martedì 30 settembre 2014

Mark Strand

Ogni raccolta di liriche di Mark Strand è una sorpresa. In Quasi invisibile opta per una forma particolare, si tratta infatti, di piccoli frammenti di prosa, ma il risultato non cambia. Per varcarne la soglia, basta il piccolo esempio di Nasconditi la faccia tra le mani: “Non c’è modo di dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così profondamente distante”. La scrittura di Mark Strand è salda, solida ed efficace eppure leggiadra e fantastica, nel senso più ampio del termine: una lingua sempre fluida e trasparente, anche quando attraversa snodi singolari e paradossali di cui peraltro è zeppo Quasi invisibile. L’apice, il concentrato e il senso stesso della sua attitudine poetica è tutto in Notturno del poeta che amava la luna: “Lasciamo che la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è un tavolo”. Una missione impossibile di questi tempi, ma che Mark Strand continua ad assolvere con estrema naturalezza e Quasi invisibile, in questo senso è eloquente: L’enigma dell’infinitesimale è la quintessenza della sua percezione e così L’eternità provvisoria, splendido ossimoro, perché è tutto indefinito, sfuggente, vago e troppo umano e soltanto la scrittura riesce a dare un minimo di ordine. La soluzione della prosa, piccole schegge incastrate nel bianco delle pagine, non allontana mai Mark Strand dal suo stile, piuttosto ne esalta l’origine, l’immediatezza mettendola in risalto, anche quando sembra regalare un simulacro di commiato in Una lettera da Tegucigalpa: “Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e ogni nuova pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza”. La poesia diventa una lente di ingrandimento, un traduttore spontaneo della realtà in linguaggio o nel riflesso più credibile che si possa immaginare, anche quando Mark Strand si chiede: “Stiamo andando da qualche parte? Io non credo, non stavolta. Questo è già il prossimo secolo, e guarda dove ci troviamo”. Difficile dirlo meglio di così.

martedì 23 settembre 2014

Mark Twain

Il fitto patchwork di cui è composto Il pretendente americano è uno squarcio postmoderno ante litteram, caotico e allegro andante, un laboratorio di idee che rivela una pantomima del potere e dei simboli di cui si nutre e con cui si manifesta. Parecchio visionario, anche rispetto ai suoi personalissimi standard, l’azzardo di Mark Twain ha ancora, in tutta la sua spontanea esuberanza, una specifica attualità nell’irridere i luoghi comuni e le convenzioni che reggono le strutture della civiltà così come la conosciamo, dalle scale gerarchiche alle (inamovibili) caste, dai governi agli strumenti di comunicazione. Qualcosa ricorda, fatte le debite proporzioni geografiche e temporali (Mark Twain ci arriva giusto con mezzo secolo di anticipo) e prese le adeguate misure stilistiche, Il gattopardo, almeno nel concetto essenziale che sta nel nucleo effervescente del romanzo. Attraverso le gesta di Mulberry Sellers, indomito ed esperto sognatore, nonché quelle di Howard Tracy, aristocratico inglese alla scoperta della democrazia americana, e le loro molteplici forme d’espressione “il lettore è invitato a sfogliare le pagine e, di volta in volta, a servirsene man mano che procede nella lettura”, per ritrovarsi nell’ennesima rappresentazione delle distorsioni del potere costituito, e della sua corruzione. Le immagini valgono per le “impressioni d’America”, e così a tutte le latitudini immaginabili: il gusto provocatorio rimane tale e quale perché, come dice lo stesso Mark Twain, Il pretendente americano “finora è stato sulla scena senza problemi; quindi corriamo di nuovo il rischio, questa volta sentendoci abbastanza al sicuro perché tutelati dall’istituto della prescrizione”. Con questa fondamentale premessa Mark Twain ha lasciato esplodere i fuochi d’artificio della sua immaginazione così come quella di Mulberry Sellers, rendendo Il pretendente americano un romanzo atipico, estremo, coraggioso, spigoloso e ironico, almeno quanto irriverente. Anche per questo è un libro che ha avuto bisogno di parecchi anni per essere compreso, così come è riuscita a identificarlo Bobbie Ann Mason: “Il pretendente americano è un enorme divertimento. Sono qui a celebrare la folle energia di questo strano romanzo. In esso abbiamo il piacere di vedere la fantasia di Mark Twain andare addirittura fuori di testa”. E’ così, Il pretendente americano è Mark Twain al cubo, più libero e spiritato che mai: la sua composizione prevede diversi toni e forme che si alternano e si sovrappongono, seguendo un percorso tortuoso, non sempre agevole. Anche dal punto di vista stilistico, Mark Twain elude tutte le gabbie, procedendo per variazioni improvvise, salti spaziali e temporali, sempre con un ghigno insistente e ricorrente tra le righe, compreso lo spostamento, in blocco, delle condizioni climatiche in un’apposita appendice, scombinando fino alla fine anche le impostazioni del libro in sé. Una piccola curiosità: è anche il primo romanzo dettato al fonografo da Mark Twain e una certa corrosività sembra averne giovato.

