lunedì 29 ottobre 2012

Kurt Vonnegut


"La tecnica del gatto oltre il muro”, un dettaglio del racconto da cui prende il titolo questa brillante raccolta, potrebbe essere benissimo la metafora del metodo che anima le prime e inedite short stories di Kurt Vonnegut. E’ l’imprevedibile e l’imponderabile, proprio quello che succede al felino sparato in aria (e a chi sta nella zona di atterraggio dall’altra parte), che determina i temi, le trame, i terremoti nelle vite dei personaggi di Guarda l’uccellino. In funzione di quella singolare variazione che spesso è un rebus e insieme la sua soluzione, Kurt Vonnegut mischia soluzioni, idee e stili, senza soluzione di continuità. E’ la forza della storia in sé che deve sostenersi da sola e questa è l’unica caratteristica comune a tutti i quattordici racconti di Guarda l’uccellino. Alcuni sono diamanti grezzi come Gridalo dai tetti o Il re e la regina dell’universo: partono da presupposti ingombranti che poi vengono tranciati da finali sorprendenti. In effetti potrebbero già contenere interi romanzi, e viene il dubbio che sia quella la loro origine. Altri sono perfetti, sia che giochino con il fantastico (come Il tagliacarte, un frammento che raduna tutto quello che può servire a confezionare un breve racconto) sia che rimangano incollati alla realtà come Parola d’onore o il toccante  Ciao Red. Gli estremi sono il primo e l’ultimo dei racconti di Guarda l’uccellino. Confido ruota attorno a “una scoperta più grande della televisione e della psicoanalisi messe insieme, che di soldi ne fanno a palate” ed è è geniale, se non proprio profetico, nel raccontare le deformazioni della vita dalla seconda metà del ventesimo secolo in poi, con un piccolo artificio dell’immaginazione. Una buona spiegazione svela invece cosa succede nei giardini segreti di un matrimonio, quando le parole che non sono state pronunciate pesano più di quelle dette. Confido e Una buona spiegazione racchiudono una popolazione di personaggi legati a vite anonime che vengono travolte da un mistero o da un segreto o dall’improvvisa apparizione di un’incognita. E’ quello che succede anche all’impiegato orwelliano di Fubar (termine che significa “a tal punto incasinato da essere irriconoscibile”). Relegato in un ufficio che più marginale non si può, condizionato dall’assistenza alla madre anziana e malata, il travet si sente “un padrone di casa alla festa più lunga e noiosa che si possa immaginare” fino a quando non gli presenta la nuova segretaria, una ragazza avvolta in “una scintillante costellazione di bigiotteria”. Tra i due scatta qualcosa che rimane sospeso in “quella sensazione complessiva di essere bloccati dalla nebbia che viene spesso scambiata per amore”, condizione che è piuttosto diffusa tra i personaggi di Kurt Vonnegut. Resta da dire proprio di Guarda l’uccellino un racconto di quattro-pagine-quattro che sublima i contorni noir di molte di queste storie. E’ un Vonnegut d’annata: pungente, incalzante più che mai, al lettore chiede pochissimo e lo lascia in compagnia di una selva di punti di domanda, che poi è quello che dovrebbe fare la letteratura.

