giovedì 27 luglio 2023

James Lee Burke

Un temporale sempre in agguato sul golfo e sul bayou. Elettricità nell’aria. Fantasmi che si aggirano negli acquitrini. Una violenza strisciante e costante perché il Sud degli Stati Uniti è così e “la legge in Louisiana non è mai stata pensata per essere applicata”. Ambizioni legittime (e non, il più delle volte) che si scontrano con logiche imperscrutabili, spesso e volentieri in debito con il passato ed è un bel problema visto che “la memoria non ritorna al momento opportuno”. Fedelissimo al suo titolo, Robicheaux è un’apoteosi totale e incontrollata del mondo di James Lee Burke, dove ormai i personaggi vivono di vita propria, tanto che la trama può cominciare da qualsiasi dettaglio, qui nello specifico da una spada della guerra civile. Un cimelio che passa di mano, ma che riflette una storia controversa che somma i comportamenti di Jimmy Nightingale, un bel candidato a una rapida carriera politica, Bobby Earl e altri delinquenti assortiti, compreso l’ultimo arrivato, Smiley, un killer disadattato e micidiale che presto o tardi ritroveremo ancora. L’intreccio è densissimo, James Lee Burke non si risparmia neanche un po’, tra le righe risale tutta la saga di Robicheaux e infila una serie personaggi, a partire proprio da Dave Robicheaux che, avendo perso la moglie Molly in un incidente stradale, è vittima e colpevole (o forse no) mentre intorno a lui i colpevoli diventano vittime, uno dopo l’altro. È l’apoteosi del suo mondo (e di quello di Clete Purcel). Il cibo, il clima, la musica, la vita sulla e nella strada, New Orleans in tutte le pronunce, lo sfondo dei drammi americani (la storia parte dalla schiavitù e nel finale arriva al Super Dome, l’improvvisato rifugio dall’uragano Katrina), i disastri ambientali e umani nonché il fatto che “la demagogia è stata un dato di fatto; la misogamia, il razzismo e l’omofobia sono diventate virtù religiose, l’ignoranza autocompiaciuta è divenuta motivo di orgoglio” (e così, non solo in Louisiana): c’è tutto in Robicheaux, e senza alcun sconto. James Lee Burke si concede ogni ammiccamento possibile verso il lettore (e direi che può permetterselo), in cerca di una complicità che non si può rifiutare. Nel complesso Robicheaux è una specie di condensato antologico delle gesta degli eroi di James Lee Burke dove la tradizione riflessiva e filosofica di Streak raggiunge picchi assoluti. La dicotomia tra bene e male non è così chiara, anche se la collocazione di Robicheaux non si discute, ma si sono un sacco di zone grigie e nebbiose che coinvolgono tutti su uno stesso terreno, paludoso e insidioso. La sua sintesi, in corso d’opera, è lapidaria: “Ho sempre creduto che non ci sia alcun mistero nei comportamenti umani. Siamo la somma delle nostre azioni. Ma non era così che stavano andando le cose”. La distanza tra intelligenza e moralità o tra caparbietà e resistenza si consuma in una torbida vicenda che ha sullo sfondo una fitta filigrana di violenze sessuali, particolarmente odiose. I bersagli, neanche a dirlo, sono le donne, ma l’ambiguità, che è l’atmosfera che respirano tutti, non consente particolari rimedi e/o difese. I luoghi comuni sono sradicati uno dopo l’altro e Robicheaux ammette che “il contributo maggiore alla soluzione dei casi non lo dà il laboratorio ma l’informatore, di solito qualcuno che ha saltato l’addestramento all’uso del wc e non sa fare un panino con burro d’arachidi nemmeno con le istruzioni illustrate”. Questo è il milieu in cui è costretto a muoversi e se anche Clete Purcel si limita (almeno per un po’), lui deve confrontarsi sempre più spesso con un istinto che lo porta inevitabilmente ad aprire una porta dopo l’altro sui peggiori scenari del degrado umano. Niente finisce per sempre, nonostante una scia di sangue che pare inarrestabile: Robicheaux è un tuffo senza rete che James Lee Burke elabora ripercorrendo passo per passo il suo stile: ruvido, diretto, martellante e ipnotico come un blues che si ripete all’infinito raccontando la realtà e il cinema, il bianco e il nero, la luce e il buio, la vita e la morte.

