Affrontando
con coraggio “il flusso della storia interrotto da catastrofi”
(va ricordato che Americus risale al 2004), Lawrence
Ferlinghetti celebra, una volta di più, la capacità della poesia di
promuovere “una mediazione fra noi e la realtà di ogni giorno”.
Ferlinghetti non sono percepisce quanto ne abbiamo bisogno
(parecchio), ma individua anche un ideale collocazione, dove la
poesia può funzionare da salutare raccordo perché “la nostra
memoria saccheggia il passato per fare il presente, sogna attraverso
i secoli, baratta il tempo con il tempo dei verbi, mentre la
cinepresa-occhio-segreto-della-mente rallegra e preoccupa il genere
umano (poiché la pallida agenda del pensiero ci rende tutti
codardi)”. La lucidità di questa premessa è più che sufficiente
a capire la volontà di Americus nel rendere omaggio a Charles
Olson (Maximus è una delle principali fonti d’ispirazione
per il titolo), William Carlos Williams (Paterson, in
particolare), Ezra Pound, Mark Twain, Gertrude Stein, Thomas Wolfe.
Sapendo che ciascuno è “un palinsesto del passato di tutti”, le
citazioni sanno essere implicite ed esplicite, persino allegre
quando Ferlinghetti dice che Omero è un rapper e Walt Whitman un
soulman. I continui richiami all’espressione artistica, in
generale, e a quella poetica nello specifico, riconducono comunque
alle origini, alla storia e alla colonizzazione di un continente,
l’America, vista come “il più grande esperimento terrestre con
la più grande chance di creare un essere umano più alto, un’anima
o animo incondizionati, gambe storte e sesso incerto, un tipo strambo
sulla punta avanzata della civiltà, viso pallido o mestizo a
suo agio sui due continenti d’America prodotto da molte culture e
calamità”. Dato che la poesia “serve molti padroni, non tutti
santi”, la riflessione tende a spostarsi, con un piglio maturo e
lirico, dal piano pubblico, verso un tono più personale e
crepuscolare visto che “la vita continua a rotolare” e la memoria
è “una spola fra passato e presente un treno dai finestrini
sbarrati con gli specchi spaccati”. Il refrain del tempo e della
storia ritorna come il tema in una suite jazzistica, eppure, anche
nel formato ridotto ed essenziale, Americus contiene molto
dell’idea di poesia di Lawrence Ferlinghetti, e nella sua parte
centrale elenca i tratti, le virtù, le necessità e la natura di una
scrittura la cui “funzione è smascherare con luce radiosa” e che
“appaga un bisogno e ricompone la vita”. L’incrollabile
esuberanza, nutrita da fame e passione, lo porta a decantare
quella poesia che “in quanto lingua originaria venne prima della
scrittura e ancora risuona in noi, musica muta, musica incompiuta”
e con ciò ammirando di nuovo & per sempre la primordiale unità
tra musica e poesia, Ferlinghetti si erge tra i “propagatori di
epopee velleitarie” e si fa accompagnare da Dante e Platone,
Virgilio e Socrate, Cervantes e Thoreau, Dario Fo e Jack Kerouac. Una
compagnia di ineguagliabili ciceroni che in Americus trova la
sua strada, dove la creatività è sempre in agguato, mentre la
poesia si snocciola in un flusso esotico, brillante e contagioso.
sabato 30 dicembre 2017
giovedì 28 dicembre 2017
Patti Smith

martedì 26 dicembre 2017
Joni Mitchell
Una
sorta di autobiografia si snoda in tre fitte conversazioni con Malka
Marom, a sua volta cantante trasformata in giornalista, e amica di
Joni Mitchell. L’occasione è propizia per attraversare mezzo
secolo e, da un punto di vista ideale, sono due le canzoni che
delimitano Both Sides, Now perché “se il passato e il
presente sono intrecciati, le tue azioni recenti mettono in moto ciò
che sta accadendo ora. E’ una concatenazione di eventi lunga e
misteriosa”. La prima è la celebre Woodstock il cui
ritornello (“Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo
fare in modo di tornare nel giardino”) è la dimostrazione concreta
che “si può sempre riavere la propria innocenza se si provano
sessanta secondi di stupore e incanto”. Curiose, paradossali e
rivelatrici le circostanze in cui è nato il simbolo di un’epoca
così, come le ricorda la stessa Joni Mitchell: “Non so perché
Woodstock mi commuovesse tanto. Le prime due o tre volte che
l’ho eseguita in pubblico mi sono dovuta fermare, tanto ero presa
dall’emozione. Credo fosse perché a Woodstock non c’ero andata
ma l’avevo vista in televisione, e mi era sembrata una cosa
incredibile, il fatto che in quelle circostanze la gente si fosse
aiutata a vicenda”. Un punto di non ritorno si intravede in un
verso di Come In From The Cold (l’album è Night Ride
Home e siamo già nel 1991) che dice: “Volevo soltanto entrare
a ripararmi dal freddo”. Tra questi due estremi, in Both Sides,
Now c’è tutto il senso per l’arte di una donna che ha rubato
alla vita, lottando con una sensibilità che “è guardata quasi con
disgusto dalla società, mentre è una ricchezza, dà tante
gratificazioni. Ti permette di sentire cose che gli altri non
sentono, come i cani che sentono certi suoni acuti”. Una sfida
costante, continua, laboriosa, spesso dolorosa, sempre faticosa,
contro “la nostra modernità ignorante” in una delle sue
accezioni più banali, ovvero l’industria dell’intrattenimento.
