giovedì 30 giugno 2011

John Cheever

E’ con Il nuotatore, ritratto di un personaggio che vuole attraversare la contea solcando le piscine e si scontra, alla fine, con una casa disabitata, metafora di un capolinea evidente e inevitabile che John Cheever traccia un’ambiziosa cartografia di quell’ambiente suburbano, lo stesso che hanno raccontato Richard Yates (con più acidità) e Richard Ford (con più dolcezza) che costituisce un luogo della mente in cui è capace di navigare e affrontare con inaudita precisione. Gli Halloran, i Westerhazy, i Bunker, gli Hammer, gli Howland, i Crosscup, i Graham, i Lear, i Welcher, i Lindley, i Levy, i Towers, i Merrill, i Sachs, i Clyde: l’elenco fornisce le coordinate di un paesaggio in cui ogni piccola variazione del tran tran quotidiano diventa una dramma. Se in Un giorno qualsiasi, la caccia a uno sfortunato procione si trasforma persino in qualcosa di epico, la mancanza di un elettrodomestico (il surgelatore in Un giorno qualsiasi) o la sua presenza (la radio, ovviamente, in Una radio straordinaria) determina la qualità della vita dei personaggi. Una radio straordinaria può andare bene fino a quando trasmette Mozart, Chopin, Beethoven (manca un po’ di rock’n’roll, bisogna dirlo), ma quando intercetta tra le onde dell’etere (attraverso una commedia) dialoghi che sembrano gli stessi dei protagonisti diventa un pericolo e nelle domande di Irene la paura di identificarsi è tangibile: “La vita è troppo spaventosa, troppo sordida e angosciosa. Ma noi non siamo mai stati come loro, vero tesoro? Lo siamo stati? Voglio dire, noi siamo sempre stati buoni e sensibili e affettuosi l’uno con l’altro, non è vero? E abbiamo due bambini, due bellissimi bambini. La vita non  sordida, vero che non lo è, tesoro?”, e la risposta del marito è ambiguità e ovvietà coincidono al millimetro ed è in questa chirurgica precisione tutta la forza di John Cheever. Altrimenti compresa fino in fondo dall’immancabile Fernanda Pivano che nella prefazione ha scritto: “In questo clima sofisticato ha continuato a descrivere il mondo che lo circondava, da moralista ostinato, generoso, elegante, divertito, interessato al perbenismo e alla rispettabilità dei suoi concittadini. Con la sua prosa lapidaria e la sua narrazione raffinata e sempre più compressa, ha raccontato storie di feste sui prati, o fragili avvenimenti di pendolari, o avventure di persone apparentemente tranquille, di abitudini serene, pacate, che parevano felici. In realtà nei suoi personaggi, la serenità era soffocata, la tranquillità repressa, la felicità artificiale, e questo rendeva più commoventi le vicende conformiste dei suoi benestanti delusi, frustrati, dolenti; in realtà della borghesia descriveva i problemi oltre che i costumi in racconti tristi, intrisi di pessimismo e carichi di una disperazione tanto più drammatica quanto più immersa sotto la superficie levigata delle false apparenze”. L’analisi non fa una piega ed è la traduzione puntuale di quello che John Cheever chiamava “l’amore per la luce e la decisione di tracciare una catena morale dell’essere”. Missione compiuta.

John Fante

John Fante è stato il capostipite, il barfly per eccellenza che ha poi istruito e cresciuto generazioni e generazioni di outsider riconducibili da una parte a Tom Waits e dall’altra a Charles Bukowski, il suo primo ammiratore e naturale debitore (“Fante ha avuto una grande influenza su di me”) che ha capito più tutti il senso ultimo del suo stile: “Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni”. Chiedi alla polvere diventerà ed è ancora un modello di riferimento perché John Fante riunisce il carattere ribelle dello spirito giovanile con la prima percezione della maturità e quindi con la coscienza della sconfitta come elemento caratteristico della vita americana, e non solo. Arturo Bandini è l’emblema del loser irrispettoso, caustico e incontrollabile che proprio con Chiedi alla polvere comincia a vivere di vita propria. E’ il ramo più antico di quell’albero genealogico che poi vedrà gli illustri Henry Chinaski per Charles Bukowski e Frank Leroux, l’epigone dei “rain dogs” di Tom Waits rileggerne e interpretarne le gesta in un saga, tutta californiana, di splendidi fuoriclasse la cui essenza è descritta proprio tra le righe di Chiedi alla polvere: “Non tiratevi mai indietro di fronte a una nuova esperienza. Vivete la vita fino in fondo, prendetela di petto, non lasciatevi sfuggire nulla”. Anche la scrittura nasce nello stesso modo, istintivo e istintivo, come se Arturo Bandini e John Fante avessero in comune soprattutto l’appartenenza a una categoria fuori dagli schemi che se proprio deve affrontare l’ossessione della scrittura se la prende con comodo, più con il senso dell’abbandono che con la disciplina: “Hai davanti a te dieci anni per scrivere un libro, vacci piano, allora, guardati attorno e impara qualcosa, gira per le strade”. La vita, la vera e unica fonte d’ispirazione, si trova lì e come ha scritto Stephen Cooper, Chiedi alla polvere “rappresenta un esempio notevole di necessità realistica e forza poetica. Rispetto agli altri tre romanzi della saga Bandini, e a tutte le opere che recano il nome John Fante, irradia un’aura di precisione senza tempo nel narrare i desideri di un giovane: quello di scrivere e poi, pensiero fisso, alla fine controproducente, di un amore ricambiato”. Il tono è proprio quello, accorato ed esagerato, frutto per ammissione dello stesso John Fante di “sei settimane, tre, quattro, a volte cinque ore dolcissime ogni giorno, ore di delizia; le pagine si accumulavano una sull’altra e ogni desiderio era spento. Mi sentivo come un fantasma che fluttuava sulla terra, ero in pace col mondo e straordinarie ondate di tenerezza mi sommergevano quando mi mescolavo alla folla per le strade e parlavo con la gente”. Chiedi alla polvere e ti sarà dato: se ha un senso, la parabola di John Fante, è proprio questo.