sabato 27 ottobre 2012

Lawrence Ferlinghetti


Forse per i trascorsi legati all’attività di editore, o per la sua multiforme percezione dell’esperienza artistica, la poesia di Lawrence Ferlinghetti è sempre scivolata a un millimetro di distanza da quella di Allen Ginsberg, Gregory Corso o Jack Kerouac. L’occasione è sempre propizia per ripristinare la giusta dimensione, allineando Lawrence Ferlinghetti ai suoi amici e compagni d’avventura. Intanto, va ricordata una comune e condivisa attitudine alla poesia che proprio nell’epigrafe iniziale di A Coney Island of The Mind, Ferlinghetti riassume così: “Come poeta, a volte mi immagino ancora nei panni di un reporter onnisciente venuto dallo spazio, che invia i suoi dispacci a un caporedattore supremo convinto della necessità di rappresentare senza censure le tragicomiche pagliacciate di quelle creature bipedi note col nome di esseri umani”. La poesia di Ferlinghetti, che in A Coney Island of The Mind raggiunge una delle sue migliori espressioni, ha i tratti della pennellata precisa, senza esitazioni, convinta e istintiva ed è quella la sua bellezza estrema: parole schizzate a getto continuo e ispirate dalla gamma di colori, di immagini e di forme di Chagall, Bosch, Goya, Picasso e Brancusi. Vivide, intense, colorite, imprevedibili, naturali e spontanee, improvvisata seguendo coordinate jazzistiche, le liriche di Ferlinghetti si trasformano spesso in lunghe suite che hanno tutta la forma di intense odi, come è Io aspetto, forse lo snodo centrale A Coney Island of The Mind. Vitale nel suo essere attaccata alla vita quotidiana, nel ribaltare uno dopo l’altro tutti i luoghi comuni americani (“Siamo le stesse persone, ma ancora più lontane da casa, su autostrade a cinquanta corsie, su un continente di calcestruzzo, scandito da melliflui manifesti pubblicitari, che illustrano imbecilli illusioni di felicità. La scena mostra meno carri di condannati a morte, ma più cittadini scoppiati in auto dipinte, e hanno targhe strambe, e motori che divorano l’America”) la visione A Coney Island of The Mind è quella di tutte le altre voci della Beat Generation, “una specie di circo dell’anima” la cui connotazione ha i lineamenti della dissociazione, della ribellione, del dissenso e della profezia. Ferlinghetti la rende esplicita aggiungendo una nota di particolare chiarezza agli intenti del suo personale manifesto: “Un’altra alluvione sta per arrivare anche se non del tipo che ti aspetti. C’è ancora tempo per colare a picco e per pensare. Voglio regredire in questa società. Voglio essere come se fossi libero. Scendi a prendermi dolce cocchio. Non aspettiamo che le Cadillac ci portino in trionfo nell’interno facendo cenni di saluto agli indigeni come senatori romani nelle province portando l’alloro dei poeti sulla fronte illuminata”. Qui la strada è rischiarata da Dante e Kafka, René Char e Walt Whitman, Ezra Pound e Charles Dickens, Melville e Thoreau, e poi da Yeats, Keats e infine da Henry Miller che ha ispirato il titolo, ulteriore conferma che dietro una grande scrittore c’è sempre un insaziabile lettore. 

martedì 23 ottobre 2012

Trevianan


Nicolaj Hel, sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, ai servizi segreti americani, sovietici e cinesi coltiva l’idea dello shibumi in un castello basco, dedicandosi al suo giardino musicale, alla concubina, alla speleologia e ai picareschi amici che lo circondano. “Shibumi allude a una grande raffinatezza sotto apparenze comuni. E’ un’affermazione che non ha bisogno di essere ardita, così acuta che non dev’essere bella, così vera che non dev’essere reale. Shibumi è comprensione più che conoscenza. Silenzio eloquente”: questa è la definizione dello stato di grazia, per semplificare e abbreviare, che va cercando Nicolaj Hel. Dal suo punto di vista, ne ha avuto abbastanza e ha deciso di ritirarsi e si è convinto che “una volta isolato dal futuro, il passato diventa una parata insignificante di banali avvertimenti, non più organici, non più possenti o dolorosi”. Il suo karma e il suo codice d’onore invece gli dicono qualcosa di diverso, e che non gli piace, attraverso l’arrivo di Hannah Stern, sopravvissuta a un massacro all’aeroporto di Roma, peraltro sventagliato fin dall’incipit. Nicolaj Hel è la prima volta che vede la ragazza: impreparata, volitiva, più incosciente che coraggiosa, e ormai disperata. Conosce da anni lo zio, Asa Stern, con cui ha condiviso alleati e nemici e a cui è legato da un antico debito, quanto basta per accantonare senza particolari esitazioni la sua vocazione allo Shibumi e affrontare, insieme al suo passato, le ingerenze di un mondo avvinghiato a interessi economici, politici e militari di cui ormai non si non si percepisce più nemmeno il perverso disegno perché, parole sacrosante, “abbiamo a che fare con mentalità mercantili e militari, e la stupidità è il loro idioma intellettuale”. L’azione è colorita, rapida, spumeggiante (anche un po’ fumettistica, che non guasta) e anche le parti più riflessive sono accattivanti, con le proiezioni di Nicolaj Hel e il suo continuo inseguimento verso lo Shibumi. Il tono è giocoso senza essere superficiale, ironico quanto basta, leggero ed effervescente nella forma e comunque denso di piccoli e grandi riferimenti, distributi a ogni svincolo della trama  rendono la scrittura invitante, avvolgente e convincente. Trevianan alias Rodney William Whitaker non cerca particolari forme o evoluzioni stilistiche: ha il gusto per il dettaglio insolito, un’ironia strisciante, anche una spiccata vena polemica perché la trama è costruita per intrecci e sovrapposizioni, un concatenarsi di eventi personali e storici, su cui non manca mai una nota dissonante. Nel resto è accomodante e cordiale con il lettore come Nicolaj Hel con i suoi ospiti per poi riservare colpi di scene e sorprese a ripetizione. Shibumi è una spanna sopra l’intrattenimento, una spy story di gran classe, che si legge senza particolari sforzi e con soddisfazione tanto che, una volta chiusa l’ultima pagina, si sente la mancanza di Nicolaj Hel, della sua dieta (da cui sono esclusi gli ospiti), della sua filosofia, e anche delle sue contraddizioni (perché è molto umano, nel suo essere fin troppo speciale). 