La lotta per l’originalità è uno dei temi su cui Joni Mitchell si
sofferma spesso e volentieri, sapendo che “le cose grandi arrivano
quasi sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore
è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori ti perdi la magia”.
Il confronto con una carrellata di musicisti geniali e molto poco
politically correct, che va da Jaco Pastorius a Charles Mingus, da
Bob Dylan a Leonard Cohen, le rivela che “in questa società di
specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una
dilettante”, ma forte delle letture di Kipling e Nietzsche, delle
visioni di Picasso e Van Gogh, o degli ascolti di Duke Ellington,
Charlie Parker e Lester Young, Joni Mitchell è riuscita a capire che
“se non possiamo fare a meno di guardare l’illusione, questa si
spezza. Sai sempre di star creando un’illusione, non importa quanto
ti sforzi di essere sincero”. Saperlo le è servito per costruire
un intero vocabolario emotivo che, proprio nelle canzoni, ha trovato
la sua espressione: “Uno dei miei interessi principali nella vita è
quello dei rapporti umani, delle interazioni e dello scambio di
emozioni, da persona a persona, fra individui, oppure su scala più
ampia, con un pubblico”. In questo caso specifico, che poi ha
occupato gran parte dei risultati del suo songwriting, la voce in
diretta di Joni Mitchell (“L’amore è un sentimento molto
difficile da tener vivo. E’ una pianta molto fragile, ecco. E’ un
sentimento particolare, perché soggetto a tanti cambiamenti. Il modo
in cui lo si prova all’inizio di una storia e tutti i cambiamenti
che subisce”) e quella nelle canzoni si alimentano a vicenda
(“L’amore richiede tanto coraggio, l’amore si prende tanti di
quegli accidenti” canta Face Lift) in un flusso inarrestabile che trova nelle parole di Both Sides, Now la sua definizione:
“Ormai ho visto la vita da entrambi i lati, vincere o perdere,
eppure, chissà come quel che ricordo sono illusioni, cos’è
davvero la vita non lo so”. Fin troppo sincera.
domenica 24 dicembre 2017
Terry Southern
Inseguendo
il gusto della sorpresa, dello scherno, dello sberleffo, Il grande
Guy incarna uno spirito dispettoso e tormentato, che si diverte a
irretire, provocare, stuzzicare e spargere zizzania, tutto in nome
del denaro, che deve sborsare per rimediare ai danni dei suoi
scherzi. Mecenate facoltoso e visionario, con interessi diversificati
e risorse economiche a quanto pare illimitate, Guy Grand è annoiato
e turbato da quello che è diventato e guardando i suoi colleghi di
tante scorrerie finanziarie, si vede come “un riflesso della loro
stessa pochezza: membro di club, personaggio da invitare a pranzo,
una minaccia, un uomo la cui società rappresentava una promessa e
insieme un pericolo”. A quel punto cominciano tutti gli scherzi che
costituiscono la trama e la spina dorsale del breve romanzo di Terry
Southern e che mettono alla prova molti luoghi comuni: proietta film
rallentati e al contrario, paga dei pugili per interpretare la boxe
in una chiave davvero inedita e se ne a caccia con un obice da
settantacinque millimetri, un’arma impropria perché il rinculo lo
sbalza a dieci metri “dove arrivava come uno straccio, ovviamente
privo di sensi”. Un colpo è sufficiente a mettere in fuga tutta la
selvaggina, e così finiscono anche i safari del grande Guy. Ogni
volta le rappresentazioni di quello che, in effetti, è un mondo al
contrario, generano stupore, imbarazzo, disorientamento, soprattutto
perché non sono chiari i motivi che spingono Il grande Guy a
dilapidare una fortuna in quel modo. Finché, di fronte all’ennesima
provocazione, qualcuno si chiede: “E se si trattasse di una sana
satira dei mass-media?”, domanda si adatta alla perfezione
anche per il romanzo in sé. Comunque sia, Il grande Guy
continua imperterrito e ogni volta alza il tiro, fino alla creazione
di una crociera su una nave di follie, una specie di sontuosa parodia
del Titanic, e alla generazione, nel capitolo conclusivo, di una
caricatura degli sconti commerciali che scatena orde di famelici
consumatori in cerca del negozio più conveniente, che nel frattempo
è sparito o si è trasferito dall’altra parte della città. E’
quello che lascia credere il perfido meccanismo studiato da Guy
Grand, almeno le folle ipnotizzate dai pressi impensabili “così
potevano concludere che non si era trattato di un sogno, non solo, ma
che il miracolo era ancora in corso”. La feroce ricostruzione di
una società votata ai consumi e all’avidità è sempre mitigata
dall’ironia e dalla una leggerezza, anche naïf,
volendo, di Terry Southern, sempre disposto a un tono
accondiscendente, colloquiale, poco spigoloso, umoristico, come è
nella tradizione di Mark Twain o del contemporaneo Richard Brautigan.