martedì 28 giugno 2011

Philip Roth

C’è una distanza siderale tra il più recente Philip Roth e quello di Il teatro di Sabbath, ritratto volitivo, esuberante e scoppietante di un satiro genialoide. Eppure molte delle radici dei toni crepuscolari dei suoi ultimi romanzi arrivano proprio da qui, perché diventa chiaro che, primo, “la gente va in pezzi, così. E invecchiare non aiuta” e, secondo, “non si possono dare appuntamenti al tramonto della vita”. Rivisto in prospettiva, Il teatro di Sabbath è uno snodo essenziale della narrativa di Philip Roth. Scriveva all’epoca il critico Frank Kermode: “Mi sembra essenziale che venga compresa la serietà delle immagini trasgressive di Roth: egli ride della vita e della morte con serietà. In questo nuovo libro la vita viene presentata come una callosità ribelle che si oppone alla morte e ai suoi araldi, la vecchiaia e l’impotenza. La soluzione possibile è una sola, la vita non può vincere contro l’ultimo nemico. Nel migliore dei casi può mettere in scena uno spettacolo scandalosamente buono”. Non si poteva dire meglio: è l’effetto che fanno le peripezie di Mickey Sabbath, un personaggio indimenticabile anche perché “se non fossero esistiti la guerra, la follia, la perversione, la morbosità, l’imbecillità, il suicidio e la morte, era probabile che lui sarebbe stato molto più in forma”. Come si può leggere nel romanzo di Philip Roth, riesce a cavarsela in modo egregio, prendendosi spesso una vacanza dal malcontento, perché tanto “chiunque abbia un un po’ di cervello è consapevole di vivere una vita stupida anche mentre la sta vivendo. Chiunque abbia un po’ di cervello sa di essere destinato a condurre una vita stupida perché non ne esistono di altro genere. Non è proprio un fatto personale”. Con Philip Roth non è mai un fatto personale e le regole dell’attrazione valgono per un’intera nazione anche quando suonano false in modo tanto evidente quanto palese. Come dice Drenka, all’inizio di Il teatro di Sabbath: “Io? A me non interessava la politica. Ero come i miei genitori. Ai tempi della vecchia Jugoslavia, quando c’era il re e tutto il resto, prima del comunismo, loro volevano bene al re. Poi è arrivato il comunismo, e viva il comunismo. A me piaceva l’avventura. L’America mi pareva così fantastica e affascinante, e così tremendamente diversa. America! Hollywood! Soldi! Perché me ne sono andata? Ero una ragazza: andavo dove ci si divertiva di più”. Anche se da molto tempo, ormai, Mickey Sabbath non vive più i furori e le urgenze della gioventù si prepara al grande passo con una perfida vena di ironia, svolazzando, grazie alle superbe escursioni stilistiche di Philip Roth, da un volo pindarico all’altro, una serie di colpi di teatro regolati da quella che è “la legge della vita: fluttuazione. Per ogni pensiero, un pensiero opposto, per ogni impulso, un impulso contrario. Non c’è da stupirsi se uno o impazzisce e muore o decide di scomparire. Troppi impulsi, e questo non è neanche un decimo della storia”. In effetti, esagerato ed eccentrico com’è, Il teatro di Sabbath è un Big Bang i cui effetti sono ancora in gran parte sconosciuti. 

Thomas Wolfe

La scoperta della “gran cosa”, come Henry James chiamò la morte quando venne la sua ora, avviene per Thomas Wolfe attraverso tre vittime dichiarate (in realtà ce ne sarà una quarta e ce ne sono milioni tutti i giorni) il cui grave destino si manifesta all’improvviso nelle strade di New York. La prima vittima è un ambulante italiano travolto in un incidente stradale che “oscurò subito lo splendore dell’aria e la radiosa magia della primavera, scacciando ogni gioia e speranza dai cuori degli uomini presenti, perché si manifestò come una selvaggia e inappellabile condanna”. La seconda vittima è un homeless il cui volto, al momento della morte, svela “una storia fatta di orizzonti solitari e lunghe distanze, ruote pesanti e luccicanti strade ferrate, ruggine e acciaio, risse sanguinose e incolte terre selvagge”. Il nulla, in un parola, che la folla raccolta in cerchio attorno al corpo senza vita, una presenza costante in Orgogliosa sorella morte, archivia senza tanti patemi perché “d’altra parte si sa, è la fine che fanno. Presto o tardi, finiscono tutti così. Succede sempre con gente come questa”. La frase che vorrebbe essere un esorcismo suona più sbrigativa che cinica e Thomas Wolfe affida all’anima della città stessa, le parole di un’elegia più efficace: “Non sono né gentile, né crudele, né amorevole, né vendicativa: sono solo indifferente a tutti voi, perché so che altri vi sostituiranno quando ve ne sarete andati, e altri nasceranno quando morirete, e si leveranno a milioni quando sarete caduti, e la città, l’immortale città, risorgerà per sempre riversandosi come una grandiosa marea su questa terra”. La morte rientra nei confini della città e la città si nutre del fluire della vita e della morte dei suoi abitanti celebrandoli a quella che Thomas Wolfe chiama “l’eterna brevità” dei giorni che si moltiplicano tutti identici e tutti diversi. La sua scrittura, anche nella succinta natura di Orgogliosa sorella morte, è un trionfo di parole ed emozioni che collimano nel fissare l’essenza della città agli attimi finali dei suoi abitanti. Con una prosa eloquente: “E mi sembrava che tutta la varia e complessa vita su questa nostra terra fosse davvero come un’immensa fiera. Si ergevano le impalcature per ospitare le bancarelle, i chioschi, le giostre e tutti gli altri luoghi di divertimento. Era lì che gli uomini compravano e vendevano e commerciavano, mangiavano, bevevano, odiavano, amavano e morivano, in un susseguirsi di mode che loro credevano eterne. Ecco dunque l’antica, eterna fiera, ogni notte vuota e deserta e poi di nuovo pullulante di gente e facce nuove e folla brulicante tra le innumerevoli stradine: gente che nasce, invecchia, si ammala e infine muore”. Quello che Thomas Wolfe perpetua come una sfida con Orgogliosa sorella morte, e la sua influenza nella letteratura americana è qui tangibile più che mai, è  “qualcosa di nobile, gretto, volgare, e insieme eroico, raro e glorioso di cui siamo partecipi tutti noi umani”. Obbligatorio riscoprirlo. 