venerdì 19 settembre 2014

Raymond Carver

Di cosa parliamo quando parliamo di amore è la raccolta di racconti che marca la differenza tra le due vite vissute da Raymond Carver. Le storie sono attinte da un arco temporale compreso tra il 1974 e il 1981 ed è proprio lì in mezzo che va individuata la svolta che lo ha portato a dire: “Il passato è davvero un paese straniero in cui le cose si fanno in maniera diversa. Sono cose che succedono. Ho davvero l’impressione di aver avuto due vite diverse”. La trasformazione comincia, non a caso, fin dall’inizio: Perché non ballate? è il primo racconto scritto da sobrio e anche lo sgombero finale delle suppellettili da parte di “un uomo di mezza età”, un tratto significativo della storia, è un riferimento, nemmeno tanto metaforico, all’autobiografia di Carver. La sua scrittura nasce e resta così: quei minuscoli bozzetti scritti rubandoli alla propria esistenza, dispensano il minimo contatto con la realtà, il più profondo possibile. L’approccio non è mediato, non c’è alcun particolare rilievo grammaticale, le immagini sono sempre sfocate nei contorni eppure precise (persino crudeli) nel delineare l’atmosfera e nell’ampio spazio lasciato al lettore, i personaggi sembrano inclini a non affrontare la vita con progetti, sogni, destinazioni o qualche semplice illusione, sembrano onde in balia del mare, quando già non spiaggiate sulla ruvida sabbia. Il distacco con cui Raymond Carver ricostruisce spezzoni di quelle vite, e insieme riordina anche frammenti della sua, verrebbe da dire, appare quasi freddo e chirurgico, ma non c’è errore più grosso. Nella sua attenzione alle parole, e nelle libertà concesse (o meno) al suo editor, Gordon Lish, per i tagli e le limature, (nel’occasione piuttosto drastico), Raymond Carver è andato a cercare una precisione sempre più raffinata e Di cosa parliamo quando parliamo di amore è un passaggio davvero importante, come ammetteva lui stesso: “Tanto per cominciare è una racconta molto più circospetta delle altre, nel senso che ogni mossa è più attenta, più calcolata. Sono racconti che ho manipolato e rielaborato più volte prima di inserirli nel libro, come non avevo mai fatto prima con gli altri”. Lo si vede anche in Tanta acqua così vicino a casa in cui una luce teatrale, fissa, sia negli interni che negli esterni, riporta al suo spostamento geografico, quando si trasferì a Port Angeles, una città davanti all’oceano e attraversata da una mezza dozzina di fiumi. E’ stato un turning point importante e definitivo e non solo perché ha detto: “Ho ancora pesci da pescare e storie da raccontare”. In quel momento, e per la prima volta in entrambe le sue vite, Raymond Carver ebbe a disposizione un’intera stanza per sé, per la sua macchina da scrivere e per le sue short stories, un traguardo che gli sembrava impossibile e che contribuì in modo notevole alla sua metamorfosi, salutata poi così: “Dopo il successo ottenuto da Di cosa parliamo quando parliamo di amore, ho acquistato una sicurezza che non avevo mai provato prima”. Parafrasando la definizione che ha coniato per quel luogo di lavoro, ecco, con Carver abbiamo imparato che la letteratura è “un lusso e una necessità”. 