Terry Southern, in realtà, ha però una percezione critica e
caustica che filtra nelle battute e negli aneddoti di Guy Grand che
induce a una seria riflessione sulla concezione stessa del libero mercato,
che, proprio nella sua natura, è “capriccioso”. Un modo di dire
la verità, ovvero che è molto pericoloso, con una congrua dose di
senso dell’umorismo, non a caso, la cifra finale che definisce Il
grande Guy.
giovedì 21 dicembre 2017
Andre Dubus
Quando
Blind Boy Grunt alias Bob Dylan cantava The Death Of Emmett Till,
rileggeva un drammatico episodio dell’agosto 1955, avvenuto nel
Mississippi: di fatto un linciaggio rimasto senza colpevoli, che, con
il suo grave senso di ingiustizia, ha segnato uno spartiacque nella
discriminazione razziale. Uno dei versi di The Death Of Emmett
Till riassumeva così l’amarezza e il disorientamento di fronte
a quello spietato omicidio, e alla sua ambigua e tragica coda: “Se
non dite niente davanti a una cosa come questa, contro un crimine
così ingiusto, allora i vostri occhi sono pieni della terra dei
cadaveri e la testa l’avete piena di polvere”. Sono parole che
tornano spontanee quando, nelle discussioni dei protagonisti di Le
morti in mare (il primo racconto di Un’ultima inutile
serata), riappare il fantasma di Emmett Till. Gerry viene dal
bayou, è cattolico, con ascendenze francesi, mentre Willie è
afroamericano e arriva da Philadelphia. Insieme si trovano a
condividere una cabina sulla portaerei Ranger in qualità di
ufficiali della marina degli Stati Uniti. La fragile armonia che si
sviluppa tra loro viene messa a dura prova da un flusso continuo di
alcol, incidenti verbali, scontri fortuiti, finché Gerry non ammette
il disagio: “Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni.
Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di
visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la
nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò
che per la maggior parte di noi è il mondo, noi stessi”. Non è
solo per la condizione notturna che Le morti in mare determina
la natura dei racconti che seguono. E’ come se i racconti si
incastrassero uno nell’altro, per via di alcuni temi ricorrenti,
dalla guerra del Vietnam (la portaerei Ranger, infatti, è
stata una delle principali navi impiegate in quel conflitto) che è
il substrato, con un sentore di sconfitta bruciante, di Vestito
come foglie d’estate alle contraddizioni del melting pot
americano che emergono di nuovo in Dopo la partita e, in
parte, in La terra dove sono morti i miei padri. E’ un
racconto dove prendono forma persino dei contorni noir, a sua volta
collegato a Le morti in mare perché entrambi sono imperniati
attorno a un omicidio, per quanto in gran parte accidentale. Senza
alcun timore, Andre Dubus prosegue come se non avesse paura del
dolore, non temesse l’ignoto e con Molly e Rose, due
racconti tra i suoi più belli e dolenti in assoluto, mostra, una
volta di più, una spiccata sensibilità per i ritratti femminili. Il
quadro dell’adolescenza di Molly, alla spasmodica ricerca di
quella sensazione “che si prova quando ci si sente amati”, si
scontra con l’avviso della madre, Claire: “Quando non sei amata,
è peggio che fare parte di una folla. E’ come se non avessi più
corpo. Diventi astratta: c’è solo la tua voce dentro di te che ti
parla, e ti senti come se non occupassi neppure lo spazio su cui
poggi i piedi, come se fossi senza peso. Sei in un punto sulla terra,
ma i tuoi piedi sono in aria”. Questo, a tutti gli effetti, è
l’avvio al passaggio successivo: Rose è un racconto
straziante, dove, con l’intercalare degli aneddoti nel corpo dei
marines, si sprofonda nella cupa (e violenta) dissoluzione di una
famiglia in cui la protagonista, (la stessa Rose), arriva al punto in
cui non può tornare indietro. Una condizione tipica, tra l’altro,
dei racconti di Raymond Carver, la cui stima per Andre Dubus è nota.