lunedì 27 giugno 2011

Neil Smith

Billy Lafitte, il protagonista di Yellow Medicine, è uno vicesceriffo con una percezione piuttosto vaga della linea di demarcazione della legalità. In quelle condizioni un posto vale l’altro anche se ben presto scopre che una smalltown del Midwest ha tutti i suoi segreti e i suoi dark places che ben si adattano alle regole che s’inventa per delimitare il suo territorio di caccia. “Ero in esilio dal mondo reale” dice all’inizio di Yellow Medicine per chiarire la sua condizione esistenziale e nel passaggio che l’ha portato dal Mississippi sconvolto dagli uragani al piatto e monotono Minnesota qualcosa si è perso, è rimasto lontano o nascosto per sempre nelle pieghe della tempesta: la moglie (da cui è separato), i figli, uno o due cadaveri segnano il suo passato e il nuovo paesaggio non lo aiuta certo a ritrovarli e a ritrovarsi. Anzi, è un elemento disorientate perché “certe volte il Minnesota poteva essere sconvolgente, nelle sue bellezze naturali, ma un istante dopo ti ritrovavi a chiederti se non fosse stata soltanto una crudele illusione ottica. Avevo sentito dire che bastava spingersi verso nord per trovare diecimila laghi e foreste e una natura selvaggia che ti mozza il respiro. Il guaio era che la parte meridionale dello stato sembrava dovessero ancora completarla”. Si tratta di luoghi gelosi della propria indipendenza, compresa quella di elaborarsi le loro metanfetamine, come già in un’altra era venivano raffinati whiskey da combattimento, e dove il melting pot americano si è fermato tra le ruvide origini scandinave dei pionieri e l’ostica (e mai del tutto domata) resistenza sioux. Questo è l’humus in cui il moderno e globale capitalismo fa irruzione a Yellow Medicine con una miscela proibitiva di ambizioni strategiche sul mercato della droga destinate a finanziare operazioni terroristiche su larga scala. Figurarsi come Billy Lafitte, uno abituato al massimo a studenti ubriachi o a mariti che hanno perso la via di casa, può affrontare una formazione con ramificazioni arabe e orientali e un’organizzazione militare e micidiale. I suoi modi operativi sono molto distanti dalla normale routine dell’ufficio dello sceriffo ed è lui stesso ad ammetterlo: “Lo so, cosa state pensando. Che sono un figlio di puttana. Un autentico stronzo. L’unica mia risposta è che non obbligo nessuno a fare qualcosa che non desidera. Sono pronto a rischiare l’osso del collo ventiquattr’ore al giorno, per proteggere i miei concittadini, quindi se mi capita di andare ben oltre il mio dovere per dare una mano a una ragazza in difficoltà, il modo in cui lei decide di mostrarmi la sua gratitudine non è affar mio”. Billy è fatto così, inutile negarlo, e non è l’eroe di Yellow Medicine, il cavaliere senza macchia e senza paura (anzi), ma come un folle deus ex machina risolve la storia a modo suo. Neil Smith non concede nulla: il ritmo è denso, duro e feroce e Yellow Medicine è azione e reazione allo stato puro, crudo e genuino come un grande film di serie b, che in fondo sarebbe il suo giusto destino.

domenica 26 giugno 2011

Henry Miller

L’apologia del clown secondo Henry Miller parte da una circus story per approdare a una visione anche urticante. Il circo, va da sé, è una rappresentazione perfetta, se non proprio un riflesso della moderna vita delle immagini e della comunicazione, e nessuno più del clown ha il potenziale per interpretarla fino in fondo. Una maschera che ha solleticato pittori visionari come Miró, Chagall, Seurat che, a loro volta, hanno fornito il background ideale per le limpide linee di Henry Miller. Il suo tratto in Il sorriso ai piedi della scala è più rarefatto e plastico dei florilegi che appariranno in seguito ed è perfetto nella costruzione della personalità combattuta e paradossale del clown. L’osservazione della vita del circo, una metafora che è sempre funzionale, si evolve e diventa qualcosa in più perché “il circo è un breve spazio d’oblio separato dal resto del mondo” e Henry Miller sfrutta l’ispirazione pittorica e surreale per raccontare la sua verità, la sua realtà. In uno snodo fondamentale della sua carriera, Il sorriso ai piedi della scala è un breve e sorprendente gioiello lirico, molto coraggioso nel formato e superbo nella scrittura, raffinata ai limiti della poesia in tutti i suoi passaggi ed elevata nel lasciarsi impressionare dal personaggio del clown, vero e frutto della fantasia nello stesso momento. Come precisa Henry Miller nella postilla finale a Il sorriso ai piedi della scala: “In parole, in immagini, in atti, tutte queste benedette anime che mi hanno tenuto compagnia hanno dato testimonianza dell’eterna realtà della loro visione. Un giorno il loro mondo quotidiano diventerà il nostro. Anzi, è già il nostro, solo che siamo troppo immiseriti per avere il coraggio di proclamarlo apertamente”. Il clown “è un poeta in azione. E’ lui stesso la storia che interpreta. E la stori è sempre uguale: adorazione, devozione, crocifissione” e Augusto, il pagliaccio di Henry Miller è una riflessione sulla natura dell’artista, sulla complessità di un’identità che deve convivere con la contraddizione di essere se stesso soltanto con una maschera, visto che “la sua vera tragedia, cominciava a capire, stava nel fatto di essere incapace di comunicare agli altri quella scoperta: che esisteva un altro mondo, un mondo al di là dell’ignoranza, al di là del caduco, al di là del pianto e del riso”. Anche nella difficoltà di distinguere il clown da “una dirompente tempesta d’oltraggi”, attraverso il personaggio ispirato dalla realtà del circo da quello disegnato seguendo i tagli surreali, Henry Miller riesce a sintetizzare un’indicazione fondamentale: “Sii te stesso, soltanto te stesso: è una gran cosa. Ma come fare, come arrivarci? Ecco il lazzo, la piroetta più difficile di tutto il repertorio. Ed è difficile proprio perché non ci vuole niente. Non hai da cercar d’esser questo o quello, grande o piccolo, furbo o maldestro… Mi senti? Fa’ quello che ti capita. Fallo con buona grazia, s’intende. Perché non c’è nulla che non abbia importanza. Nulla”. Vale per il clown e per tutti gli artisti (e non solo).