lunedì 22 ottobre 2012

Ray Bradbury

Questa raccolta di Saggi su passato, futuro e tutto ciò che sta nel mezzo, pur nella sua caotica essenza, costruita articolo dopo articolo, rubrica dopo rubrica, “procedendo alla cieca, correndo a perdifiato, buttando giù i pensieri così come arrivano”, e sono parole dello stesso Ray Bradbury, apre uno squarcio vitale sul mondo di uno scrittore e di un lettore unico. Anche se molte selezioni, trapiantate dal contesto originario, dove avevano un senso più specifico e (anche) un’altra vita, appaiono piuttosto distanti o estranee alle coordinate di Troppo lontani dalle stelle, Ray Bradbury è sempre entusiasta ed è questa la componente più rilevante: può essere un incontro (memorabili quelli con Walt Disney o Bertrand Russell e la moglie), uno spunto polemico (e ce ne sono parecchi) o un ricordo e qualche che sia il taglio dell’articolo, del saggio, della rubrica, la sua verve è sempre trascinante, spinta dalla passione, dal gusto, dalla curiosità. I temi sono tra i più disparati: dal trasporto con cui racconta l’essenza americana delle ferrovie in Ogni amante dei treni è mio amico alle descrizioni di Parigi e Los Angelese, “città di quarzo” che Ray Bradbury riassume, per François Truffaut in “quasi ottocento chilometri quadrati di illuminazione metropolitana, un’enorme distesa, un panorama oceanico di energia elettrica”, la prosa è sempre immaginifica, accattivante, immediata. E’ anche molto pungente quando dice che “noi siamo il prodotto finale di fallimenti su fallimenti sfociati in un prodotto finale che è la sopravvivenza dell’uomo” ed essendo Troppo lontani dalle stelle, ormai incapaci di inventare altri viaggi o nuove direzioni, “noi riempiamo il vuoto con la nostra attenzione. Noi vediamo, ascoltiamo, tocchiamo, sappiamo”. Sarà per quello che Ray Bradbury riscrive i finali dei film (il legame con il cinema è uno dei canali sotterranei che imperversa e annoda le singole parti di Troppo lontani dalle stelle) e combatte con una divorante attrazione per la letteratura: “Kipling, Dickens, Wilde, Shaw, Poe” sono i punti di riferimento e poi Moby Dick (forse più di tutti perché sembra coltivare una venerazione per Melville) e infine Jules Verne con la sua percezione del futuro. Ed è qui che l’americano Ray Bradbury sa essere ancora più eloquente che altrove. L’America, è inutile nasconderlo o cercare di negarlo, è sempre stata l’interprete principale del futuro, il modello proiettato in avanti, il profilo sfuggente e veloce, più veloce di tutti gli altri. Ray Bradbury sembra intuire, capire, conoscere la dimensione fallimentare di quel’avvenire, i retroscena e le parti in ombra, le imperfezioni maledette, le ferite profonde dentro i sogni di gloria. Una visione nitida, chiarissima e tagliente una vera e propria perla scintillante racchiusa nel guscio frastagliato di Troppo lontani dalle stelle. L’opulenza della disperazione: l’America attraverso lo specchio è un capolavoro, un cahier de doléances lucido, duro, preciso e incazzato. Per quello che dice, per come lo dice. 