Il lettore è avvisato perché “se diamo tutto ciò che si può
dare”, come cantava ancora Bob Dylan in The Death Of Emmett
Till, è facile varcare la soglia dell’imprevedibilità e
scoprire che, in effetti, anche la realtà “è tutto un mistero”.
Con Andre Dubus succede perché è uno scrittore generoso, che rimane
nell’ombra e lascia avanzare i suoi personaggi, ma non di meno ne
condivide i drammatici destini, come se fosse lì, con loro, cercando
di capire dove può spuntare la luce in fondo a Un’ultima
inutile serata.
venerdì 15 dicembre 2017
Larry McMurtry

mercoledì 13 dicembre 2017
Charles Simic
La
nutrita selezione di poemi che compone Hotel
Insonnia rappresenta l’antologia
ideale per compiere un primo passo verso la conoscenza di Charles
Simic. Ci sono versi che vanno da Macelleria
del 1971 (“Qualche volta cammino a
notte fonda e mi fermo davanti a una macelleria chiusa. C’è solo
una luce nel negozio, la luce del forzato che scava il suo tunnel”)
al 1999 con Il topo nella radio
(“Dopo gli ultimi notiziari, prendi coraggio, per grattare un paio
di volte alla parete del tuo nascondiglio. Ora che le luci sono
spente, avverti il freddo, la desolata solitudine, e così porgi il
tuo quesito, o forse un saluto sentito? E resta la notte, senza
stelle, interminabile e in ogni caso senza traccia di pietà”)
nonché un’appendice di tre poesie (Gli
scritti dei mistici, Madonne
ritoccate con il pizzo e Nel
mezzo) risalenti alle sue prime
esperienze letterarie. La poesia di Charles Simic è una “spiegazione
parziale” fatta soprattutto di immagini: un Sasso,
le Angurie,
un Mozzicone di matita rossa,
una Forchetta,
un Muro,
dove “un incredibile mondo multiforme che accerchia da ogni lato”
viene riletto attraverso liriche brevi, schegge perfezionate con un
lavoro di intaglio certosino, che punta a sottolineare e a
evidenziare le sporgenze e le asperità e nello stesso tempo ad
armonizzarle. La frammentarietà (come scrive in San
Tommaso d’Aquino: “Ho lasciato
pezzi di me ovunque”) non impedisce a Charles Simic di avere una
visione completa di un mondo dove gli oggetti prendono vita, dove
“specchi & miracoli” sono, in effetti, gli strumenti per
capire, come scriveva ancora in La
vita delle immagini, che “tutti
noi siamo una sintesi di realtà e irrealtà. E tutti noi indossiamo
una maschera. Perfino dentro la nostra mente tentiamo di continuo di
nasconderci a noi stessi, solo per essere ripetutamente smascherati”.
Nel corso di Hotel Insonnia,
che non nasconde la sua precisa collocazione temporale nelle
intemperie della seconda metà del Novecento, Charles Simic si
concede spesso a volto scoperto. Succede in Scena
di strada (“Questo secolo strano,
con la sua strage degli innocenti, e il volo sulla luna, ora mi sta
aspettando, in una città strana, nella via in cui mi sono perso”)
e ancora di più in Leggere la storia
dove confessa: “A volte, quando leggo in biblioteca, intravedo i
condannati a morte dei secoli passati, e i loro carnefici. Me le vedo
davanti quelle pallide facce, come succede a un giudice che legga la
sentenza, e provo meraviglia al pensiero che ancora non esisto”. E’
proprio lì che convivono una dimensione intima, introspettiva,
persino onirica e una più scrupolosa, attenta e “politica”. Non
a caso Leggere la storia è dedicata
a Hans Magnus Enzesenberger, che potrebbe spiegare così quel
delicato equilibrio: “Ora, non si può certo far parte di tutto
ovunque, mi dico, stringo i denti e continuo a leggere”. E’ un
destino condiviso con Charles Simic che, nell’appendice di Hotel
Insonnia, svela le fonti primarie
della sua poesia: “Non esagero quando dico che non posso nemmeno
pisciare senza un libro in mano. Leggo per addormentarmi e per
svegliarmi. Ho sempre letto al lavoro, in tutti i lavori che ho
fatto, nascondendo il libro tra le carte sulla scrivania o nel
cassetto mezzo aperto. Anche nella mia bara aperta, un giorno,
reggerò un libro. Il libro tibetano
dei morti sarebbe molto appropriato,
ma preferirei un manuale sul sesso o le poesie di Emily Dickinson”.
Un’abitudine che non ha controindicazioni o effetti collaterali, se
non la crescita spontanea di una rara sensibilità.
martedì 5 dicembre 2017
Paul Hoover

venerdì 1 dicembre 2017
Robert Palmer

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