David Leavitt

All’inizio era tutto meno di zero: anni spropositati di abbagli, colori sparati in faccia, divertimento a tutti i costi, prendi e porta via. Una filosofia che rispecchiava la politica e l’economia dell’epoca, che glorificava il nulla ed era destinata per la sua stessa conformazione, essendo soltanto un’effervescente bolla, ad esplodere. In questo contesto, è stato funzionale allo scopo, sbattere tre giovanissimi scrittori sulle prime pagine dei giornali sotto l’etichetta forzosa e limitante di minimalisti, che riletta oggi vale poco o niente. Con la loro prosa a raccontare l’effimero e il trasparente, Bret Easton Ellis, Jay McInerney e David Leavitt sembravano destinati ad un successo folgorante (e all’inizio fu veramente così) e infinito, ma poi la vita, la vita vera, cominciò a presentare le sue credenziali, e quando quegli anni passarono, i loro nomi diventarono, sì, una consuetudine negli scaffali delle librerie, ma ben presto del falò delle vanità rimasero soltanto il ricordo delle scintille iniziali e il dubbio che fosse soltanto un fuoco d’artificio. Dei tre, David Leavitt è quello che ci ha rimesso più di tutti: Bret Easton Ellis ha ritrovato tutte le mille luci di New York in quel capolavoro dell’assurdo che è American Psycho e Jay McInerney ha imparato le regole dell'attrazione da Hemingway e Carver e forse è rimasto il più autorevole osservatore della compagnia ma lui, l’elegante narratore di Ballo di famiglia e di La lingua perduta delle gru sembra essere rimasto prigioniero della nostalgia e dei cliché del giovane ricco, viziato e vuoto, una parola che andava forte ai tempi del suo esordio. In Arkansas questa incapacità di lasciarsi alle spalle quei temi, ormai diventati luoghi comuni è plateale. Dei tre racconti che lo compongono, solo la storia di dolore e di amicizia che c’è dentro Saturn Street riesce in qualche modo a comunicare un po’ di calore, un po’ di emozione. Negli altri David Leavitt non è capace di districarsi da un formato ormai schematico, dalla prosa colloquiale, da quel mood freddino e sopra le righe che, se vent’anni fa stupiva tutto e tutti, a distanza nel tempo suona monotono e ripetitivo. Con un po’ di buona volontà si possono salvare le descrizioni paesaggistiche e culinarie di Nozze di legno (un titolo banale per un racconto ambientato tra le colline della Toscana), ma il resto è davvero troppo poco anche per uno che si chiama David Leavitt: la trama (un classico intreccio amoroso basato su una canonica sequenza di equivoci e scambi di ruoli) non ha ambizioni particolari, i dettagli sfuggono, i personaggi sono confusi, con ogni probabilità quanto e come il loro autore. Meglio lasciar perdere il racconto iniziale, L’artista dei saggi di fine trimestre (autocompiacimento allo stato puro) e fare il punto della situazione: Arkansas vale solo per Saturn Street, che è davvero degno del talento di David Leavitt, ma un racconto su tre è una media che forse poteva andava bene un secolo fa. Oggi, non basta nemmeno per cominciare.

venerdì 24 giugno 2011

Charles Bukowski

Il Bukowski che lotta nel Post Office è ancora il principe delle contraddizioni che prova a integrarsi in un mondo che, in tutta evidenza, non è e non sarà mai il suo. “Cominciò per sbaglio” come recita il memorabile incipit di Post Office, ma almeno all’inizio il lavoro non è male: “c’era tempo per starsene un po’ al bar, per leggere i giornali, per sentirsi umani”, ed è già qualcosa. Lo stesso John Prine, per raccontare un’esperienza molto simile al Post Office bukowskiano, trovò il modo e il tempo di avviarsi verso quella splendida carriera di songwriter che ben conosciamo. Il problema è che “non si può imparare più di tanto” da un lavoro che si ripete e nemmeno da un capo portato al delirio d’onnipotenza (sono tutti uguali) anche perché “ non è vero che ci si abitua, si è sempre più stanchi, semplicemente”. Le condizioni di lavoro sono faticose, in qualche caso umilianti, il più delle volte soltanto monotone e frustranti. Tirare avanti è il minimo sindacale. Trovarci un significato che possa avere un senso e durare qualcosa in più di un stagione, è già un altro discorso. Per Chinaski alias Bukowski, ci vuole qualcosa in più del tran tran di un Post Office, essendo uno capace di trovarsi un sacco di impegni, lavoro escluso: le corse dei cavalli, bere e scopare non sono solo le voci in cima alla sua personale classifica delle priorità vitali. Sembrano delimitare, insieme all’indimenticabile carrellata di personaggi femminili (Betty, Joyce, Vi, May Lou e Fay) una linea difensiva, un modo per proteggere una zona vitale intoccabile e impenetrabile, tutta ed esclusivamente sua. Gli servirà tutta una vita per esprimere fino in fondo la speciale natura del suo mondo. Il percorso verso la scrittura non è semplice (non lo è mai, in effetti), ma per Bukowski alias Chinaski trascrivere le sue esperienze quotidiane e incontrarsi sulle pagine è qualcosa di molto simile a una rivelazione. Quello che nasce come un diario blue collar, con molta passione e senza tanti fronzoli, si trasforma via via mentre ribadisce l’essenza delle sue indispensabili necessità, in un manifesto degli outsider, come dice alla girlfriend del momento: “Senti, tesoro, mi dispiace, ma non so se ti rendi conto che questo lavoro mi manda ai matti. Senti, lasciamo perdere, eh? Facciamo come prima, eh? Niente lavoro, l’amore tutto il giorno, qualche passeggiata, chiacchieriamo un po’. Andiamo allo zoo. A guardare gli animali. Andiamo alla spiaggia a guardare l’oceano. Ci vogliono solo 45 minuti. Andiamo al luna park. Andiamo alle corse, al museo, agli incontri di boxe. Facciamoci qualche amico. Ridiamo. Questa vita è monotona, come quella di tutti gli altri: ci sta uccidendo”. Post Office non è solo il cahier de doléances di un loser dall’inguaribile vena polemica, che si cimenta con passione e abilità soltanto in poche attività (non certo edificanti, almeno secondo i luoghi comuni): è l’addio definitivo ai tentativi di rientrare nei ranghi e insieme un sano sberleffo alla maggioranza silenziosa. 