mercoledì 17 ottobre 2012

Jon Krakauer

Come ricordava Henry David Thoreau, “siamo dei crociati miserabili” e deve essere stata anche la prima, intima considerazione che ha fatto Alexander Supertramp alias Christopher McCandless alias e fa capire anche perché ha scritto i suoi diari in terza persona come se, non solo si sentisse un estraneo davanti alla wilderness, ma fosse straniero anche a se stesso e ai ponti e ai legami che si è tranciato alle spalle. La sua storia (vera), raccolta non senza fatica da Jon Krakauer, è diventata Nelle terre estreme e a sua volta il libro si è trasformato in Into The Wild, il film di Sean Penn che, incuriosito dall’immagine e dagli strilli in copertina, l’ha preso e l’ha letto e riletto in una notte. La “disobbedienza civile” di Christopher McCandless in apparenza radicale e rivoluzionaria è frutto di una lunga e consolidata tradizione americana: le direzioni della partenza, verso ovest, verso nord dovrebbero essere indizi sufficienti per far collimare un’antica vocazione alla frontiera con altri orizzonti intravisti tra le righe dei libri di Jack London prima e Jack Kerouac poi. Proprio come un’ultima, incosciente scintilla di quell’esuberanza, e ormai diventato Alexander Supertramp, non si accontenta di un viaggio, dei suoi imprevisti, degli incontri, delle sorprese e di un ipotetico ritorno a casa. “Un uomo è beat ogni volta che rischia il tutto per tutto” diceva John Clellon Holmes e la svolta matura proprio “on the road”, rinunciando al denaro, all’automobile, al lavoro, in fondo persino alla propria identità, per diventare parte di un’utopia più grande, dove la libertà, o soltanto una speranza di sfiorarla, è legata in modo indissolubile alla vita (e alla morte) Nelle terre estreme. Anche nella forma rivista e corretta da Jon Krakauer, i grezzi diari di Alexander Supertramp sono la cronaca di chi si crea un destino, piuttosto che subirlo, e costi quel che costi. Quando ripete nei suoi ultimi messaggi la volontà di “entrare nella natura” è qualcosa in più e di diverso di un ritorno a casa, e va ricordato Simon Schama quando scriveva che “la wilderness, dopo tutto, non colloca se stessa in nessun luogo, non si assegna nessun nome”. Non c’è niente di esotico o di esoterico nel complesso viaggio di Nelle terre estreme e la conclusione, più che il finale, è quella giusta perché rimette ordine e ripristina un senso: mostra con lucidità che, non solo siamo parte della natura, ma che ne siamo anche la parte malata o, come diceva William Burroughs, siamo il virus che distruggerà ogni forma di vita sulla terra. Aggiungendoci la deformazione di chi ha il coraggio di sostenere che il clima è peggiorato, i ghiacciai si stanno sciogliendo, il mondo sta andando a puttane, come se fosse colpa delle montagne o dei fiumi o degli alberi. Quando poi, tutto quello che riesce a pensare il genere umano è di cambiare la macchina vecchia con quella nuova, anche se, come fa notare Christopher McCandless in un significativo passaggio all’inizio del suo viaggio, funziona ancora benissimo.

