concetto nella Storia dell’utopia: “Le macchine la cui produzione era così grande da poter vestire tutti gli uomini e i nuovi metodi e i nuovi strumenti in agricoltura che promettevano raccolti così abbondanti da poterli nutrire tutti, proprio quegli strumenti che dovevano fornire all’intera comunità i fondamenti concreti per una vita felice, si trasformarono per la maggior parte della gente, che non possedeva né capitali né terre, in qualcosa di molto simile agli strumenti di tortura”. Su questo l’America narrata in Il senso della vita (secondo me) collima con la definizione di Karl Marx: “Un paese in cui lo sviluppo industriale sia più avanzato che in altri presenta semplicemente a questi ultimi un’immagine del loro futuro”. Più avvincenti i due racconti che, collegati tra loro da un sottile filo rosso, compongono la seconda parte, Il sogno di Debs e A sud dello Slot. Il sogno di Debs, in particolare, ha una verve tutta sua: è crudo, realistico e intenso. Racconta che “per un’intera generazione lo sciopero generale era stato il sogno delle organizzazioni dei lavoratori”, e quando si manifesta lo osserva dal punto di vita di un ricco faccendiere che si ritrova, all’improvviso, a vivere senza servitù, senza agi e senza le superflue abitudini: “Fu soltanto quando arrivai al club nel pomeriggio che ebbi una prima sensazione di allarme. Regnava una totale confusione. Non c’erano olive per i cocktail, e il servizio era caotico”. Nel raccontare gli effetti dello sciopero generale che trasforma San Francisco, Jack London ribalta, con perfida ironia, gli schemi e il tratto è ancora più incisivo in A sud dello Slot, a partire proprio dalla linea di demarcazione che divide la città, ma anche le classi, è netta, per quanto invisibile. Quando Freddie Drummond, professore e ricercatore universitario, diventa Bill Totts, per capire come si vive davvero A sud dello Slot, si sdoppia in un’impossibile schizofrenia. Bill Totts alias Freddie Drummond si troverà a dover scegliere da quale parte stare, e la scelta avverrà ancora nel corso di uno sciopero. Un racconto che è complementare e contiguo a Il sogno di Debs, e per tornare a Il senso della vita (secondo me), lo è anche al richiamo che “un semplice capriccio dello spirito non può far nascere una rivoluzione mondiale”. Su questo non c’è dubbio.

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