martedì 16 settembre 2014

John Williams

Il viaggio, andata e ritorno, da e per Butcher’s Crossing, cambia gli uomini che partono a caccia di bisonti e alla fine sono costretti a vivere in simbiosi con l’essenza stessa della wilderness. Arriveranno a nutrirsi (solo) di carne di bisonte, a vestirsi con le pelli, persino ad abitarci dentro, dopo averne sterminato un’intera mandria in una valle sperduta nelle montagne del Colorado. Resisteranno a tutte le intemperie (o quasi), fino a quando non dovranno fare i conti con la tempesta più imprevedibile, la legge del mercato, della domanda e dell’offerta, trascinata dall’arrivo della ferrovia che sta trasformando per sempre l’America. Siamo nel  1873 e William Andrews arriva a Butcher’s Crossing con l’idea di verificare la bellezza e la crudeltà della wilderness, nonché le leggende e i miraggi prodotti dalle corse verso il West. Nell’organizzare la sua spedizione, assembla un quartetto che è caratteristico nell’elencare le tipologie dei personaggi. Charley Hoge, alcolizzato, ha perso una mano nel gelo di un’altra stagione di caccia, è un credente devoto ed è il conducente dei carri nonché il cuoco, anche se il menù prevede solo sempre carne secca, fagioli e caffè bollente. Fred Schneider, il migliore macellaio di Butcher’s Crossing, è l’esperto riottoso e taciturno, che vorrà essere pagato con puntualità, anche dove i soldi non valgono niente, ovvero nel bel mezzo di una tormenta di neve. Miller, il cacciatore, è il leader che non si ferma davanti a niente ed è persino visionario nel suo inseguire e cacciare i bisonti. Andrews è il giovane intraprendente che vuole scoprire la verità sul West, sulla natura e sulla vita, laggiù dove albergano “la santità che oscura le nostre religioni, e la realtà che discredita i nostri eroi” come scrive Ralph Waldo Emerson, posto in epigrafe insieme a Melville.  Ad Andrews “la natura gli si era presentata in modo così puro da esercitare i suoi poteri d’attrazione con la forza necessaria per far breccia nella sua volontà, nelle sue abitudini, nelle sue idee”. Il fascino si rivelerà un drammatico abbaglio: la spedizione, trascinata dalla bramosia di Miller si risolverà in un dramma perché cambiano le stagioni e i ruscelli diventano torrenti e i torrenti diventano frontiere invalicabili, e non è finita perché, tornati a Butcher’s Crossing, si ritroveranno in una ghost town. Il racconto di John Williams è rigoroso, il linguaggio è concentrato e “stick to the plan”, davvero aderente alla storia, inestricabile dalla sua essenza americana perché come dice lo scorbutico Schneider “questo è un paese molto grande e di sicuro non c’è proprio niente”. La supremazia della wilderness, che vive i suoi tempi del tutto indifferente ai destini dei viaggiatori, e l’avidità come unica stella polare vengono interpretate da John Williams attraverso un grande romanzo, un affresco molto vicino alla realtà storica e nello stesso tempo valido per ogni altra latitudine. Tambureggiante dall’inizio alla fine Butcher’s Crossing è lirico, maestoso e spettacolare nel mostrare la prospettiva della wilderness che incombe sugli uomini, sempre convinti di essere superiori, sempre disperati nei loro fallimenti.

domenica 7 settembre 2014

Benjamin Alire Sáenz

Il Kentucky Club è un capolinea dell’umanità, un bar sul border che unisce e divide la stessa città spaccata in due, El Paso e Juaréz. Chi ci arriva non deve soltanto varcare la frontiera, nella notte, e andare come un rabdomante in cerca di qualcosa che non c’è più. E’ costretto ad affrontare la realtà di un incubo in cui spariscono le persone, le lingue, i riferimenti e persino una parvenza di civiltà. Le storie di famiglie sgangherate, violenza e ancora violenza, solitudine, disperazione e abbandono si susseguono e i personaggi non hanno in comune soltanto il ritrovo notturno al Kentucky Club. I racconti si inanellano uno con l’altro e hanno qualcosa in più di una costante aderenza, perché molti dei caratteri potrebbero essere intercambiabili. Se Tutto inizia e finisce al Kentucky Club non è proprio un romanzo, non è difficile immaginare una visione complessiva d’insieme che si traduce in un senso imminente e immane di tragedia quale è il destino di una (due) città, “così caotica, violenta e capricciosa, una città che bramava il sangue dai suoi stessi abitanti”. La lettura e la letteratura in qualche modo sono una precaria via d’uscita, se non proprio la salvezza per gran parte dei protagonisti, perché come ammette uno di loro “a volte, leggere mi fa sentire vivo”, e così il Kentucky Club è una specie di ultima spiaggia per tutta un’umanità a cui serve disperatamente un briciolo d’amore per sopravvivere. Benjamin Alire Sáenz è uno scrittore che non teme di frugare nella polvere, lo stile è essenziale, lascia spazio al lettore per muoversi con lui e con i suoi personaggi nelle atmosfere notturne e crepuscolari delle storie, che in realtà non sono poi così prive di speranza. E’ anche una scrittura molto aspra, scorticata ed estrema. Il concentrato dei racconti sembra favorire quel modello. I personaggi sono nello stesso tempo designati con tagli netti, precisi, senza sbavature. Mantengono un’aura di sfuggente bellezza, come se fossero provvisori, almeno quanto è provvisoria la vita tra El Paso e Juaréz e il Kentucky Club, dove Benjamin Alire Sáenz ha posto un punto fermo, una sorta di boa attorno a cui prima o poi ruotano tutte le scialuppe di salvataggio malandate dei personaggi, solo che il mare lì fuori è un deserto. Colonna sonora di Louis Armstrong, Billie Holiday, Miles Davis, Ray Charles, Janis Joplin, i Beatles citati in A volte la pioggia e Joni Mitchell in Il gioco del dolore. Le loro note sottolineano le ferite tracciate dai confini che dividono marito e moglie, figli e genitori o gli amanti separati dalla vita, dalle storie, dalle parole dette come da quelle non dette. Un margine di luce si intravede sempre, per quanto minimo e rarefatto, e il primo racconto di Tutto inizia e finisce al Kentucky Club, una delicata storia d’amore spazzata via da una forza oscura, invisibile, spietata e inspiegabile offre una particolare chiave di lettura, valida anche per tutti gli altri racconti, dove Benjamin Alire Sáenz scrive: “Se vivi al confine, puoi innamorarti della tragedia senza per questo essere tragico a tua volta”.