mercoledì 10 ottobre 2012

Philip Roth

Le Chiacchiere di bottega di Philip Roth con i suoi illustri colleghi e colleghe (Bernard Malamud, Isaac Bashevis Singer, Edna O’Brien, Primo Levi, Milan Kundera, Ivan Klíma, Mary McCarthy, Aharon Appelfeld, Saul Bellow) hanno una natura camaleontica e si mimetizzano in forme diverse in funzione della natura dell’incontro e dei legami che lo generano. Può essere un semplice scambio epistolare, come la corrispondenza con Mary McCarthy, dove i voli pindarici dei due scrittori si attorcigliano intorno ai dettagli della circoncisione, in una discussione esclusiva e un po’ cerebrale. Il più delle volte le Chiacchiere di bottega nascono da un’idea di intervista che di volta in volta assume profili unici e particolari. L’incontro con Primo Levi, nei meandri di una fabbrica torinese, si evolve in un colloquio analitico. Philip Roth, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è un interlocutore puntuale, scrupoloso e meticoloso, tanto è vero che a precisa domanda, Primo Levi introduce la sua risposta così: “Più che una domanda, è una diagnosi”. Altrove il confronto è più immediato e spontaneo: negli incontri con Ivan Klíma (“A volte dubito che sia ragionevole rimanere in questa miseria per il resto della nostra vita”) e Milan Kundera (“Un romanzo non afferma niente; un romanzo cerca e pone delle domande”) emergono affinità e divergenze e anche una sottile differenza dovuta alle opposte condizioni in cui gli scrittori si sono trovati a proporre e difendere il proprio lavoro. Dalla clandestinità all’esilio, Milan Kundera dice: “Io invento storie, le metto a confronto l’una con l’altra e in questo modo pongo delle domande. La stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per tutto. La saggezza del romanzo deriva dall’avere una domanda per tutto”. Dall’altra parte Philip Roth sembra rispondergli con una reazione istintiva: “Credo però che anche in una cultura come la mia, in cui nulla viene censurato ma dove i mass media ci inondano di vacue falsificazioni delle questioni umane, la letteratura sia un salvagente, anche se la società non sembra rendersene molto conto”. Con l’ombra incombente di Kafka, il più citato e un punto di riferimento per tutti, le Chiacchiere di bottega si sviluppano nell’intenso ritratto di Bernard Malamud, nella conversazione di New York con Isaac Bashevis Singer a proposito di Bruno Schulz, nel confronto con Edna O’Brien e con Aharon Appelfeld che ha il pregio di sintetizzare un valore comune a tutti, Philip Roth compreso: “Descrivere le cose come sono accadute significa rendersi schiavi della memoria, che nel processo creativo è solo un elemento di secondaria importanza. Per me creare significa ordinare, scegliere e smistare le parole, e trovare il ritmo adatto all’opera”. Le uniche eccezioni sono il ritratto di Guston, pittore che dedicò alcune tavole a Il seno di Philip Roth e la parte conclusiva delle Chiacchiere di bottega  dedicata a Saul Bellow che, più di una rilettura, sembra essere un omaggio, quasi un inchino all’uscita di scena di un grande maestro. 