mercoledì 19 luglio 2023

James Welch

Il luogo è il limite e la plateale contraddizione è nella visuale degli spazi aperti, infiniti che si aprono all’inizio, maestosi e incombenti, “un panorama più vasto di quanto ci si potesse immaginare”, e saranno la cornice alla fine, in fondo a una strada senza via d’uscita. Ci si arriva per gradi: L’ultimo giorno di Jim Loney funziona come un vortice che ruota attorno al suo protagonista e via coinvolge progressivamente un nugolo di abitanti di Harlem, Montana. Loney, spaesato e disorientato,  è tutto concentrato su se stesso: si accontenta di niente (“Le cose che gli servivano erano poche e nessuna era urgente”) e “negli ultimi anni era diventato una specie di non-persona, come può accadere solo in una piccola città, una piccola città del Montana”. Come dice Jim Harrison, Jim Loney è “un mutante sociale”, un essere “invisibile” le cui giornate sono condite di pessimo vino, da “un amore senza pretese” con Rhea, dal  fragile legame con la sorella Kate che gli dice: “Ti meriti di vivere”, ma lei se ne è andata da tempo. L’opzione della partenza è più di una tentazione, soprattutto nel perdurare dell’inverno, ma se le possibilità si riducono alla pioggia di Seattle, l’alternativa non sarà mai sufficiente. Jim Loney deve averlo già intuito e resta avvinghiato al ridottissimo paesaggio umano perché sta cercando qualcosa di più. Quello di Loney, il tentativo di “crearsi un passato, delle radici, delle origini, qualcosa che gli avrebbe detto chi era” è un puro dilemma americano, profondo e irrisolto ed è lì che Hank Williams appare come la neve: inevitabile. I’m So Lonesome I Could Cry esce dalla radio e determina il corso del racconto, spezzandolo, allargandolo e dividendo i destini dei protagonisti. Da quel momento è come se Jim Loney diventasse magnetico e la storia si apre in tutte le direzioni, nello spazio, e soprattutto nel tempo, da cui affiora una danza di fantasmi, vivi e morti. Il primo è il padre, responsabile di aver abbandonato i figli. Una porta si apre verso il passato, Jim entra e, insieme, esce, ma ormai è troppo tardi. Secondo lui il padre “non sa niente, non gli importa niente, e ciò lo rende innocente”, visto che non può dargli alcun risposta, e quello che gli dice non fa altro che precipitare la situazione. James Welch, con una scrittura lirica e drammatica, non fa sconti: la realtà dei nativi è quella di essere stranieri e profughi sulla propria terra, confinati nelle riserve che sono un confine invalicabile, peggio delle pessime abitudini  di ogni smalltown che si rispetti. La sua è la voce di un estraneo al bancone del bar (è lì che succede tutto) che ti racconta tutto sulla fiducia. Il whiskey è un’attrazione pericolosa, e non si può scappare. Ogni singola cosa, nei contrasti fortissimi tra grande e piccolo, vicino e lontano, gli orizzonti spalancati e le finestre chiuse assume un particolare significato. Ci vuole un occhio allenano e James Welch inquadra così uno dei momenti salienti che rischiarano L’ultimo giorno di Jim Loney: “Mentre cercava di accendere un altro fiammifero per un’altra sigaretta, si accorse che gli tremavano le mani. Gli sarebbe piaciuto credere che tremassero per il freddo, ma capì senza pensarci che tremavano perché non c’era vero amore nella sua vita; che in qualche modo, a un certo punto, tutto era andato terribilmente storto e, sebbene ciò riguardasse in parte la sua famiglia, riguardava totalmente lui”. Un gesto, un ricordo, un singolo frammento “la candela, la bottiglia di vino, la lettera davanti a lui, tutto ardeva chiaramente nei suoi occhi ma era come se non fosse reale nella sua mente” ed è lì che ci porta James Welch, dentro il cuore buio della solitudine e della dissoluzione, tra l’altro con un finale praticamente perfetto, quasi un’elegia, un inchino al paesaggio, impervio e bellissimo. Nella giusta prefazione, Jim Harrison scrive: “I romanzi sono pensati per ampliare la mente, non per rispondere a questioni letterarie” ed, ecco, proprio così, non c’è esempio migliore.