Karl Marlantes

Il Matterhorn (che poi sarebbe il monte Cervino) è il nome dato dai topografi militari americani a una cima strategica in una zona di confine tra il Vietnam e il Laos. Uno dei tanti punti sulle mappe da combattimento per cui, all’alba del 1969, generali e colonnelli avrebbero fatto qualsiasi cosa, a partire con lo spedire al massacro i propri soldati. In Vietnam “la guerra era diventata un affare troppo tecnico e complesso, e quella guerra in particolare era diventata troppo politica” visto che ricalcava, in terra straniera, le dinamiche dell’intera America. Una guerra di attrito, più che per il controllo del territorio: il body count dei nemici è artefatto; quello dei marines è impietoso. Le colline disseminate di cadaveri, la nebbia, i monsoni, la malaria: il paesaggio viene dipinto all’infinito, uno strato dopo l’altro, sempre uguale, e un sudario di morte ricopre tutto e tutti: alla fine “la giungla e la morte erano le sole cose pulite di quella guerra”. Karl Marlantes non perde un attimo, nemmeno una riga per esprimere una sua valutazione, un’opinione: Matterhorn è tutto azione perché è l’azione che conta in guerra, non il movente. Illustra, racconta e spiega, anche a costo di ripetersi (spesso), i meccanismi brutali, le contraddizioni, le diatribe, gli errori e gli atti di coraggio che portano i marines a lottare per ogni singolo centrimetro di fango e di merda. Lo stesso protagonista di Matterhorn, Mellas (Wayno è il nome che viene pronunciato di rado), soffre la sindrome del sopravvissuto. Ha visto i suoi migliori uomini, i suoi migliori amici, morire senza nemmeno poter chiedere aiuto. Ha subito ordini e contrordini (o ordini frammentari, che è più specifico e rende meglio l’idea). Deve fare attenzione alle tensioni razziali, sempre più evidenti e pericolose nonché ambigue, infine. Ed è costrettto a scoprire che “vivere, soccombendo alla follia, era l’estrema rinuncia a qualsiasi forma di orgoglio”. Karl Marlantes ha modo di descrivere in maniera inequivocabile i movimenti, gli schemi, le soluzioni e gli istinti, gli improvvisi e le deviazioni che costituiscono il caso e insieme il destino in guerra. Molte immagini sembrano provenire da visioni del Vietnam piuttosto che dal Vietnam stesso. La tigre assassina da Apocalypse Now, l’osso spezzato sulla roccia dal Cacciatore, le dinamiche tra graduati e soldati da Platoon, i colpi d’artiglieria sugli elefanti da Nell’esercito del faraone di Tobias Wolff e l’elenco potrebbe continuare un altro bel po’ perché Matterhorn arriva buon ultimo a riassumere anni e anni di infiniti tormenti. Come tutto il Vietnam, anche Matterhorn è il frutto malato di un’ossessione e assembla tutte le esperienze della guerra, certo partendo dalla realtà vissuta da Karl Marlantes, ma trasformandola in un monito. E’ compreso tra gli acronimi RHIP (il rango ha i suoi privilegi) e RIP, anche se nella giungla nessuno riposa in pace perché in Vietnam “non c’era modo di tappare i buchi causati dalla morte” che è il modo con cui Karl Marlantes in Matterhorn dice, compresa l’amarissima sequenza finale, che in guerra non c’è mai scampo. Nemmeno per chi si salva. 