lunedì 8 ottobre 2012

Gay Talese

Quando Gay Talese pubblicò (per quattro milioni di dollari di anticipo, e complimenti) La donna d’altri, frutto della sua “inchiesta sulla crescente tendenza americana all’infedeltà e alla sperimentazione sessuale” aveva ben chiaro che aveva toccato i nervi scoperti (e costituzionali). Si parla di pornografia, soft e/o hard, fino a un certo punto e diventa una questione pubblica che riguarda chiunque, chi si masturba e chi non legge Playboy perché si arriva alla ricerca della felicità e alla libertà di espressione. Nel 1980, anno della prima edizione, non era così evidente e La donna d’altri si attirò la solita valanga di polemiche sterili. Un anonimo recensore, Robert Coles lo comprese meglio di chiunque e la sua sintesi è perfetta per introdurlo: “Talese è seriamente interessato a osservare il suo prossimo, ad ascoltarlo e a riferire in modo sincero ciò che ha visto e sentito. La sua prosa è nitida e misurata. L’autore ha il dono, con una parola qua, una frase là, di evidenziare importanti nessi letterari e storici. Il libro, in effetti, consiste di una serie di storie ben narrate che, prese nel loro complesso, trasmettono un chiaro messaggio sociale: la metamorfosi radicale verificatasi nella sessualità americana durante gli ultimi due decenni”. Gay Talese riesce a superare la cortina della superficie patinata e anche l’apparenza degli scandali e della baruffe. E’ un cronista che affonda nella storia: il sesso e la pornografia diventano relativi più ci si addentra nella sua ricostruzione. Se, almeno all’inizio, il dilemma riguarda la soddisfazione onanistica e il mercato che si è sviluppato attorno, poi diventa argomento di diritto, una rivoluzione che incrocerà l’industria di Playboy con gli ancheggiamenti di Elvis,  la logorrea di Lenny Bruce e i libri di Henry Miller, le comunità nudiste e i centri massaggi. L’ipotesi è molto precisa: il sesso, l’ossessione per il sesso, e la pornografia non sono stati grimaldelli per vanificare gli sforzi di creare una civiltà. Sono state le occasioni per vericare il comportamento di quella civiltà in funzione della sua evoluzione e delle leggi ovvero dei valori che si era data. E’ sufficiente ricordare che anche Walt Whitman, a suo tempo venne considerato uno scrittore “indecente”, o far notare come Hugh Hefner incarna alla perfezione l’ideale all american del self made man. Il responso è contraddittorio perché gli scontri (e i caduti, e va ricordato almeno Wilhem Reich) sono stati tanti, così come, d’altra parte, le conquiste: La donna d’altri finisce in un’aula di tribunale, davanti alla corte suprema, che poi è solo l’ultima tappa di una lunga teoria di dibattimenti processuali, Sono più le sconfitte ricevute dagli appelli al primo emendamento della costituzione americana, delle vittorie, eppure una sentenza dopo l’altra viene certificata, anche nella sua negazione istituzionale, l’esigenza e l’esistenza di un modo diverso di vivere la sessualità. La donna d’altri è aggiornato nelle biografie dei principali personaggi e nella nota dell’autore in al 2009, anche se Gay Talese sfiora appena il marasma incontrollabile della pornografia in rete, ma è nel suo stile: altro mondo, altro tempo.

giovedì 4 ottobre 2012

Charles Bukowski

Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze è una ricca antologia di racconti e frammenti inediti, di “taccuini di un vecchio sporcaccione” e primi tentativi di dare forma alle “storie di ordinaria follia”, di prefazioni e recensioni e invettive che portano la firma del Bukowski più volitivo, rissoso, irascibile, tenero, comico, irriverente e sboccato, tutto insieme. Un maestro della vita giorno per giorno: non c’è scadenza o appuntamento che regga, una volta procrastinato all’infinito l’incubo della sveglia mattutina. Il suo tran tran è dedicato a quelle piccole e irrinunciabili esigenze che lo distinguono dal resto dell’umanità e nello stesso tempo lo rendono così umano: bere, amare (“Se togli l’amore, la metà del lavoro di un artista fallisce”) e scrivere a cui dedica qualcosa di molto simile a una preghiera: “L’atto di scrivere la parola è un atto miracoloso, la grazia salvatrice, la fortuna, la musica, quello che fa andare avanti. Mette in ordine tutto, chiarisce le stronzate, salva il culo a te e a molti altri. Se per caso arriva la fama grazie a questo, devi ignorarla, devi continuare a scrivere come se il tuo prossimo verso fosse il primo”. Se ha un pregio (e ne ha parecchi) Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze è quello di ricordare come Bukowski abbia costruito con costruito con maniacale devozione il suo personaggio, attenendosi con scrupolo millimetrico ai suoi lineamenti, senza cedere alla tentazione di cambiare attitudini e abitudini e anzi rivendicando il suo stare sul presunto lato sbagliato della vita e della strada perché tanto “giusto non è bello. Giusto è sinonimo di noia”. Il dogma chiarisce senza dubbi perché Bukowski non chiede mai permesso: uno apre le pagine di Scrivo poesie solo per portarmi a letto e si ritrova proiettato nella giornata di Chelaski, primo degli alias bukowskiani, senza poter concepire una via di scampo, un appiglio, uno svincolo che lo porti altrove, lontano dai bassifondi di Los Angeles e rimane invischiato nell’irrarrestabile sproloquio e travolto da uno tsunami di birre e vino da quattro soldi e sesso (“Per me, il sesso è bello e necessario, come il cibo, il sonno, la musica, la creazione, tutte cose che ti aiutano a vivere bene”). Riguardo allo scrittore, la ricchezza di Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze sembra sostenere invece l’opinione che Fernanda Pivano andava proponendo, a dispetto dell’immagine pubblica portata a spasso dal suo personaggio. Era convinta che Bukowski fosse un grande lavoratore, attaccato alla macchina da scrivere non meno che alla bottiglia. Un’idea che trova qui, tra una sbronza e una scopata, molti punti d’appoggio, soprattutto nell’etica, tutta sua e molto blue collar, con cui Bukowski si applicava alla scrittura: “L’uomo medio spreca otto ore per tornarsene a casa abbattuto e soddisfatto. Per lo scrittore non c’è mai soddisfazione; c’è sempre il prossimo lavoro che deve essere fatto”. Dietro la scorza ruvida, c’era un poeta convinto che metà di un artista è amore, e il resto conta sì e no.