lunedì 17 luglio 2023

Lauret Edith Savoy

Una volta un caro amico le ha chiesto  “se la storia riguardasse più l’oblio e la cancellazione che il ricordo e il compimento”. Per trovare una risposta, Lauret Edith Savoy ha intrapreso un lungo percorso coast to Coast inseguendo Tracce e radici, scavando come una geologa, ma con lo spirito dell’attivista, sapendo che “ciascuno di noi è, a suo modo, un paesaggio scolpito da memoria e perdita”. Il suo proposito di “ramment(d)are”, un concetto ibrido tra il tentativo di ricucire e ricordare verso un’ipotesi di storia condivisa la costringe a risalire un albero genealogico, in parte nativo, in pare afroamericano, che è particolarmente difficile affrontare in un paese come gli Stati Uniti, che soffre di frequenti e inguaribili amnesie. “Ogni paesaggio è un’accumulazione” scrive Donald Meinig citato in una nelle epigrafi e Lauret Edith Savoy affronta quella “terra straniera” incastonata in un’idea di nazione che si regge su sedimenti brutali. La sua ricerca, tra i libri e sul campo, è continua e assidua: la visione è diretta, senza filtri, e aggiunge un tassello dopo l’altro, condividendo la fondamentale cognizione di Keith Basso per cui “fare luogo significa sia fare la storia umana che costruire tradizioni sociali e, nel processo, identità personali e sociali. Noi siamo, in un certo senso, i mondi-luogo che immaginiamo”. Dal massacro di Sand Creek ai Buffalo Soldiers, dalla schiavitù, alla predazione dei terreni, e il genocidio, e la diaspora, e le guerre: quello di Lauret Edith Savoy è uno slalom tra “impronte. Pezzi di memoria. Cose lasciate indietro” e la necessità di dare forma a una geografia della speranza. L’identità, o quella che Clarence Dutton chiama “la lenta acquisizione del senso e dello spirito”, affiora nella minuziosa ricostruzione delle parole (“Immaginate i nomi. Immaginate le origini”) e nei legami con i luoghi (“Una terra immensa si estende intorno a noi. Nazioni intere migrano dentro di noi”) che Lauret Edith Savoy condensa in una limpida dichiarazione d’intenti: “Io cerco le radici del Nord America. Io cerco visioni scaturite dai nuovi venuti di continenti che non siano l’Europa. Cerco, naturalmente, germi linguistici della mia stessa presenza”. Le guide letterarie vanno da Aldo Leopold a Gloria Anzaldúa, da Walt Whitman a Thoreau e le Tracce emergono a strati, nella compressione continentale, nelle mutazioni dell’ambiente così come nell’accavallarsi dei ricordi e “il pensiero corre sempre al tempo che passa, alla memoria in ogni sua forma che diventa incisione sulla terra”. Il linguaggio è una forma e uno strumento, è gioia e tormento che per Lauret Edith Savoy necessita di pause e soste nella convinzione che “per una narrazione il silenzio può essere santuario o cornice. Può celare anche le origini”. Seguendo tutte le Tracce non si attraversa soltanto un intero e problematico continente, con tutte le meraviglie (naturali) e le lacerazioni (umane), ma si è costretti a confrontarsi con l’ineluttabilità dell’esperienza davanti alle sorprese dell’esistenza che vanno da una scatola piena di lettere e fotografie alla metamorfosi di un intero panorama. Come dice giustamente Lauret Edith Savoy, “interrogati dalla vita, siamo chiamati a rispondere” ed è lì che il viaggio comincia (e finisce).