Joseph McElroy

Guardare il mondo dalla finestra, in attesa di eventi, può sembrare un attività riduttiva e autoreferente, se non proprio romantica e ottocentesca. Ma se l’orizzonte è lo skyline di New York tra la fine del ventesimo secolo e il tragico inizio di quello successivo, l’osservazione dall’immobilità offre una prospettiva unica, in tutta la sua complessità. La copertina di Exponential è eloquente: una civetta delle nevi, le ali spiegate, il bianco dell’inverno e, sullo sfondo, come fantasmi, le Twin Towers, New York. Essenziale, elegante, raffinata, bellissima. Anche funzionale, perché è proprio quello il punto di vista che Joseph McElroy cerca di tratteggiare collezionando una lucidissima raccolta di saggi che virano con naturalezza verso il racconto. E’ il mondo visto dal basso, dai piccoli particolari che fanno una vita, una storia. Lo stile di Joseph McElroy, per quanto documentato e puntuale, è un passo oltre il reportage e l’analisi, molto più verso una forma raffinata ed evoluta di narrativa. Funziona sia per eventi ormai lontani nel tempo (come la rilettura della missione dell’Apollo 17) sia per la riscoperta dei libri di Italo Calvino e Samuel Beckett (tra gli altri): Exponential, alla fine, è molto di più della somma dei singoli addendi perché ogni segmento è collegato all’altro da una sottile e precisa rete di intersezioni, nodi, legami. E’ un patchwork, qualcosa che, parafrasando lo stesso Joseph McElroy, “si costruisce. Liberamente condiviso, un po’ confuso, americano”. Associare, per esempio, due apocalissi, quella naturale del Mount St. Helens e quella umana degli attentati dell’11 settembre 2001, può essere davvero una rivelazione, ma è qualcosa che Joseph McElroy evita accuratamente. Quello è un compito che lascia al lettore: le visioni e le letture di Exponential sono convincenti proprio perché con la continua ricercatezza del dettaglio accompagnano un tono narrativo lineare, apparentemente distaccato, forse freddo, come la giornata d’inverno ritratta sulla copertina. Però proprio come le ali bianchissime, le penne che si allungano verso il cielo e si stagliano con precisione nell’aria di New York, Joseph McElroy riesce a distiguere lo sfondo dal primo piano, il tran tran delle notizie dalla loro percezione, il mondo com’è o come lo vorremmo, lo scrittore dal lettore perché, come si legge in un passaggio essenziale di Exponential, significativo anche per comprendere il senso del titolo, “molta esperienza proviene dai buoni libri. Non sarebbe lì se non fosse distillata, come se l'esperienza (ma si tratta piuttosto del tentativo di darle espressione) fosse distillazione; e non sarebbe vera se non fosse per la mia esperienza, per me. Impariamo costruendo su quello che sappiamo o abbiamo per metà dimenticato. La mia storia sulla tua, anche se una storia può distogliervi da una certa altra realtà con lo stesso facile agio con cui può misteriosamente rappresentarla in modo pieno”. La spiegazione è convincente ed Exponential è consigliatissimo.

martedì 21 giugno 2011

Bernard Malamud

Personaggi che hanno davanti i rimasugli senza vita di vecchi sogni e a cui restano poche pretese, che però difendono fino alla morte, come Kessler, l’inquilino di Lamento funebre. Personaggi rosi da qualche tormento (quello della scrittura in particolare) come il protagonista che insegue La ragazza dei miei sogni. Spiccioli di vite, nel Lower East Side, dove passano le giornate in piccoli negozi, luoghi pubblici in cui prende forma, attraverso umili lavori che vanno avanti per inerzia, una lingua che si snoda in frasi brevi, secche e brucianti e dialoghi che non lasciano speranze. Adatta alla durezza degli eventi, dei tempi e dei luoghi. Anche in scenari diversi da New York, come i paesaggi italiani, il lago Maggiore, Roma, “Roma, città di perpetua sorpresa, gli aveva fatto una brutta sorpresa”, i personaggi di Bernard Malamud sono attorcigliati alle proprie sconfitte, a partire dalla famiglia di Ecco la chiave, cronaca di agghiaccianti “vacanze romane”. L’amarezza è il tratto comune a tutti e un volto dopo l’altro i protagonisti delle short stories di Bernard Malamud vanno a formare un’umanità dolente, affranta, indecisa, tenuta insieme dal dolore, imprigionata negli errori e nei sotterfugi. Dalla bambina cleptomane di Abbi pietà al finto studioso di Un’estate di letture, Il barile magico è una fonte inesaurible di storie che sono l’elemento primario della scrittura di Bernard Malamud: “Storie, storie: per me non esiste altro. Spesso gli scrittori che non riescono a inventare una storia seguono altre strategie, perfino sostituendo lo stile alla narrazione”. D’altra parte, sostiene sempre Bernard Malamud “le storie ci accompagneranno finché esisterà l’uomo. Lo si capisce, in parte, dall’effetto che hanno sui bambini. Grazie alle storie i bambini capiscono che il mistero non li ucciderà. Grazie alle storie scoprono di avere un futuro”. Per lui, per gli uomini e le donne che allinea Il barile magico il tempo è spesso declinato al passato perché, come dice Isabella, alias La dama del lago, “Noi siamo ebrei. Il mio passato ha un senso, per me. Faccio tesoro di ciò per cui ho sofferto”. L’esistenza tutta è una concessione limitata, e anche se “il compimento è nel futuro”, Il barile magico brucia le storie nell’irrimediabile presente mettendo all’angolo tanto i personaggi quanto il lettore, due figure che nelle sue storie spesso coincidono. Se, nella fiction, la lettura diventa una consolazione (come succede con Manischevitz, il sarto in L’angelo Levine: “Non leggeva veramente, perché i suoi pensieri erano altrove; però i caratteri stampati offrivano ai suoi occhi un comodo luogo di riposo, e qualche parola qua e là, quando lui si concedeva di comprenderne il senso, aveva l’effetto momentaneo di aiutarlo a dimenticare le sue disgrazie”) in realtà la scrittura è ruvida, aspra, una frustata dopo l’altra: usando la velocità delle short stories in modo perfetto, senza sprecare una parola, Bernard Malamud non ha esitazioni a trascinare il lettore nei bassifondi della vita.