mercoledì 3 ottobre 2012

Henry Miller

Parigi è Parigi e “New York è un acquario”, ed è difficile districarsi tra “salamandre giganti e dipnoi e viscide cernie dai denti sporgenti e squali con pesci pilota a prua e a poppa. Se guardi nell’acquario vedi nuotare quei mostri rigonfi. Ogni tanto vedi una scardola, o una perca, o un merlango. Ogni tanto vedi un pesce pagliaccio. Ma perlopiù sono salamandre giganti e lumaconi e quelle murene viscide e verdi e scivolose che si insinuano tra le rocce e si leccano la coda”. New York è New York, una metropoli, uno stato, l’America e “l’America sembra nuova perché non c’è mai un elemento di paragone. L’America in realtà non esiste! Non sono che milioni di cose scollegate una dall’altra, o meglio collegate solo in quanto una parte di una macchina può esser collegata a un’altra parte”. Parigi è Parigi, “un grosso globulo che nuota nel sangue di quel grande animale che chiamano uomo” e nell’atmosfera francese la decadenza, il deterioramento, come qualsiasi processo chimico, è vitale: “Le cose marciscono e in questo rapido marcire l’ego si seppellisce come un seme e rifiorisce”. Henry Miller è in mezzo all’Atlantico quando scrive queste impressioni nel suo rapporto epistolare con Alfred Perlès, uno degli scrittori intrappolati dalla magia della Ville Lumière. E’ il 1935, Tropico del Cancro è un oggetto del desiderio che viaggia clandestino (ci vorranno quasi trent’anni prima che venga pubblicato in America) e Henry Miller è sempre più convinto che “qualcuno deve lanciare una chiave inglese nel meccanismo”. Di possibilità nella tratta Parigi-New York andata e ritorno ce ne sono un’infinità: il tono è colloquiale, immediato, intenso, senza mediazioni come se Henry Miller, invece di scrivere una lettera al suo compagno di avventura, stesse comunicando le proprie intenzioni en plein air al mondo intero. Un flusso inarrestabile, disordinato nell’esposizione, travolgente nella forma, polemico nella sostanza, anche se le richieste  e le aspirazioni di Henry Miller, nonostante l’enfasi e la ricchezza del vocabolario, non siano così straordinarie: “A un genio non si dovrebbe permettere di fare la fame. Dovrebbe fare la fame a metà, o a tre quarti. Gli serve quel poco di nutrimento per riempire un cestino del pane, ma quel poco gli serve sul serio”. Tutto qua, e il proposito per qualche bella (e importante) lettura sulla linea Parigi-New York andata e ritorno: “Un giorno leggerò Ezra Pound. Leggerò gli Unfinished Cantos al galoppo. Poi leggerò Gertrude Stein e Unamuno. Se ho altro tempo mi dedicherò alla Quarta Ecloga forse pure alle tre Ecloghe che la precedono. E ora chiedo una piccola pausa e un sonnellino. Sono le quattro, secondo il fuso orario orientale; se dormo in fretta posso svegliarmi esattamente alla stessa ora di Nagasaki o del Mozambico. Odio perdere tempo, il tempo è la sola cosa preziosa che possiedo”. Glien servirà parecchio, una volta tornato a casa, perché “l’America è un oceano. E’ tale e tanta che non riesci a vedere né il cielo né l’acqua” e dall’altra parte non c’è nemmeno Parigi ad aspettare. 