venerdì 7 luglio 2023

John Steinbeck

La guerra del Vietnam vista da un patriota americano al di sopra di ogni sospetto: è l’inizio del 1967, il peggio deve ancora venire, e convinto che “le guerre e le voci di guerra si assomigliano tutte”, Steinbeck decide di toccare con mano cosa sta succedendo e recupera le vecchie credenziali di inviato al fronte, convinto di “comporre lo scenario”, così come si presentava ai suoi occhi. La vista inganna più di altri sensi, ma John Steinbeck decide di seguirla: è un osservatore scrupoloso e partecipe e, visto che la guerra si fa con le armi, non solo descrive il funzionamento, i meccanismi, l’uso di fucili, lanciagranate, obici, razzi, mitragliatrici, tutto il potenziale bellico made in U.S.A., ma prova ogni tipo di di mezzo, sale su aerei, elicotteri e barche e partecipa ad azioni, bombardamenti, pattugliamenti. Annota i dettagli con entusiasmo, convinto che “uno scrittore onesto è alla mercé di ciò che vede, ode e sente”. Il coinvolgimento è univoco, e così il suo punto di vista: “Ho cercato di scrivere quello che ho visto, sentito e pensato in questa parte del mondo. Di necessità le mie lettere sono state semplici impressioni, niente di profondo o permanente. Ma sono stato sincero o difenderò le mie impressioni contro le convinzioni granitiche di chi non è mai stato qua”. È un riscontro ambivalente che la sua corrispondenza celebra continuazione. L’obiettivo è esserci e la distanza, anche critica, è tra chi c’è e chi non c’è in prima linea. Anche questa è una riduzione semplicistica, vista la complessità della guerra, ma la concretezza di John Steinbeck non ammette deroghe: “Che nesso c’è fra durata nel tempo e superficialità? A volte lo sguardo veloce e ingenuo di un occhio e di un cervello impreparati e non indottrinati è più penetrante di una lunga esperienza che ha smussato una sfaccettatura, ne ha modificata un’altra, e un’altra ha creato per bisogno, vantaggio o delusione personali. No, la durata nel tempo, cioè l’esperienza prolungata di un luogo o di una situazione, risente dell’umana propensione a far sì che il nostro mondo offuschi o addirittura cancelli ciò che c’è in quel luogo: anche questa è solo opinione, ma per qualche motivo questo tipo di opinione gode di grande rispetto”. La posizione a favore dell’intervento americano è discussa a lungo, ma incespica nelle contraddizioni con la realtà. Steinbeck sembra intuire che qualcosa non va, al punto di accorgersi che “alla fine quaggiù le cose diventano anche personali”. Viaggia anche in Laos, Thailandia e Cambogia, e Indonesia, sulla vita del ritorno. È un testimone acuto e un viaggiatore instancabile, ma gli sfugge l’essenza coloniale o post-coloniale di quelle guerre, la divisione del Vietnam, e riconduce tutto allo schema manicheo della guerra fredda. La semplificazione regge solo nell’immediato e infatti John Steinbeck si concentra sulle impressioni di viaggio, sulle difficoltà ambientali, sulla natura del conflitto finché “viene sempre il momento di fare i conti, e in guerra i conti sono sempre tristi”. Nei suoi reportage c’è tutta la contraddizione dell’intervento che Steinbeck risolve dicendo di non aver celebrato la guerra “ma solo degli uomini coraggiosi” e i passaggi più densi sono quelli dove, più che argomentare, racconta ed evoca l’atmosfera e l’inquietudine sperimentate dal vivo: “Una notte senza azione, fatta solo di attesa, in cui ascolti suoni che non ci sono, e vedi forme che non esistono: una notte così non finisce mai”. L’esperienza resta brutale finché lo stesso Steinbeck confessa: “So quello che voglio dire, ma non so altrettanto bene come dirlo” e deve ammettere che “questa guerra lascia davvero confusi”, e su questo non c’è alcun dubbio. Piccola nota a margine: le lettere dal Vietnam sono indirizzate ad Alicia Patterson Guggenheim, moglie di Harry, editore del Newsday, giornale da quattrocentomila lettori quotidiani. È la corrispondenza con un fantasma, e non è l’unico che popola queste pagine.