Jack Kerouac

I sotterranei sono l’altra faccia di Sulla strada: è la costruzione di una “scena”, di un paesaggio (e poco importa se l’ambientazione originale a New York è stata trasferita per sommi motivi sulla West Coast), di un profilo etico ed estetico, per sua natura indefinibile, caleidoscopico, volubile e aleatorio. In sé, I sotterranei è uno dei primi possibili identikit della Beat Generation, a partire dai suggerimenti sul “metodo” da usare nella scrittura: “Non fate periodi che separino frasi-strutture già confuse arbitrariamente da falsi punti e virgola e da timide virgole per lo più inutili, ma servitevi di un energico spacco che separi il respiro retorico (come il musicista jazz prende fiato tra le varie frasi suonate). Gerry Mulligan, Billy Eckstine, Sarah Vaughan e l’infinito Charlie Parker: c’è molto jazz e c’è molto Jack (Kerouac) nei Sotterranei e “poiché il tempo è l’essenza della purezza del discorso, il linguaggio è un indisturbato flusso dalla mente di segrete idee-parole personali, un esprimere (come fanno i musicisti jazz) il soggetto dell’immagine”, lo scorrere delle parole non ha soluzioni di continuità, è una “forza vulcanica”, come la definisce Henry Miller, che attorno a una proibitiva storia d’amore celebra un suo particolarissimo senso del tempo. La percezione più accurata è, ancora una volta, di Fernanda Pivano: “Non esiste futuro, non esiste passato nel caos del suo mondo; esiste solo uno strano, istantaneo presente, inesplicabile e nemico, che solo la liberazione dalle dimensioni dello spazio e del tempo può far provvisoriamente superare. Gli elementi per superarle sono soprattutto fisiologici (come l’orgasmo) o mistici (come le visioni) o passionali (come il jazz) o artificiali (come la droga); ma da questo superamento può derivare una realtà poetica insieme a una realtà di vita. Evidentemente è una realtà destinata a durare soltanto per l’istante di liberazione offerto da quegli elementi: per Kerouac è destinato a durare soltanto per il momento dello scrivere”. Conta, certo, il fatto che tra I sotterranei e Sulla strada, Jack Kerouac abbia “violentato a tal punto la nostra immacolata prosa che essa non potrà più rifarsi una verginità”, come scriveva Henry Miller nell’introduzione, così come ha avuto un suo peso la sua forza dirompente che costrinse anche i soliti censori a riconoscere nei Sotterranei “un’opera d’arte”, ma quello che si impone più che un metodo o una posizione, è una nuova forma di vita. “Senti un po’ questo qui sta sveglio tutta la santa notte con le orecchie e con gli occhi. Una notte di mill’anni. Ascolta in grembo a sua madre, ascolta in culla, ascolta a scuola, ascolta nella sala borsa della vita dove si barattano sogni contro oro. E bada: è stufo di ascoltare. Vuole muoversi. Sbocciare. Ma tu glielo permetti?” e Jack Kerouac lo chiede senza paura al lettore così come a se stesso, consapevole che è proprio quello il momento in cui “l’affare di mettere i nostri sogni sulla carta” diventa la realtà, l’unica che conti. 

lunedì 13 giugno 2011

Don DeLillo

La storia dell’amore tra Lee Oswald, il più famoso caprio espriatorio nella storia della civiltà occidentale, e la moglie Marina è il primo strato di un romanzo che si sviluppa per accumulo e sedimentazione. Partendo proprio dagli aspetti più intimi e personali della biografia del principale protagonista dell’omicidio di JFK, Don DeLillo spalma Libra su più livelli. Il primo è una lettura delle teorie della cospirazione molto lucida e pertinente che parte da un assunto elementare enunciato così da Don DeLillo: “C’è qualcosa che non ci dicono. Qualcosa di cui non siamo a conoscenza. C’è qualcosa di più. C’è sempre qualcosa di più. E’ di questo che è fatta la storia. E’ la somma totale di tutte le cose che non ci dicono”. La costruzione stessa della personalità di Lee Oswald, un moltiplicarsi di contraddizioni e di passaggi oscuri è una rete in cui è facile rimanere impigliati nel vagheggiare di dietrologie, ma come ha detto Don DeLillo in un’intervista con Fernanda Pivano: “In realtà il complotto mi importava soprattutto per inserire nel libro un elemento di violenza e di inesplicabilità, di imprevedibilità del pericolo moderno, la situazione di gente che vive al limite del terrore in un mondo che ha perduto il senso di una realtà coerente”. Qui si accede ad un piano più inclinato: Lee Oswald “si sentiva parte di qualcosa che scorre giù per il mondo” e l’epigrafe di Libra è la sua personale versione dell’americana e costituzionale ricerca della felicità: “La felicità non si fonda su noi stessi, non consiste in una piccola casa, nel prendere e nel ricevere. La felicità è partecipare a quella lotta dove non esiste confine fra il nostro mondo personale e quello degli altri”. Scegliere una causa e comprare un’arma collimano quell’idea di democrazia che vale “il diritto di appartenere a una minoranza senza essere soppresso”. Quando Lee Oswald si trova nel posto sbagliato al momento giusto il suo diario, la sua biografia, i suoi ascendenti (Libra è il suo segno zodiacale) collassano con l’ambizione di entrare nella storia, di lasciare un segno indelebile del proprio passaggio terreno perché “avvenimenti potenti generano un sistema proprio di incoerenze. I fatti semplici eludono il riconoscimento di autenticità”. Minuscolo granello in un misterioso turbinìo di tossin storiche, Lee Oswald viene rivelato da Don DeLillo nella cornice del più emblematico loser e, come tale, diventa un modello, se non proprio un archetipo di un fallimento che ha nel culto delle Colt e delle Smith & Wesson la sua espressione di fede, così come si legge nella conclusione di Libra: “Dopo Oswald, agli uomini in America non viene più richiesto di condurre una vita di calma disperazione. Fai domanda per una carta di credito, compri una pistola, giri per la città, i sobborghi e le strade dei negozi, anonimo, anonimo, in cerca dell’occasione per sparare al primo volto famoso, paffuto e vuoto, solo per fare sapere alla gente che lì fuori c’è qualcuno che legge i giornali”. Un manuale di sopravvivenza.