giovedì 4 settembre 2014

Jack Henry Abbott

Più che un libro, Nel ventre della bestia è un’arma contundente, un cahier de doléances senza freni e senza inibizioni nei confronti del sistema carcerario e del ruolo repressivo all’interno della società. Un autentico grido di dolore, figlio della certezza che “niente che tocchi il cuore umano è assurdo”. In gran parte Nel ventre della bestia si sviluppa dal dialogo epistolare con Norman Mailer che adottò, sul piano intellettuale, Jack Henry Abbott, all’epoca della corrispondenza incarcerato per rapina a mano armata e per l’omicidio di un altro detenuto. Scrive proprio Norman Mailer nella prefazione: “Non c’è bisogno di aggiungere che ciò che era vero era anche come guardare in un pozzo senza fondo. Leggere le lettere di Abbott non aiutava a fare sogni tranquilli”. Non c’è dubbio: il flusso di coscienza di Jack Henry Abbott, il racconto in prima persona delle condizioni di vita (e di morte) nelle prigioni americane è forte, micidiale, senza alternative: una testimonianza durissima e univoca, e non è difficile immaginare come e perché Norman Mailer ne sia rimasto affascinato visto che, come diceva, Nel ventre della bestia si trova “la verità della letteratura come espressione umana che sopravvive a tutti gli ostacoli”. Jack Henry Abbott scrive senza particolari freni, il suo diario è un fiume in piena senza soluzione di continuità perché ha vissuto sempre e soltanto Nel ventre della bestia e la sua è una storia senso unico. E’ inevitabile che sia così, anche se Jack Henry Abbott si aggrappa alle letture, alla filosofia, alla scienza e alla scrittura in modo disperato perché, confessa, “ho bisogno della bellezza come ho bisogno di respirare”. Si percepisce quell’urgenza così come il peso di una testimonianza livida, atroce, senza correzioni e/o limature di una battaglia spietata che non prevede tregue, perchè come diceva Jack Henry Abbott: “Ora, io ci tengo parecchio a me stesso e non posso accettare l’idea di non essere in grado di adattarmi alla libertà. Anche se questo dovesse significare che passerò la mia vita dentro, perché per me il carcere non è altro che ammutinamento e rivolta”. Purtroppo, la sua, di storia, ha avuto la prevedibile e tragica conclusione destinata a chi è stato e si è nutrito per tutta la vita di violenza, anche se è vero che “al fondo, gli uomini hanno dei princìpi; le volgarità sono acquisite”. Uscito dal carcere nel 1981, Jack Henry Abbott uccise un’altra persona, venne condannato a quindici anni di reclusione e a pagare i danni alla famiglia, tanto che non vide mai un dollaro dei diritti d’autore di Nel ventre della bestia. Tornato al suo orrido buco, Jack Henry Abbott si suicidò nel 2002, un gesto estremo e irrevocabile perché il suicidio è la dimostrazione che c’è qualcosa di peggiore della morte. E’ così che Jack Henry Abbott si è negato fino alla fine, a “un corpo politico infracidito di cattiva coscienza” (Norman Mailer dixit) e dopo aver letto Nel ventre della bestia non appare poi tanto paradossale e assurdo, come sembrerebbe a prima vista. Usare con cautela, lascia il segno.