martedì 2 ottobre 2012

Don Winslow

Il quadro geopolitico sembra quello di ieri e di oggi visto che nell’estremo quadrante orientale si gioca un intricato confronto tra Cina, Unione Sovietica e Stati Uniti. Il periodo storico è ancora più convulso, dato che si tratta degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, con l’eco di due attacchi nucleari ancora nell’aria: il dominio francese nell’allora Indocina è agli sgoccioli, gli americani si apprestano al cambio di stagione e così fan tutti, dai mafiosi corsi ai ribelli. E’ in questo brulicante caos che Don Winslow spedisce Nikolaj Hel, personaggio pescato e rivisto da Shibumi o Il ritorno delle gru di Trevanian alias Rodney William Whitaker. Un omaggio estrapolato da un saga ben più sinuosa (anche soltanto da un’angolazione cronologica: Shibumi attraversa mezzo secolo, dal 1930 al 1980) che Don Winslow interpreta con grande classe. Nikolaj Hel, già condannato e torturato dagli agenti americani per aver ucciso il generale Kishikawa, viene incaricato di compiere una missione a Pechino, destinata a cambiare l’equilibrio di tutta l’area. “Assassinio è una brutta parola, ma gli elementi fondamentali dell’accordo sono corretti, sì” gli dice Haverford, l’uomo della CIA che gli sta davanti, e in cambio riavrà la sua libertà. Nikolaj Hel non ha alternative: i motivi della morte del generale Kishikawa sono incomprensibili per gli americani e Solange, l’istruttrice che gli hanno destinato per imparare la sua nuova identità, oltre al francese (la lingua, la cucina, lo stile), gli fa conoscere i dettagli non trascurabili del sesso prima e dell’amore poi. Lui si ritrova nell’insegnamento del suo maestro, Kishikawa-san: “Mai prendere il considerazione la possibilità di riuscire, solo l’impossibilità di fallire”. Lei è convinta che “alla fine, esistono solo cibo, vino, sesso e bambini. Sono queste le cose che interessano a tutti. Il resto sono stupidi giochi tra maschi”. Sempre pericolosi, perché è così che l’adrenalina e le endorfine scorrono nelle vene, se non si ha la pazienza e la premura di accorgersi del Satori, ovvero “l’improvviso risveglio, la comprensione della vita come realmente è. Esso non giungeva come risultato della meditazione o del pensiero consapevole, ma poteva arrivare col sussurro del vento, lo scoppiettio di una fiamma, il cadere di una foglia”. Don Winslow è un abile giocatore e Satori si destreggia tra il go e gli scacchi, il fumetto e il cinema, le arti marziali e la spy story, la (buona) cucina e la lirica con un colpo di scena dopo l’altro. L’attitudine è pop, senza dubbio, ed è quella giusta perché Satori riesce a tenere insieme molti linguaggi diversi, e tutti mescolati per ottenere svolte e sorprese ben incise nel solco della storia. La costruzione stessa dei personaggi, l’accellerazione costante del ritmo, persino il convulso finale funzionano così e prendono il lettore come una mossa di hoda korosu, l’arte di uccidere senza armi in cui eccelle Nicolaj Hel. Un remake (o una cover) particolarmente riuscito, visto che Don Winslow si appropria della storia, o meglio di una parte della storia, e ci costruisce il suo personalissimo Satori