mercoledì 8 giugno 2011

Stephen King

Quello dei racconti di A volte ritornano è uno Stephen King spinto dall’urgenza dell’espressione e il formato del racconto lo spinge a scrivere con una particolare verve, più da storyteller che da scrittore, ruolo che lui stesso si ritaglia su misura: “Non sono un grande artista, ma ho sempre sentito il bisogno di scrivere. Così, ogni giorno torno a frugare la fanghiglia, riesaminando frammenti, scartati in precedenza, di ossessione, di ricordo, di riflessione, cercando di cavare qualcosa dal materiale che non è passato attraverso il filtro per perdersi poi giù per lo scarico del subconscio”. Quello che Stephen King cerca di plasmare, prima di tutto è una visione delle paure, in tutte le loro dimensioni, fino a quella più ancestrale che si cela sotto le nostre lenzuola: “Captiamo la forma. I bambini l’afferrano facilmente, la dimenticano, tornano a impararla da adulti. La forma è là, e tutti arriviamo presto o tardi a comprendere che cosa è: è la forma di un cadavere sotto un lenzuolo. Tutte le nostre paure assommano a una sola, grande paura, fanno tutte parte di quell’unica paura: un braccio, una gamba, un dito, un orecchio. Abbiamo paura del cadavere sotto il lenzuolo. E’ il nostro cadavere. E il grande significato della narrativa dell’orrore, in tutte le epoche, è che essa serve da prova generale per la nostra morte”. Forse è soltanto un esorcismo, ma va notato che in A volte ritornano è frequente la rivolta delle periferie e delle smalltown, da Salem a Gatlin, dove protagoniste sno le insurrezioni di esseri umani (spesso un po’ meno umani) che cercano di prendere il controllo e di solito ci riescono. L’horror, nella sua migliore versione, diventa un modo per rendere pubblica e tangibile un’insofferenza, una marginalità che sembra un virus da tenere alla porta. E’ una questione di spazi e di barriere che vengono spezzate: la paura parte sempre da un equilibrio che si rompe e Stephen King è sempre stato il narratore più adatto a comprendere dove comincia e dove finisce quella frattura perché ha sempre messo la storia davanti a tutto, anche alla forma. Dal suo punto di vista, lo scrittore “deve narrare una favola che tenga il lettore o l’ascoltatore affascinato, almeno per un poco, perduto in un mondo che mai fu, mai potrebbe essere. Per tutta la mia vita di scrittore ho sempre sostenuto che, nella narrativa, la storia domini qualsiasi altro aspetto dell’arte dello scrivere; caratterizzazione, tema, atmosfera, nessuna di queste cose ha importanza se la storia è noiosa. Se invece la storia vi prende tutto il resto può essere perdonato”. Non c’è dubbio che i racconti di A volte ritornano siano seminali e forniscano appigli sufficienti, tanto è vero che in più di un caso si sono trasformati in film, così come va ricordato che nella lunga introduzione Stephen King cita, tra gli altri, Kurt Vonnegut e Bob Dylan e sparge già i semi di riflessioni non fiction che poi più avanti diventeranno due dei suoi libri più personali, ovvero Danse Macabre e On Writing. 

martedì 7 giugno 2011

Grace Paley

Grace Paley è stata un caso unico nella letteratura americana. I suoi racconti e le sue poesie hanno il suono cristallino e disordinato della chitarra del giovane Dylan e una capacità di incidere nella pagina con tagli secchi, netti e precisi e senza un filo di retorica, nemmeno per sbaglio. Pagine in apparenza rarefatte e scarnificate eppure quanto mai dense: la scrittura raffinata, le parole tagliate come diamanti grezzi, non una sprecata, spiccano sempre, senza esitazioni. Ma è la voce è nitida, distinta, accorata, come se venisse dalla stanza accanto, una porta lasciata aperta, o emergesse da una lettera confidenziale giunta all’improvviso. Una voce amica destinata a restare e a essere condivisa, che nasce a vive il suo essere americano in modo chiaro e forte come diceva la stessa Grace Paley: “Sono un’americana. Non provo orgoglio patriottico né nulla del genere, ma d’altra parte sono molto interessata a questo paese. Mi interessa la sua storia, e sento che contiene alcune idee di valore che hanno cambiato la vita a tanta gente. Penso ai miei genitori e a tutti gli altri emigranti che sono arrivati qui: sono arrivati per una ragione, e in un modo o nell’altro sono stati soddisfatti”. In Fedeltà, le differenze tra racconto e poesia sono molto sfumate e le distanze tra uno e l’altra sono ridotte a un nulla, come se i due linguaggi fossero intercambiabili. “A scuola studiavo poesia, ecco come ho imparato a scrivere. Scrivo racconti in questo modo perché prima scrivevo poesie” dice ancora Grace Paley e ogni pagina è un’istantanea dai contorni limpidi, un fotogramma inciso nel paesaggio di New York, la registrazione furtiva di un dialogo tra sconosciuti, un appunto sulle stagioni tra la vita e la morte. Se la trama è impalpabile, poco importa perché la risoluta e combattiva Grace Paley aveva un’idea solida e concreta di come si racconta una storia: “Tutti dicono che i miei racconti non hanno trama, e questa cosa mi manda fuori di testa. La trama non è niente; la trama è solamente tempo, una linea temporale. Tutte le nostre storie hanno una linea temporale. Una cosa succede, poi ne succede un’altra”. In Fedeltà, un esempio illuminante è Ho incontrato una donna in aereo, una short story di un centinaio di parole illuminante: c’è tutto nel breve e concentrato spazio di due pagine scarse. Le parole appartengono a una lingua metodica e melodiosa a cui bastano poche frasi per delineare tutta la storia e la  grazia della scrittura di Grace Paley è indiscutibile come se avesse riportato all’essenza della letteratura, ovvero quella letteratura che “non nasce da ciò che sappiamo, ma da ciò che non sappiamo. Ciò che ci incuriosisce. Che ci ossessiona. Che vogliamo conoscere”. A questa definizione, in sé spiazzante, va aggiunta la fedeltà alle idee primarie e persino un risvolto etico, non si può dire altrimenti, perché Grace Paley sosteneva che “è responsabilità del poeta imparare la verità da chi non ha potere”. Solo per questo merita di essere scoperta e riscoperta, letta e riletta.